Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: settembre 2007

La massa siamo noi.

 
Qualcuno si sognerebbe di chiedere alla propria automobile (o alla lavatrice, è uguale) d’essere intelligente?
Non credo.
Eppure, da qualche anno a questa parte, molte persone, anche degne di stima, pretendono che la televisione sia intelligente!
Cercherò di dimostrare come questa frase, “la televisione deve essere intelligente” sia non solo ormai diventata un luogo comune e svuotata d’ogni significato virtuoso, al pari d’altre affermazioni categoriche ( “bisogna rispettare i diritti dei lavoratori”, “le tasse devono essere pagate da tutti” ) ma sia anche sostanzialmente un’affermazione priva di senso.
La televisione, come ben sappiamo, è un mezzo di comunicazione.
Bene, facciamoci qualche domanda.
A chi si rivolge? Ad un fantomatico e non meglio identificato pubblico?
No, si rivolge al pubblico di consumatori, che è un concetto completamente diverso.
Il suo messaggio deve colpire la parte più corrotta, in un certo senso, di tutti noi: la pancia, intesa non come inquietante sede d’oscuri movimenti peristaltici, ma come luogo astratto che ospita i nostri desideri imposti, la nostra invidia, la stupida ambizione, il desiderio d’apparire diversi da quello che siamo ( le nostre pulsioni sessuali inibite alla meta, direbbe forse qualcuno, forzando un po’ il ragionamento).
E siamo già giunti alla scoperta di una verità: la televisione generalista non esiste, anzi ha uno scopo (un target) ben individuato.
Siamo bersagli seduti in poltrona, anche un bambino ci colpirebbe facilmente.
Chi decide la programmazione televisiva?
Risposta facile. Decidono i politici, tramite i cascami-killer del sottobosco governativo che sono disposti ad assumersi la responsabilità (si fa per dire ) del lavoro sporco.
Ora, si può ragionevolmente pensare, allo stato attuale ( spes ultima dea ), che costoro abbiano intenzione di fare qualcosa d’intelligente?
Credo si possa affermare che il concetto d’intelligenza sia formato da varie caratteristiche: consapevolezza, iniziativa, conoscenza, responsabilità, tra le altre. Pensate che i politici ci vogliano consapevoli oppure responsabili? Domanda retorica.
Se raggiungessimo un livello anche minimo di responsabilità o consapevolezza, capiremmo che la prima azione da intraprendere è rovesciare i governi, a qualunque costo.
Esagero? No. Guardate vostro figlio e chiedetevi in che mondo vivrà fra trent’anni.
Abbiamo un’altra risposta alle nostre domande: devono tenerci nell’ignoranza più becera.
Qual è il mezzo più potente che hanno i politici per mantenerci tutti allo stato brado?
La televisione, che è molto più presente dei carabinieri su tutto il territorio nazionale, è il mezzo adatto.
Ho detto “tutti allo stato brado” non per caso.
Se il messaggio ha lo scopo di arrivare alla massa deve essere banale (si badi bene, non semplice), perché la banalizzazione è lo strumento più sicuro per arrivare ad un grande numero di persone.
La massa, può piacere o meno, è stupida (io sono parte integrante della massa, per non dare adito ad equivoci o pretesi intellettualismi).
Allora, siamo arrivati al punto. Sappiamo che una massa enorme di persone guarda la televisione, ora dobbiamo vendere a queste persone qualcosa, dicono loro.
E vendono. Oh, se vendono. Mettono in commercio prodotti, idee, di cui dobbiamo sentire il bisogno inappagato. Certo. I politici o i loro sodali producono questi bisogni e ci dicono: “Vuoi che la tua famiglia sia felice?Devi riunirla a tavola, in una casa da sogno, a mangiare questa merda. Puoi comprarne in quantità enorme, perché tanto è così fresca che si deteriora tra un mese!”
Ci vendono malattie che ancora non conosciamo ma, soprattutto, spacciano impunemente rancore.
Quel rancore sordo, aspro, che ci prende quando ci rendiamo conto che non potremo mai avere una casa così bella, né una famiglia così unita. Perché abbiamo divorziato, perché nostro figlio va male a scuola, perché stiamo male, perché non ce la facciamo con i soldi.
Ed allora, noi, tutti noi che facciamo parte di quella massa che a parole disprezziamo, per dimenticare le nostre disgrazie e pochezze cosa facciamo?
Compriamo il latte fresco che scade tra dieci giorni, oppure c’indebitiamo per tutta la vita per abitare in una casa che non possiamo permetterci.
Ed allora loro ridono, non li vediamo, ma ridono. Sguaiatamente, senza ritegno ridono. Di noi. Di me. Di voi.
Siamo tutti come i personaggi di “Autodafé” di Elias Canetti, pazzi alienati che si nutrono inconsapevolmente della follia degli altri.
La televisione intelligente è solo quella spenta, è stato detto.
Io sostengo che non basta spegnerla, bisogna distruggerla.
Ora, questo mio stupido post è stato pensato e scritto mentre leggevo gli “Scritti Corsari” di Pasolini.
L’ho pubblicato oggi, perché la notizia che nella prossima finanziaria è stata prevista la rottamazione dei televisori (una priorità assoluta per il nostro paese, vero?) è troppo ghiotta per non ironizzarci sopra.
Poi, fate mente locale, e pensate a quel meraviglioso spot in cui ci dicono, con una serie di variazioni sul tema di grande ingegno, che le banche ci regalano i soldi.
Ecco, ora fate 2 + 2.
Ciao a tutti. 
 
 
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All’armi all’armiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiii!!!

Cito da Luca Sofri, non me ne vorrà, spero. (ciao Luca)
Io non sono di quelli che dicono "se non sei esperto dell’argomento, non parlare". Le opinioni possono essere interessanti anche se vengono da visioni parziali, personali, laterali. Però dico "se non sei esperto dell’argomento, modera le tue certezze". E se Aldo Grasso, citato oggi dal Foglio, non ama trovare i blog tra i risultati delle ricerche su Google, il suo parere è registrato e messo a verbale. Ma gli suggerisco di pensare – prima di chiederne indignato l’abolizione – che se il maggiore motore di ricerca ha ritenuto non solo di indicizzare i blog ma anche di creare una sezione di ricerca apposita, forse esistono valutazioni e ragioni diverse dalla sua. E gli segnalo la mia, per esempio: ci sono argomenti su cui il racconto e l’opinione che qualcuno ha espresso sinceramente sul suo blog sono molto più interessanti e utili delle tonnellate di comunicati stampa e informazioni commerciali che Google offre in alternativa. Se io voglio sapere se invitare Grasso in radio o no, mi è utile leggere il suo curriculum su Wikipedia, ma anche il giudizio di alcuni blogger che recensiscono il suo modo di esprimersi, o raccontano di una volta che è andato a un altro programma, o citano delle cose che ha detto o scritto (gli articoli di Grasso, invece, Google non li mostra, perch sono a pagamento).
 
Aggiungo di mio, che molti blog che si occupano di musica lirica, ed indegnamente anche questo, affermarono che la prima scaligera dell’Aida che ha aperto la scorsa stagione non fu quella meraviglia che ci vollero far credere, come si dimostrò ampiamente nei giorni successivi.
Voglio dire, Alagna che scappa, il pubblico che smoccola, il sostituto di Alagna che si presenta in borghese sul palco…ve li ricordate no?
E credo ricordiate anche i peana dei VIP e politici ed inviati speciali, presenti all’evento.
Questa chiamata alle armi contro i blogger da parte del giornalismo ufficiale mi fa un po’ ridere.
Un mio amico, in veste straordinaria d’amico e non di giornalista, mi disse un giorno:
 
"Aspettati reazioni vergognose dai miei colleghi, ma ricordati che quando reagiscono, vuol dire che in qualche modo ti temono professionalmente e che stai facendo bene!"
 
Comincio a pensare che avesse ragione.
Buona settimana a tutti, anche se un po’ in anticipo rispetto al solito.

Caro Don Giovanni, sei un mito!

 
Sono innumerevoli gli esempi di compositori che hanno tratto felice ispirazione da opere letterarie o teatrali, tanto che è impossibile farne un elenco anche sommario e parziale.
Molto spesso, per apprezzare compiutamente un’opera lirica è indispensabile un approfondimento sulla genesi dell’opera stessa. Perchè il librettista ha sottolineato una certa situazione? Come mai ci sono discrepanze tra la fonte letteraria e il lavoro del compositore?
Uno storico e critico della letteratura, Ian Watt, inglese professore all’Università di Stanford, nel suo libro “Miti dell’individualismo moderno” ci guida in un affascinante viaggio alla scoperta della scaturigine letteraria di alcuni personaggi operistici notissimi ai melomani e non solo a loro: Faust, Don Giovanni, Don Chisciotte. A questi si unisce Robinson Crusoe, che non può vantare un riferimento operistico di valenza eccelsa come gli altri, ma le cui gesta sono state in ogni caso egregiamente musicate da Jacques Offenbach. (l’opera è disponibile nel catalogo di Opera Rara, e l’aria più famosa “Conduisez moi vers celui que j’adore” è stata incisa anche da Joan Sutherland e Natalie Dessay)
Cosa s’intende per mito? L’autore ne dà questa definizione: “una storia tradizionale con una straordinaria e vastissima diffusione culturale, cui si attribuisce una verità quasi storica e che incarna o simbolizza alcuni dei valori fondamentali della società.”
Infatti, nel corso dei secoli, questi personaggi hanno raggiunto uno status particolare nell’immaginario collettivo: non sono considerati vere e proprie figure storiche ma neanche esclusivo frutto di fantasia.
In realtà, dei quattro miti, quello di Faust ha una caratteristica unica: nasce da un personaggio realmente esistito.
I riferimenti storici, infatti, segnalano l’esistenza di un famosissimo mago di nome Jörg Faust, nato a Knittlingen intorno al 1480 e morto a Staufen nel 1540.
Quali sono i punti in comune tra i nostri quattro eroi?
La circostanza più evidente, forse, è che tutti hanno un servitore: Faust-Mefistofele (o in seconda battuta Wagner), Don Giovanni-Leporello, Don Chisciotte- Sancho, Crusoe-Venerdì.
Il contesto storico e sociale è quello della Controriforma per Faustbuch, El Burlador, Don Quixote: tutti i lavori vedono la luce tra il 1587 ed il 1620. È dunque un’epoca di repressione culturale, nella quale le forze che rappresentavano la tradizione medievale si scontravano violentemente con i primi aneliti dell’individualismo rinascimentale: nella religione, nell’arte, nella vita quotidiana.
Faust, Don Chisciotte e Don Giovanni vogliono trovare nuove strade, sono esploratori dell’anima: non hanno famiglia, rifuggono la tranquillità, rischiano di tasca propria.
Ma torniamo al Faust, perché di questo voglio occuparmi in modo più approfondito in questa sede, e lasciare a chi vorrà accostarsi al libro il piacere di scoprire gli itinerari degli altri caratteri.
Nel 1587 apparve La Historia von D.Johann Fausten- Il Faustbuch di Johann Spies, che raccolse uno strepitoso successo.
In questo lavoro compare per la prima volta il famoso contratto sottoscritto col sangue dal protagonista.
Sulla copertina compariva il riassunto del contenuto:
 
Storia del dottor Johann Faustus, ben noto mago e negromante, di come si è promesso al diavolo per un determinato periodo della sua vita, di quali straordinarie avventure fu protagonista e testimone in questo tempo, fino al momento in cui ricevette la ben meritata mercede. Per la maggior parte desunta dai suoi scritti raccolti, quale esempio orrendo per tutti i superbi, i saccenti e gli empi, un esempio disgustoso oltre che amichevole ammonimento, e approntata per la stampa.
Giacomo 4, 7-8
Siate sottomessi a Dio, combattete il diavolo, cosicché egli fugga da voi.
 
Dunque, la presentazione del libro e la morale, la condanna severa della Chiesa alla magia, al piacere, alla cultura laica: in sostanza, a buona parte delle aspirazioni ottimistiche del Rinascimento.
Nel libro c’è molto di più, ovviamente, e la lettura è davvero affascinante.
Analoga cura c’è nella ricerca delle origini letterarie di Don Giovanni, Don Chisciotte e Robinson Crusoe.
L’Autore poi affronta l’elaborazione e la trasformazione che, nel corso dei secoli ed in particolare nel Romanticismo, questi miti hanno avuto nella Musica e nella Letteratura: da Mozart a Dostoevskij, da Gounod a Goethe.
I miti si aggiornano, sono a passo con i tempi.
Quello che non cambia è il fascino che hanno su di noi, sia quando li vediamo rappresentati in musica, sia quando ne riconosciamo i tratti distintivi in qualche lavoro di prosa, o sul grande schermo.
 
 

Maria Callas, l’Artista.

Chiedo scusa, mi sono sbagliato. Il documentario al quale si fa riferimento alla fine del post, andrà in onda domani alle 19.
Mi si chiede, e ne sono felice, un post su Maria Callas, in occasione della ricorrenza dei trent’anni dalla sua scomparsa.
Dovrei scrivere di sensazioni personali, e quindi troppo soggettive, perciò ritengo di fare cosa più saggia rielaborando, a modo mio, qualche intervento che ho letto su OperaClick a questo proposito.
Ho evitato come la peste aspetti folcloristici o di puro gossip perché, quando li leggo io, mi incattivisco come una biscia.
Per rendere la lettura più scorrevole ho pensato di farmi qualche domanda e di rispondermi, nella doppia veste di Amfortas e Paolo.
Insomma, una volta di più me la faccio e me la dico (strasmile).
Spero di riuscire a rispondere alla necessità di conoscenza di molti, ed allo stesso tempo di non annoiare nessuno.
Ovviamente, ma vale la pena rilevarlo, non si tratta di verità rivelata, ma solo di opinioni discutibilissime.
Comincio con l’osservazione più bella che io abbia letto negli ultimi anni su Maria Callas.
Non è farina del mio sacco, ma dell’amico forumista Aristecmo, che ringrazio assieme agli altri “colleghi” Steccanella e Giorgio Germont.
.
 
Brutta voce, lunga, potente o debole, tre voci o mille… La Callas resta per me la pietra del paragone. Musicalmente soprattutto, ed è forse la voce che ascolto più raramente. Che bisogno c’è di riascoltare due volte Glenn Gould alle prese con Bach? Quando, pianista negato, provo a suonare non fosse che il primo preludio del “Clavicembalo ben temperato” non posso che fermarmi dopo una battuta, tanto quell’assurdo – e geniale – staccatissimo si è impresso nella mia memoria muscolare. Così – liricomane negato – quando ascolto un’altra voce cimentarsi in un recitativo di Norma, non posso fare a meno di riferirmi all’accento callassiano, alla sua incisività tutta musicale e al realismo espressivo che ne consegue. La Callas per me è questo: un genio musicale. Ha saputo risolvere con grande naturalezza il nodo gordiano che tiene separate l’accentuazione grammaticale delle parole e la lunghezza delle note cui competono. In questa tridimensionalità della parola cantata, nelle sue componenti di suono, ritmo e pronuncia risiede tutta la poetica del genere teatrale melodico. A nulla serve tornare sulle sue origine greche: nel tempo musicale e nel ritmo l’Artista ha saputo trovare la direzione giusta.
 
Splendido.
 
Amfortas: Allora Paolo, qual è stato il periodo nel quale Maria Callas ha costruito il suo mito?
Paolo: A grandi linee, l’età dell’oro di Maria Callas va dal 1947, che segna il suo debutto in Italia in “Gioconda”, al 1958, anno dell’ultima entusiasmante stagione alla Scala di Milano.
Amfortas: Se tu dovessi dare una spiegazione razionale al successo ed alla popolarità della Callas, che aspetto sottolineeresti?
Paolo: Do una risposta che, a rigore, non è molto logica. Razionalmente affermo che l’asso nella manica di Maria Callas è stata una straordinaria capacità di trasmettere emozioni, cioè quanto di più irrazionale esista.
Amfortas: In che senso si può sostenere che sia stata una cantante storica?
Paolo: Credo che l’aggettivo storica mai sia stato usato così a proposito. Devo scendere in qualche particolare tecnico.
Gli appassionati affermano che Maria Callas aveva tre voci diverse. I suoni gravi erano sonori, rotondi, pastosi; nel registro medio c’era qualche velatura, mitigata da un ‘espressività non comune e da una specie d’accanimento nello studio della dinamica della parola cantata. Ancora, gli acuti ed i sovracuti erano molto penetranti, anche se al mio orecchio sono suonati sempre un po’ striduli.
Queste peculiarità le hanno consentito un’impresa che oggi non sarebbe neanche proponibile: studiare in tre giorni il ruolo belcantistico di Elvira nei Puritani di Bellini, mentre era impegnata nelle recite alla Fenice di Venezia come Brünhilde.
Proprio per queste caratteristiche è stato coniato il termine “soprano drammatico di agilità” che fino ad allora ( e, a pensarci bene, anche oggi) , come concetto in sé, è un ossimoro.
Amfortas: Torniamo ad argomenti più digeribili a chi non è un esperto, Paolo…si può affermare che sia stata “la più grande” di sempre?
Paolo: Sì e no. Nella coloratura, nelle fioriture belcantistiche, Joan Sutherland, a mio avviso, l’ha superata e neanche di poco. Renata Tebaldi aveva una voce più bella e potente, un timbro più solare ( cos’erano le sue Desdemona, Leonora, Butterfly!). Montserrat Caballè è stata almeno alla pari quale Norma, ad esempio, e sempre a mio parere, superiore nella “Forza” verdiana.
Però, come vedi, ho dovuto fare tre nomi di interpreti straordinarie e limitarne il raggio d’azione.
Quindi sì, complessivamente si può dire che sia stata la più grande cantante di cui abbiamo documentazione sonora. Voglio rilevare però, che il/la cantante perfetto non è mai esistito né, per fortuna, mai esisterà.
Amfortas: qual è il merito maggiore di questa Artista? Dal punto di vista storico musicale, intendo.
Paolo: Quello di aver si può ben dire sempre rispettato le indicazioni del compositore; poi di aver favorito, incoraggiato ed inconsciamente promosso la Belcanto-Renessaince, reinventando alcuni ruoli ormai desueti ( Medea, Fiorilla, Armida, Anna Bolena) e rinnovando personaggi come Norma, Amina, Elvira, Lucia, Lady Macbeth, che erano eseguiti in modo troppo stucchevole o con plateali accentuazioni veriste.
Da ultimo, si fa per dire, dare un senso nuovo al vocabolo interpretazione, riferito alla musica lirica.
Voglio dire, con un gesto, un’espressione del viso, si  trasformava nel personaggio; ne fanno fede i numerosi fimati d’epoca, in particolare quelli dei recital.
Amfortas: Ora voglio un’indicazione precisa, dimmi in che ruolo la preferisci, come cantante ed interprete.
Paolo: Non ho nessun dubbio. In tutti i ruoli tragici, forse per affinità e vissuto, è stata eccelsa ma, in particolare, la sua Lady Macbeth mi mette vera paura. Intendo una paura fisica, palpabile. Si percepisce che a cantare è una donna alienata.
Amfortas: Altro da dire?
Paolo: Vorrei concludere rielaborando una teoria del critico francese André Tubeuf: “La Callas è l’unica cantante che può avvicinare all’opera lirica chi non ama questa forma d’Arte. Una persona così straordinaria toglie loro ogni alibi.”
Amfortas: Hai finito il tuo sproloquio autocompiaciuto?
Paolo: No.
Amfortas: Che altro?
Paolo: Grazie, Maria.
 
 
Su Sky Classica (canale 728), domenica sera alle 21, un nuovo documentario su Maria Callas.
La trasmissione non sarà criptata e quindi visibile anche a chi non è abbonato.
 
 
 

Paolo Isotta, chi era costui?

Devo tornare, mio malgrado, sui tristi avvenimenti di questi giorni.
Mi ero ripromesso di non farlo, ma proprio non ce la faccio a dire la mia.
Prendetelo come uno sfogo.
Già una volta mi sono occupato di Paolo Isotta, il critico musicale del “Corriere della Sera”, e sempre per lo stesso motivo: lo sdegno che ho provato nel leggere il suo “coccodrillo” in occasioni luttuose per il mondo della lirica.
Ora, è molto facile e sin troppo evidente ai più affermare che mentre di Pavarotti si parlerà, si discuterà, fino a quando esisterà un aggeggio per riprodurre i dischi, di Isotta non si saprà più nulla entro una settimana dalla spero lontana scomparsa.
Però Isotta fa parte della critica musicale ufficiale di questo paese, e può contare su di un pubblico molto rilevante. Ebbene, questa volta, quello stesso pubblico gli ha voltato le spalle, intasando la posta elettronica, la segreteria, i forum del giornale milanese d’insulti e di lamentele. (ed io ho partecipato attivamente)
Perché se è vero che è diritto di Isotta eccepire sull’arte di Pavarotti, è anche vero che ci sono tempi e modi.
Bene, lascio giudicare a voi se “i tempi e i modi” sono quelli corretti, all’insegna dell’umanità che dovrebbe, per prima, guidare la penna di chi scrive.
Molti blogger hanno scelto di non pubblicare il testo di Isotta, ed io ne rispetto in pieno la decisione. Io lo faccio a scopo propedeutico, un po’ come si fa pubblicando l’immagine scioccante degli effetti devastanti dell’eccessiva velocità sulle strade statali.
Nel mio post precedente avevo affermato che “le parole non servono” e resto di questa opinione.
Qui però, non si parla della morte di Pavarotti, ma di altro.
Dice Isotta:
"Vorremmo ricordare il tenore emiliano com’era ai suoi esordi, rimuovendo i detriti limacciosi accumulatisi con gli anni. Da tenore «di grazia », emulo di Tito Schipa, il quale è ovviamente irraggiungibile, cantava nel «mezzo carattere» dell’Elisir d’amore e della Sonnambula. Possedeva un timbro delizioso ch’era immagine di giovinezza, fiati lunghi e sani e quella splendida chiarezza di dizione che non l’ha abbandonato mai. Sotto quest’ultimo profilo, anche nei periodi meno felici, Pavarotti restava esempio d’una vecchia scuola italiana gloriosa: quando cantava si capiva ogni parola. Contemporaneamente praticò con lo stesso successo il repertorio «lirico»: a esempio, il duca di Mantova del Rigoletto. Lo si volle accostare a Beniamino Gigli e, ripeto, per bellezza di timbro e chiara dizione ne era un erede. Ho un prezioso ricordo d’un testimone oculare quanto autorevole. Interpretava questo ruolo al Massimo di Palermo sotto la bacchetta del grande e burbero Antonino Votto. Rientrando il Maestro in camerino dopo la recita, borbottava: «Nunn’ è ccosa!». Perché un direttore di tal calibro era scontento d’un delizioso tenore? Pavarotti possedeva in radice difetti da definirsi in radice che i pregi della giovinezza dissimulavano ma non potevano cancellare. Egli era un analfabeta musicale, nel senso che non aveva mai appreso a leggere la notazione musicale: le opere doveva impararle a fatica nota per nota con un tapeur paziente. Questo è ancora il meno. Egli era a-ritmico per natura, non era possibile inculcargli se non in modo vago la nozione della durata delle note e dei rapporti di durata.
L’Opera lirica non è il canto del muezzin, è prodotto di accompagnamento orchestrale e richiede voci che s’accordino fra loro. S’immagini Pavarotti nel Sestetto della Lucia di Lammermoor… Per avere quest’eccezionale cantante si doveva passar sopra a molte, a troppe cose, e così si ricorreva a direttori d’orchestra abili nel «riacchiappare » il tutto quanto pronti a chiudere tutti e due gli occhi sul rispetto della partitura musicale. Questo difetto è con gli anni aumentato, giacché Pavarotti, il suo vero torto, non aveva e non voleva avere coscienza dei propri limiti. Col crescergli un ego caricaturalmente ipertrofico diventava sempre più insofferente delle critiche, anche solo degli avvertimenti affettuosi, come affrontava zone del repertorio che gli erano precluse dalla natura e dall’arte. Da qui alle adunate oceaniche nei continenti, cantando egli con amplificazione, alle manifestazioni miste con artisti leggeri, magari più musicali di lui, alle canzoni napoletane detestabilmente eseguite, al suo abbigliamento carnevalesco, ai prodigi di cattivo gusto, è stato tutto un descensus Averni: ogni passo ti tira il successivo. E pensare che aveva cantato col maestro Karajan. "
07 settembre 2007

Mi rendo conto che forse è un testo troppo tecnico per i non addetti ai lavori, ma ritengo anche che i miei (pochi) lettori siano persone in grado di capire il senso della discussione.

Buona settimana a tutti.
 

Ciao, Luciano.

Luciano Pavarotti non c’è più.

Le parole non servono.

Addio, Big Luciano.

Pier Paolo Pasolini, un corsaro da rimpiangere.

Perché rileggere ( o leggere ) Pasolini?
In particolare, perché proprio Scritti Corsari”?
Ci sono infinite risposte a questa domanda ma, come spesso succede, la risposta più semplice è quella giusta: bisogna conoscere questo libro perché è indispensabile.
Un’affermazione così perentoria da parte mia, che mi nutro d’incertezze, può sembrare forzata. Eppure v’assicuro che ho valutato bene se fosse il caso d’esprimersi in modo così categorico.
Non sono portatore di ciechi furori ideologici né mosso da interessi specifici; vorrei solo ottenere che qualcuno s’avvicini a questo lavoro senza pregiudizi.
Nei primissimi anni ’70 io leggevo, oltre al quotidiano della mia città, “Il Corriere della Sera”, che era il baluardo del Capitale e della Borghesia. Era un giornale autorevole, aveva una bellissima terza pagina e, perché no, un’ottima sezione sportiva.
Inoltre, il Corriere ospitava gli arrembaggi di Pasolini che mi costringevano a riflettere, pensare, ragionare e molto spesso mi facevano arrabbiare.
La figura dell’intellettuale, oggi spesso svilita a caricatura grottesca di se stessa, trova con Pasolini quasi un archetipo. Un intellettuale vero, scomodo perché non contiguo né al regime democristiano dominante né all’opposizione comunista; scomodo perché omosessuale, ed oggetto di scherno bipartisan, più o meno velato, proprio per la sua sessualità.
Da sinistra fu definito nostalgico (sic), da destra con i peggiori epiteti che lascio alla vostra immaginazione.
Impressionanti, e meglio ne possiamo apprezzare la portata oggi, a distanza di trent’anni, le sue requisitorie contro il potere nefasto della televisione.
Pasolini considerava questo medium (o meglio l’uso che se ne faceva ) come designato ad imporre un regime, un nuovo fascismo, molto più temibile di quello del ventennio: mentre quest’ultimo aveva inciso solo superficialmente sugli italiani, il nuovo morbo avrebbe intaccato, come una perversa mutazione genetica, il DNA stesso dell’italiano medio.
Direi che oggi si può affermare, senza paura di essere smentiti, che Pasolini aveva visto giusto.
Inoltre, quest’uomo straordinario ha parlato di ecologia, quando questo vocabolo era sconosciuto ai più, ha fornito un’interpretazione ai vocaboli “ sviluppo e progresso”, dimostrando con una logica ferrea, geometrica, addirittura violenta, che troppo spesso dove c’è sviluppo non c’è progresso.
Ora, in questa sede non posso e non voglio approfondire il discorso: lascio a voi il magnifico stupore della scoperta del fascino di questo libro e di questo intellettuale a tutto campo.
"Io non ho alle mie spalle nessuna autorevolezza: se non quella che mi proviene paradossalmente dal non averla o dal non averla voluta; dall’essermi messo in condizione di non avere niente da perdere, e quindi di non esser fedele a nessun patto che non sia quello con un lettore che io del resto considero degno di ogni più scandalosa ricerca".
Vi segnalo solo un paio di link che, spero, vi convinceranno più delle mie parole a comprare, amare, vivere questo splendido lavoro.
P.S.
Cercherò di venire a trovarvi nei prossimi giorni, con calma. Non sto bene, abbiate pazienza.
Grazie a tutti per gli auguri di una pronta guarigione.
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