Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: aprile 2007

Silenzio.

Mstislav Rostropovich non c’è più.

Paris, Théâtre des Champs-Elysées, 09/11/1976

SCHUMANN: Concerto for cello and orchestra, op.129
1. Nicht zu schnell (10’56)
2. Langsam (5’16)
3. Sehr lebhaft (7’41)

4. BLOCH: Schelomo (21’47)

Mstislav Rostropovich
Orchestre National de France
Leonard Bernstein

http://rapidshare. com/files/ 28184456/ Rostropovich_ Bernstein. zip

Pubblicità

Piange il telefono.

Il recente allestimento di “La voix Humaine” a Trieste( chi è interessato può leggere qui la mia recensione per OperaClick ), mi ha dato lo spunto per una breve riflessione sulla ricaduta culturale che ha avuto il lavoro di Jean Cocteau ( poi elaborato in musica da Francis Poulenc ) in ambito cinematografico.
La trama è scarna, secca: una donna in una stanza cerca disperatamente di riallacciare un rapporto amoroso finito parlando col suo (ex) uomo al telefono. Ogni tanto la linea cade, e la querula centralinista è un ulteriore ostacolo al già sincopato dialogo tra i due. Lo spettatore non sente la voce dell’uomo, ma ne indovina le risposte in base alle reazioni della donna.
Due grandi registi, molto distanti tra loro sotto ogni aspetto, Roberto Rossellini e Pedro Almodóvar , hanno tratto ispirazione diretta dal testo.
Rossellini nel 1948 dirige il film “Amore”, che consta di due episodi distinti: il primo è appunto la trasposizione cinematografica del testo teatrale, e fu affidato alla vena istrionica e straordinaria di Anna Magnani.
La turbolenta relazione sentimentale tra i due artisti andava esaurendosi, e proprio questa circostanza ha reso profetiche le parole di Cocteau, che affermò di avere scritto un lavoro che era “un pretesto per un’attrice”.
Anna Magnani s’appropria del testo ed emotivamente, più che con le sue doti di recitazione, fornisce un prezioso valore aggiunto.
Rossellini osserva con l’occhio spietato della cinepresa la performance della grande attrice, usando lo strumento come fosse un microscopio: tutti i dettagli che all’occhio umano possono sfuggire, sono ingigantiti dall’uso metodico e chirurgico del primo piano.
La sofferenza di una donna in un particolare momento della sua storia sentimentale è completamente a nudo. Il neorealismo nella sua espressione più violenta, in un certo senso.
Esattamente quarant’anni dopo, Pedro Almodóvar presentava quello che resta, a mio avviso, il suo miglior film: “Donne sull’orlo di una crisi di nervi”.
Al centro della vicenda, ancora una volta, un amore non corrisposto, finito.
Naturalmente il regista spagnolo è figlio del suo tempo ed aggiorna in base ai suoi umori la vicenda, che comunque ruota intorno alla figura di Pepa, impersonata da una magnifica Carmen Maura.
Il ruolo del telefono è ancora centrale ma, mutatis mutandis, a rendere ancora più impercorribili le distanze sentimentali, appare la segreteria telefonica: un’ulteriore barriera, un altro ostacolo insormontabile per la protagonista.
Almodóvar arricchisce la vicenda di un sapore grottesco, non è Rossellini e la sua concezione di cinema è lontana dal neorealismo in senso stretto.
Il telefono, che in Rossellini e Cocteau è metafora della morte del sentimento e forse anche morte fisica, qui viene esorcizzato nella sua funzione devastatrice dalla protagonista, che strappa il filo e lancia tutto dalla finestra.
Per Anna Magnani l’amore finisce e la vita si ferma, per Carmen Maura l’amore finisce ma la vita va avanti.
Quante tribolazioni col telefono, dannazione e speranza insieme: la linea che cade, l’impersonale segreteria che risponde meccanicamente, senz’anima.
Oggi, forse, qualche relazione amorosa si conclude così, con un paio di sms.
 
“Ma io tvtb”
“Fncl!”
 
O tempora o mores, direi. (strasmile?)
 
 

Donne.

Ieri mattina, in occasione dell’imminente rappresentazione del dittico “La Voix Humaine – Suor Angelica”, la direzione del Teatro Verdi di Trieste, con lodevole iniziativa, ha cominciato una serie d’incontri con gli artisti prima della prima.
Erano presenti, oltre al direttore artistico Umberto Fanni, il sovrintendente Giorgio Zanfagnin e il soprano Daniela Mazzucato, il Maestro Tiziano Severini, il regista Giulio Ciabatti e lo scenografo Pier Paolo Bisleri.
L’appuntamento è stato puntualmente disertato dal pubblico triestino e questa circostanza mi fa inferocire, ma è evidentemente un problema mio che mi ostino a pensare che la conoscenza sia l’unica via per poter esprimere un parere su quello che è messo in scena.
Vabbè, a prescindere.
Sono molto curioso di vedere come funziona questo accostamento un po’ardito, perché se è vero che l’opera di Francis Poulenc nasce come atto unico tratto da un testo di prosa di Jean Cocteau (che fu entusiasta del risultato, tanto da rivolgersi così al compositore: “You have fixed, once and for all, the way to speak my text"), è anche vero che “Suor Angelica” è parte integrante del famoso Trittico pucciniano.
Il fil rouge che dovrebbe legare le due opere è il tema della solitudine femminile, per quanto le due protagoniste siano molto distanti non tanto dal punto di vista storico quanto nell’ambientazione sociale e logistica: una donna in una camera da letto ed una donna in un non meglio precisato monastero.
In entrambe le opere non è prevista la presenza attiva di un uomo, anzi, nel testo francese la donna protagonista non ha neanche un nome proprio: è solo una voce.
Ebbene, credo di poter affermare che questa spersonalizzazione, che può lasciare interdetti, sia la vera forza del lavoro di Cocteau e Poulenc perché rende il personaggio della “voce” ambasciatore della sofferenza di tutte le donne.
Allo stesso modo, Suor Angelica anche se non agisce da sola in scena, perché è circondata dalle compagne di convento, è sola più che mai. Lei non ha scelto il suo destino, non ha una vocazione religiosa originale, è stata chiusa in monastero perché è il disonore della sua famiglia.
Due donne, un sentimento devastante come la solitudine, un solo palcoscenico.
Vedremo quale sarà l’effetto teatrale di questo quinto appuntamento della stagione lirica triestina.
 

Per la serie

Già altre volte ho scritto, senza pudore, dei disastri che riesco a combinare quando sono costretto ad impegnarmi in lavori che richiedono un minimo di manualità.
Gli oggetti evidentemente inanimati prendono vita in modo bizzarro e scatenano una catena d’eventi inquietante.
Altro esempio, ieri pomeriggio.
Mi sono accorto di essere rimasto senza liquido lavavetri in macchina, perciò quando sono arrivato a casa ho deciso di rabboccare l’apposito contenitore.
Roba facile.
Sollevo il cofano e cerco di svitare il tappo del piccolo serbatoio; non so perché mi sento ustionare la mano e d’istinto mollo tutto ed alzo il braccio che va a sbattere violentemente sul bordo del cofano, provocandomi un dolore lancinante al metacarpo ma dotandolo della flessibilità di un babbuino.
Urlando per il dolore mi giro ed inciampo sul tagliaerba che era lì dietro, cado in avanti e per una curiosa coincidenza il bastardo si rovescia e mi vuota addosso una quantità non modica di erba, ben più di quella ammessa per uso personale.
Ora, dovete sapere che io soffro d’allergia, per cui gli occhi mi si sono gonfiati come un pallone, tanto che, lì disteso sul prato, sembravo un rospo enorme.
Mi sono alzato e sputando come un lama boliviano e completamente cieco come un geco ho cercato di entrare a casa. Siccome la mia vista era obnubilata sono finito in un cespuglio nel quale, pazientemente, le api avevano costruito il loro favo.
Indispettite dalla mia presenza non richiesta, sono uscite tutte insieme per manifestarmi la loro insopprimibile simpatia. Io sono terrorizzato dalle api ed ho cominciato a correre ma, un po’ per il panico, un po’ per la scarsa motricità delle mie scarpe, sono rimasto sul posto come quei dementi che corrono sul tapirulan in salotto. Alcune api ne hanno approfittato e mi hanno punto, ma solo sul viso, che si è riempito di bozzi in breve tempo.
Insomma somigliavo in modo inquietante ad una mela cotogna con gli occhi gonfi.
Il mio sollecito vicino di casa, non riconoscendomi in quello stato e pensando che fossi un alieno, ha chiamato la Protezione Civile che ha cercato d’abbattermi a fucilate.
Allora ho chiamato mia moglie, che si stava tagliando le unghie con un machete, chiedendo aiuto; lei non mi ha riconosciuto ed ha urlato: ”No no non puoi essere mio marito, lui è molto più brutto!”.
Allora sono scappato sulla statale dove per fortuna è passato il responsabile del Circo Medrano, che mi ha proposto d’esibirmi per scaldare il pubblico prima della donna barbuta e dell’uomo con due teste.
Ho sempre invidiato i cantanti lirici, perché girano il mondo, ora potrò farlo anch’io, finalmente.
Buona settimana a tutti. (smile)

Furie di donna irata.

“Folli, sonnambule, sartine”: dietro questo titolo un po’ frivolo (esigenze di marketing?), Simonetta Chiappini cela un interessante ed approfondito excursus sui personaggi operistici femminili nell’ottocento italiano, partendo dalla Médée di Cherubini (fine ‘700) fino alle eroine pucciniane del primo quarto del novecento.
Lo stile è divulgativo ma i riferimenti storici e musicali sono rigorosi, precisi; in questo modo il libro può essere apprezzato sia dal neofita curioso sia dal melomane più esigente.
La lettura consente di rispondere finalmente alla fatidica domanda che ogni appassionato di lirica si è sentito rivolgere almeno una volta: “Ma scusa, le donne nell’Opera devono sempre morire ammazzate o suicidarsi?”
Ecco, diciamo che sempre è eccessivo, però è vero che molto spesso le eroine (altrimenti che eroine sarebbero, peraltro?) ci lasciano le penne.
Ciò che cambia, nella concezione di compositori e librettisti, è la motivazione che porta al sacrificio estremo.
Molto interessante pure, a mio avviso, rilevare come il melodramma non sia una specie di monolite indifferente ai cambiamenti sociali ed alle esigenze estetiche del pubblico, ma si possa considerare semplicemente come una forma di comunicazione inserita in un contesto, quello dell’Arte in generale, più ampio.
E allora analizzando le scene di pazzia o sonnambulismo (due facce della stessa medaglia?), trampolino di lancio di tutte le più grandi cantanti di sempre, scopriamo che non sono altro che la metafora di un eros represso, perché rivoluzionario ed inquietante, non controllabile.
L’onore dei padri, della famiglia, si regge sulla forzata castità delle figlie che giocoforza impazziscono. Questa, semplificando un po’ per non appesantire troppo il discorso, è la cifra paradigmatica del romanticismo.
Poi però, con il verismo, arriva la donna peccatrice, sensuale, che gestisce la sua sessualità in modo del tutto diverso: quindi niente più pazzie, sono gli uomini che “impazziscono” e si trasformano in assassini.
Oppure, come nel caso di molte eroine pucciniane, le donne decidono della loro sorte e si uccidono. Il suicidio però è un gesto lucido, autonomo, quasi un’affermazione d’identità: si pensi alla statura morale di una Tosca, innamorata di un pasticcione velleitario come Cavaradossi, un personaggio che starebbe bene nelle “Anime morte” gogoliane, tra Cicikov e Nozdrëv, per non parlare del turista sessuale ante litteram Pinkerton, che gioca stupidamente con l’onore di Butterfly.
Insomma, una lettura molto gradevole, che consiglio a tutte le persone che coltivano una visione sinestetica dell’Arte.
Buon fine settimana a tutti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Per dirupi e per foreste…

Allo scopo di evitare i soliti bagordi crapuleschi di Pasqua, il Comandante (ex) Ripley mi ha proposto una gita sul Monte Nanos, nella vicina Slovenia.
Beh, non che l’idea m’esaltasse in modo particolare, ma non posso sempre dirle di no, evidentemente. Voglio dire, lei mi ha accompagnato a vedere Die Walküre nell’orrida Venezia, mica pizza e fichi; inoltre, fidandosi del mio istinto di lupo di mare, spesso è venuta in barca con me, beccandosi un paio di neverini da paura.
Ieri mattina, quindi, ho rispolverato le mie vecchie pedule da montagna ed armato di buona volontà e (poco) entusiasmo sono partito per questa gitarella.
Quando siamo arrivati ai piedi del Nanos, con malcelato timore, le ho chiesto: “Scusa, che dislivello c’è?” – e lei, che vi ricordo è istruttrice di alpinismo – mi ha guardato con sufficienza e mi ha risposto: “Mah…poco…neanche 800 metri”.
Una bazzecola.
Ovviamente ha scelto la via più breve, che tradotto nel linguaggio delle persone normali significa: una salita difficile, faticosa, irta d’insidie, esposta a tutti i capricci di madre natura e con la non remota possibilità d’incontrare qualche orso affamato. (cosa mangeranno gli orsi a Pasqua, dal momento che si strafogano d’agnelli tutto l’anno?)
Cominciamo a salire, e dopo meno di 100 metri è apparso evidente che mi sono lanciato in un’avventura superiore alle mie forze, mentre lei saltellava gioiosa come uno stambecco per evitare i morsi delle vipere. (precauzione inutile, peraltro, perché tra simili non ci si fa del male)
Quando arriviamo circa a metà del tragitto, e la cima mi sembra a dir poco lontana, il Comandante mi dice: “Stai attento, perché ora ci sono un paio di passaggi un po’difficili!”.
Rispondo, ansimando come una vaporiera: “Che significa?”
“Mah…niente, solo un paio di tratti leggermente esposti, ma comunque ci sono i cavi.”
Ecco, ma noi non abbiamo l’imbrago, per dire.
Mi sono scordato di puntualizzare che il Nanos è noto anche come l’altopiano della Bora, vento noto per favorire l’equilibrio nei passaggi esposti.
Insomma, ce la faccio a sopravvivere senza precipitare nel vuoto, non so come.
Poi è il momento di un piccolo camino, con una pendenza del 70%: lo ammetto, a quel punto ho sperato che un orso mettesse fine alle mie sofferenze con una zampata, mentre il Comandante mi guardava con disgusto e sghignazzava sordidamente.
Per fortuna lo spirito di Wagner ha guidato i miei passi, ecco.
Arriviamo al pianoro che porta al rifugio, completamente esposto ad una bora gelida le cui raffiche, evidentemente, martellano solo me, visto che la donna bionica sembra non risentirne.
Finalmente, dopo quasi 2 ore di sofferenza, mi siedo su una panca, esausto, sudato, sporco, stravolto dalla fatica e stordito dal freddo.
Voglio solo riposarmi, ma è l’ora del rancio, perciò il Comandante mi trascina all’interno del rifugio e mentre io ordino una bottiglia d’acqua minerale, lei si mangia un piatto enorme di gnocchi col gulasch, si tracanna una birra e sbrana uno strudel. Nel frattempo io non sono riuscito a girare il tappo della bottiglia, troppa fatica.
È che ora dobbiamo tornare indietro, capite?
Bontà sua, il Comandante sceglie la via lunga, solo 2 ore in discesa per una mulattiera.
Quando arriviamo al parcheggio, abbraccio la mia auto e la bacio.
Non avrei mai pensato di rivedere la mia collezione di Ring, giuro.
Oggi, non so perché, ma credo che la tradizionale gita fuori porta di Pasquetta non rientrerà nei miei programmi, ho molto da fare a casa e sono un po’ stanco; mi sento anche leggermente indolenzito, tanto che siccome non riesco ad accendere lo stereo, per avere un sottofondo musicale mentre scrivo questo post ho deciso di cantare io.
Ho scelto “Resta immobile” dal Gugliemo Tell di Rossini.
 
 
Il Comandante (ex) Ripley ed io vi ringraziamo per gli auguri, buona settimana a tutti! (strasmile)

Don Giovanni a Trieste: considerazioni a margine.

Il Don Giovanni di Mozart mancava al Verdi di Trieste da 17 anni.

La regia del capolavoro mozartiano, in quest’occasione, è stata affidata a Daniele Abbado.

La compagnia di canto era di buon livello, con punte d’eccellenza.

Il direttore d’orchestra, Tomaš Netopil, giovane ma ampiamente affermato.

La prima è finita in una marea di fischi.

Nel dettaglio, qui potete leggere la mia recensione per Operaclick.

Cosa ha scatenato la rabbia del pubblico triestino? La regia.

E siamo alle solite, diciamo.

Indubbiamente non è una regia convenzionale, e quindi Abbado si è esposto a qualche rischio.

Il problema, aldilà del fatto che possa piacere o no l’allestimento, è un altro.

Il pubblico triestino è troppo tradizionalista e conservatore; ha fatto passare senza sussulti regie di una banalità sconcertante (ricordo un’orrida Turandot, la scorsa stagione, ma ci starebbero altri esempi) ed ogni volta che si trova di fronte ad un’idea nuova reagisce malissimo, dimostrando solo di avere una visione limitata e codina della cultura in generale.

Dico, vogliamo ricordare che Trieste è la città nella quale Verdi ha fatto debuttare 2 opere?

Verdi, è stato un innovatore, un rivoluzionario nel suo campo.

Di questa contestazione io ho avuto sentore già alla prolusione dell’opera, peraltro noiosissima, il venerdì precedente alla prima.

Nella sala Victor De Sabata io, che m’avvio non troppo felicemente verso i 52 anni, ero tra i più giovani.

Quando il relatore ha affermato che la regia non sarebbe stata tradizionale, si è levato un generale mormorio di disapprovazione.

Preventivo, ingiustificato e foriero di quello che è poi successo in teatro.

Andare a teatro già sapendo che si contesterà lo spettacolo è penoso.

Sono sempre più convinto che l’assioma di Giovanni Vitali , che recita lapidariamente così:

"la maggior parte dei critici musicali e degli spettatori che frequentano i teatri lirici non capiscono un cazzo" 

sia molto vicino alla verità.

Vale anche per me, ovviamente.

Buona settimana a tutti.

 

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: