Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: febbraio 2008

Inadatti al volo? Sì, e me ne vanto.

Ho paura e l’ansia mi divora, sono seduto con un libro in mano, mi guardo intorno e leggo svogliatamente qualche pagina; non trovo la necessaria concentrazione, ed allora lascio andare la mia mente…
 
 "Dunque, io ho partorito con dolore, perché non è che si frequenta l’oratorio per 15 anni per nulla, il 23 settembre 1989.
Nei giorni scorsi, di conseguenza, mio figlio è diventato maggiorenne.
Mio figlio? Boh, non so, forse mia figlia. Se devo essere sincero, la mia creatura non si è data mai una connotazione sessuale precisa. Voglio dire, qualche volta si comporta secondo i più biechi stereotipi femminili, mentre, in altre occasioni, pare il sergente di ferro di Full Metal Jacket. Non c’è una regola e francamente mi pare assai comoda, ’sta situazione.
Peraltro è anche vero che io sono maschio, quindi impedito per default alle gioie del parto.
Una cosa è certa, il suo primo vagito è stato indimenticabile, fragoroso, spettacolare. Pareva uno di quei personaggi di Márquez, che ne so, uno dei tanti Buendía che sbucano dal nulla tuonando scoregge ed esibendo un fallo che fa provincia, avvolti da uno sciame di locuste che oscura l’orizzonte."
Questo che avete appena letto è l’incipit del mio racconto, che è stato scelto per l’antologia "Inadatti al Volo".
Il racconto, nella stesura originale, s’intitolava "Far Finta d’essere Pani, nella Vera Città delle Donne".
Un omaggio a Gaber, evidentemente, e a Corrado Pani, attore straordinario, dalla vita turbolenta, che a me piaceva tantissimo perché  mi è sempre sembrato un uomo tormentato da mille fantasmi.
Nei primi anni’70, Giorgio Gaber approdava con il suo spettacolo teatrale al Teatro di prosa Rossetti di Trieste, qualche metro sopra quel Café Rossetti che questa sera ospiterà la presentazione del libro.
Io c’ero allora, nel 1973, e ci sarò stasera, 35 anni dopo.
Il Prof. Walter Gerbino, Preside della Facoltà di Psicologia dell’Universita di Trieste e che sarà il relatore del nostro libro, nel 1967 era stato incaricato dal parroco dell’oratorio salesiano di Via dell’Istria a tenere lezioni di educazione sessuale ad una banda di ragazzini impauriti, nel doposcuola.
Fra quei ragazzini, c’ero io, che non ho fatto nessuna strada se non quella che mi ha portato ad essere una persona civile. Walter, che era già adolescente , ha sempre avuto la passione per l’insegnamento e di strada ne ha fatta molta.
Il mio raccontino ha due prospettive diverse di narrazione: da una parte ci sono io che narro col mio solito tono scanzonato ed autoironico la guerra con l’ansia e gli attacchi di panico, dall’altra c’è quell’altro me, che conoscono in pochi eletti, che ha sostenuto, o almeno ha cercato di farlo, mia moglie Betta nella lotta contro il cancro.
Betta ha vissuto con me, ed inspiegabilmente continua a farlo, da 35 anni.
La frequentazione continuata con un demente irresponsabile quale sono ha fatto sì che quando si è ammalata di tumore, le è sembrato di stare in vacanza.
Ha vinto la sua partita per manifesta inferiorità dell’avversario: era preparata a cimenti più impegnativi.
Stasera, se ho voglia e l’atmosfera è quella giusta, leggerò il mio racconto ai pochi intimi che saranno presenti.
Il racconto è dedicato a mia moglie Betta, e non poteva essere diversamente, una ragazza che ha avuto la sfiga d’incontrare, tra i tanti, un deficiente, che non solo l’ha tormentata con le sue intemperanze, ma l’ha sfruttata pure per ottenere il suo quarto d’ora di celebrità (strasmile).
Stasera, ragazzi, si chiudono molti cerchi.
Buon fine settimana a tutti, il mio sarà memorabile.
Pubblicità

Intervista a Beatrice Biggio.

Al di là della soddisfazione personale, una delle occasioni più gratificanti che mi ha fornito l’opportunità di pubblicare un mio racconto nell’antologia “Inadatti al Volo”, è stata quella di venire in qualche modo a contatto con realtà e persone che mi erano sconosciute.
In particolare ho incontrato una donna che, senza paura di peccare di retorica, definisco spesso un’eroina dei nostri tempi, e cioè Beatrice Biggio.
Ho pensato così di rivolgerle un paio di domande, per mettere al corrente i miei pochi lettori che, effettivamente, l’abusato slogan “stiamo lavorando per voi” ha, seppur saltuariamente, qualche riscontro effettivo.
Questo è uno di quei casi, appunto.
Bea, tu fai un lavoro oscuro ma molto importante. Ci spieghi in che consiste?
“Io lavoro come operatrice al Centro Antiviolenza di Trieste. L’Associazione GOAP, di cui faccio parte dal 2000, si occupa da una ventina d’anni di violenza contro le donne, e più in generale di tutte le tematiche che riguardano i diritti negati del genere femminile. Tu lo definisci oscuro, in un certo senso è vero, non si conosce molto il lavoro dei Centri Antiviolenza, sebbene ce ne siano in Italia oltre un centinaio. I Centri sono nati nei primi anni ottanta, in Italia, e fanno propria la metodologia e l’esperienza dei centri e case rifugio americane ed anglosassoni, attivi già dagli anni ’70. Essenzialmente, il mio lavoro consiste nell’offrire sostegno alle donne che sono sottoposte a violenze, non soltanto fisiche, da parte di partner o ex partner. Io e le altre donne che lavorano al Centro, attraverso le tecniche del counselling ma anche con azioni pratiche di tutela, cerchiamo, insieme alle donne che si rivolgono a noi, di trovare le strade possibili per affrancarsi dalla violenza, e per proteggersi. Direi che c’è molto di oscuro, ancora, nella comprensione del fenomeno, e dei meccanismi che lo caratterizzano.”
 Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel tuo lavoro?
“La difficoltà più grande non è sicuramente il lavoro con le donne, ma piuttosto le incredibili resistenze della società e degli individui ad acquisire il dato che la violenza di genere esista, che si tratti di una violazione dei diritti umani e quindi di un fatto pubblico, che riguarda la società intera, e non di una questione privata, da tenere confinata fra le mura domestiche, o nei discorsi fra amici, oppure, cosa ancora più diffusa, da ignorare come “qualcosa che riguarda qualcun altro, e non me”. Sconfiggere questa cultura, ancora diffusissima, è il lavoro più faticoso e spesso frustrante.”
Che supporto vi forniscono le istituzioni?
“Le istituzioni a livello locale ci sostengono finanziariamente. Una delle poche leggi regionali esistenti in Italia a sostegno dei Centri e delle Case Rifugio è quella del Friuli Venezia Giulia. Verrà ridiscussa quest’anno, con l’apporto e i suggerimenti dei Centri della Regione (oltre a Trieste, Udine, Gorizia, Monfalcone e Pordenone). Inoltre esiste una convenzione con il Comune di Trieste, che viene ridiscussa periodicamente, che assegna al GOAP la gestione del Centro e garantisce un finanziamento per una Casa Rifugio d’Emergenza. La Provincia, inoltre, sostiene le nostre campagne di informazione e sensibilizzazione. Ma questo è un territorio fortunato, sui generis, dove evidentemente la consapevolezza delle responsabilità istituzionali è più alta che altrove. Nella maggior parte d’Italia, le cose non stanno così, i Centri e le Case spesso sono realtà basate solo sul volontariato e questo aggiunge un elemento ulteriore di precarietà e frammentarietà che rende ancora più difficile garantire gli interventi.”
Ce la fai a liberarti dalle angosce che ti arrivano addosso, quando torni a casa?
“Naturalmente ci sono risorse di cui facciamo grande uso per evitare che l’alto livello di emotività che caratterizza le situazioni con le quali ci confrontiamo ci porti al cosiddetto “burn out”. Le supervisioni, la condivisione e il lavoro di gruppo sono fondamentali perché non rimaniamo “schiacciate”. Ma le donne che vengono al centro, devo dire, non portano solo dolore, ma anche una grande forza. Io continuo a vedere questo lavoro come un arricchimento, e non come un peso.”
Quest’esperienza “letteraria”, in cui ci siamo trovati compagni di cordata, ti ha soddisfatta?
“Io ho sempre scritto, da che ricordi. E, nella vita in generale, non sono mai soddisfatta, di niente. Nel senso che c’è sempre qualcosa d’altro che devo scoprire, provare. Di “Inadatti al volo” mi è piaciuto molto lo spirito della cosa, il fatto che si fosse tutti così diversi, per età, esperienze, stile di scrittura. Credo che questo sia l’aspetto più interessante del libro. Tempo fa ho ringraziato Giovanni Di Muoio, il curatore dell’antologia, per aver messo insieme 37 serpi di questa fatta nella stessa cesta. Dentro ci sono autori che definirei surrealisti, altri che scrivono in modo cinematografico, altri più teatrali, alcuni hanno un ritmo sincopato, serrato, altri un andante lento. E nessuno ha scritto niente di pietistico o scontato sulla malattia, un tema che poteva prestare il fianco a pericolosissimi “trattatelli” sull’argomento. E, naturalmente, sono felice di vedere stampato, sulla carta, un mio scritto.”
Io non aggiungo altro, perché mi pare che Bea sia stata estremamente chiara.
Anzi no, direi che un bel grazie ci sta tutto.
Inoltre, mi ha detto di essere disponibile a rispondere a qualche domanda dei lettori, se mai ce ne fossero.
Beatrice Biggio, quando ha voglia, scrive (benissimo) su questo blog.

E lucevan le stalle.

Gli assiomi ed i postulati non hanno bisogno di dimostrazioni, come sa chiunque abbia preso in mano un testo di matematica, anche per cause non nobilissime.
Eppure, qualcuno ritiene che l’assioma ( o postulato):
 
“All’interno di una massa di persone, la percentuale di idioti è direttamente proporzionale al numero delle persone che compone la massa stessa.”
 
abbia assoluta necessità di continue conferme.
Lo sappiamo, suvvia, dedicatevi ad altro no?
Tutto ciò, riferito al simpaticissimo video di Giorgia, costretta a chiudere i commenti al suo divertissement su YouTube, dopo che una pletora di cialtroni devastati dal virus dell’idiozia si è affannata a farci sapere non solo che esiste, ma pure che è in grado di digitare un messaggio anonimo volgare sulla tastiera del computer.
È il nuovo che avanza, nel senso che è avanzato, puzza come un cadavere lasciato al sole d’agosto e noi piccini, nonostante la maschera antigas prontamente indossata, ne percepiamo distintamente l’olezzo nauseabondo.
Buona domenica.
 

Furie di donna irata.

Se fossi bravo come Giorgia con Photoshop, personalizzerei questa foto, sostituendo l’immagine di Shelley Duvall con la mia.
Perché, vi chiederete?
Beh, perché l’attrice ha la stessa espressione di raccapriccio e sorpresa di quando ho visto che mia moglie, ex-Ripley, stava scrivendo la centesima lettera di protesta consecutiva alla Telecom.
Che Qualcuno me la mandi buona.
 

Sogno o son desto?

Update: trattasi di bufala. Di conseguenza faccio le mie scuse al Teatro dell’Opera di Roma. Meglio così.
Di vero c’è solo la sostituzione del soprano e, a gusto di alcuni appassionati presenti alla recita, di un allestimento poco riuscito, però qui siamo nel campo delle opinioni.
Un toscano mi dice che nei corridoi del Comunale appare ancora questa "perla": "nei corridoi del Comunale a Firenze è affisso un manifesto di una recita che annuncia Tosca. Posticcio attaccato sopra: Causa indisposizione di un cantante stasera si dà Madama Butterfly."
Le notizie sono ancora confuse, per cui sono pronto ad aggiornare questo post, ma sembra che…
…al Teatro dell’Opera di Roma ne abbiano fatta una clamorosa, tanto che io spero si tratti dello scherzo di un buontempone.
La prevista Rusalka di Dvorak, alla quale, sia detto per inciso, sarei dovuto essere presente se non fossi stato invaso da una serie di casini di cui vi risparmio i particolari, non è stata rappresentata.
Mi spiego meglio.
Già questa produzione sembrava essere nata sotto una cattiva stella, anzi io direi che pareva nata in una stalla (lo so, ci sono precedenti straordinari in fatto di nascite, nelle stalle): era previsto che cantasse, nel ruolo del titolo, il soprano Ángeles Blancas Gulin, poi sostituita da Anda-Louise Bogza per motivi misteriosi ma, quello che rende raccapricciante la questione, è che per cause che ora non so spiegare, non è stata rappresentata la Rusalka di Dvorak, bensì quella di Dargomiyzskij di cui non so nulla, e me ne scuso.
Per darvi un’idea, perché la questione è molto complessa, è come se qualcuno spendesse i suoi soldi per vedere il “Don Giovanni” di Mozart e, una volta in teatro, s’accorgesse che sta andando in scena “Il Convitato di Pietra” di Vincenzo Righini.
Per ora, termino qui, e spero di poter smentire questa tragedia, oppure, almeno, di essere più preciso.
Buon fine settimana a tutti, comunque.
P.S
Grazie dei premi a ripetizione, appena recuperò un minimo di lucidità mentale (sarà dura) scriverò un post su questo tema.

Che veggio, che miro?

Post aggiornato, nuovo episodio esilarante raccontato da Marina Comparato (strasmile).
Mi si presenta una settimana impegnativa su vari fronti, come credo succeda un po’ a tutti, a dire il vero.
Volevo però ringraziare
Lelli per il premio che mi ha assegnato, perché ne sono sinceramente orgoglioso come fosse un award prestigiosissimo.
Voglio dire, parlare di un argomento di nicchia, oggi purtroppo la lirica è da considerarsi tale, in modo semplice e fruibile da tutti non è facile.
Non avete idea di quante mail, messaggi privati e altro, riceva da una frangia estremista di appassionati che se la prendono per il tono, a loro dire, troppo leggero, con cui affronto il tema.
Problemi loro, direi.
Peraltro, quando qualcuno, e succede, mi dice che si è accostato timidamente a questo mondo perché incuriosito dai miei post, o mi chiede un consiglio per un’edizione discografica, la mia gioia è davvero grande.
Tra l’altro, proprio oggi su Rotocalco chi vuole può leggere le motivazioni che mi spingono a quest’approccio scanzonato, in un contesto che prevede come assunto comune la musica.
E già mi sono stufato di essere così serio e didascalico (smile), quindi vi riporto qui la testimonianza di Marina Comparato, ottima cantante votata al barocco, a Mozart, e ragazza coltissima (oltre che affascinante assai), a proposito del dietro le quinte di un allestimento del “Ritorno di Ulisse in Patria” di Claudio Monteverdi.
 
“Firenze, Ritorno d’Ulisse in patria, regia di Ronconi.
Io, vestita da statua di Minerva, con abito rigido simil-polistirolo, che apparivo, dietro una colonna, sollevata da una pedana a stantuffo con motore elettrico, cantavo la mia parte immobile col braccio alzato da Minerva vittoriosa e alla fine scomparivo con lo stesso sistema.
Nella terza recita finisco di cantare e non succede niente…
Abbasso gli occhi e vedo 3 macchinisti che si affannano intorno alla mia pedana, sacramentando a turno in modo sempre più fiorito, come solo i macchinisti fiorentini sanno fare! 
Io sempre immobile col braccio levato in alto.
Dopo qualche minuto di bestemmie sento da sotto una voce che mi fa: " ‘un si move codesta pedana, la s’è rotta! Resta lì che ti si porta la scala!"
E io, tra i denti: "e dove c… vuoi che vada vestita da statua, sospesa a 3 metri dal palcoscenico!"
Mentre Ulisse continua la sua parte, voltandosi di tanto in tanto per vedere se scomparivo o no, sento la stessa voce che mi fa: "Ti s’è messa la scala, scendi!"
Sempre col braccio alzato mi giro, guardo giù e…..
mi avevano messo UNA SCALA A PIOLI!!!!! 
Tirando insulti a Giove, Nettuno, Apollo e Giunone, mi rigiro di nuovo verso il pubblico e ridiscendo all’indietro aggrappata alla scala, ma sempre vittoriosa, mentre tutti gli dei dell’Olimpo, in quinta, se la ridono a crepapelle!”
 
Questo gustosissimo aneddoto vi accompagni per tutta la settimana e, come direbbe Marina: Pax et bonum a tutti. (smile)
"Firenze, Teatro della Pergola, Incoronazione di Poppea, regia di nuovo Ronconi.
Siamo alla PRIMA!
Scena della morte di Seneca, Giorgio Surjan.
Seneca si taglia le vene e, dopo aver lungamente cantato, muore dentro la sua vasca da bagno.
Questa è una specie di vagoncino, posta su due piccoli binari che attraversano il palcoscenico, parallelamente al proscenio.
Lentamente, mentre il coro uscendo canta, dolente, "Non morir Seneca, no, non morir", la vasca (mossa da un motorino elettrico) si avvia ad attraversare il palcoscenico per uscire dalla quinta opposta.
Ma….
Come talvolta accade…
… il vagoncino deraglia.
Poichè il palcoscenico della Pergola ha una forte pendenza, inizia a prendere pericolosamente la direzione della buca.
Seneca sempre esanime nella vasca.
Panico in quinta.
In scena non c’è più nessuno e l’unico che può evitare una catastrofe è il morto…
… che infatti…
mentre già tutti si figurano una caduta rovinosa, violini spappolati, clavicembali sventrati e tiorbe in mille pezzi, resuscita e, tirando un moccolo in croato , da dentro la vasca si aggrappa ad una delle colonne romane poste fortunatamente lungo il suo percorso!
Ronconi paonazzo in volto che pesta i piedi senza la forza di emettere verbo.
Seneca che impreca le peggiori bestemmie croate.
Mormorii e risatazze del pubblico.
Finalmente vengono mandati in scena due macchinisti, vestiti da macchinisti, che rimettono il vagoncino sulle rotaie e lo spingono fuori.
Il cast al completo che si rotola in terra dalle risate…
Ovviamente essendo la prima l’episodio finì su tutti i giornali!"
Ripax et bonum a tutti!
 

Intervista a Fabio Armiliato.

Dopo una splendida recita di “La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi, a Montecarlo, ho incontrato per un breve scambio di vedute Fabio Armiliato, fresco di debutto nel ruolo di Don Alvaro.
Ci vediamo nella hall del Novotel, magnifico albergo del centro monegasco. Io sono un po’ intimorito, ma il tenore genovese mi mette subito a mio agio, obbligandomi simpaticamente a darci del tu.
Gli chiedo se ha problemi di tempo, e risponde che l’unico suo cruccio è riuscire a vedere la Sampdoria in televisione!
Beh, ora sono davvero tranquillo, Fabio è prima di tutto una persona molto disponibile e simpatica, dalla battuta facile, non incarna certo lo stereotipo un po’ datato del “divo”.
Dopo alcune considerazioni sul fenomeno del “cellettismo” , che aborriamo entrambi, comincio, molto rassicurato, con le domande.
Allora Fabio, qual è stato il tuo approccio al personaggio, che percorso hai seguito per arrivare a questo debutto così difficile?
Beh, un percorso lungo, che parte da molto lontano e nasce dalla passione per la lirica. Mio padre mi ha abituato sin da bambino ad ascoltare la nostra musica, che è subito diventata una passione forte, di quelle che danno un significato alla vita, perché si trasforma: diventa ricerca, studio e quando poi si converte in professione si autoalimenta. La voce è uno strumento straordinario che si può arricchire e trasformare in mille modi: con la tecnica, con lo sviluppo della muscolatura, ad esempio. C’è un aspetto evolutivo, una specie di alchimia che ricorda la speranza degli antichi di mutare il materiale grezzo in oro. La gestione della vocalità necessita di devozione ed umiltà, è indispensabile sapere quando fermarsi e capire gli errori che eventualmente si fanno, e compiere un passo indietro se necessario. Credo che l’applicazione severa di queste regole sia il motivo principale dei miei progressi a livello vocale e di conseguenza del risultato soddisfacente del mio debutto come Don Alvaro.
Molto spesso gli ascoltatori aspettano il cantante e lo giudicano in base alla riuscita di un’aria famosa, ed è giusto che sia così, fa parte del gioco; sai che invece noi critici, quando ci apprestiamo all’ascolto in modo professionale, cerchiamo d’investigare con attenzione anche i momenti meno popolari della partitura. Ad esempio, ho notato una grandissima cura del fraseggio nel recitativo che precede l’aria “Oh tu che in seno agli angeli ”: tu, come ti sei preparato? Hai ascoltato i consigli di qualche grande nome, è una tua caratteristica precipua, o entrambe le cose?
Un certo istinto per la musicalità nel fraseggio è qualcosa d’innato, si può certamente sviluppare ma deve appartenere al cantante, essere diciamo così genetica, naturale. È ovvio che queste peculiarità vadano alimentate attraverso la conoscenza, che è fatta di ascolti, di comparazioni: la mia frequentazione in teatro è sempre stata assidua ed una delle prime opere che ho sentito da ragazzo è stata proprio “La Forza”, al Teatro Margherita a Genova, interpretata da Carlo Bergonzi, Piero Cappuccilli, Rita Orlandi Malaspina e Bonaldo Giaiotti, un cast straordinario. Mi ricordo che qualche tempo prima mio padre registrò alla Scala, con un apparecchio Lesa a nastri, la stessa opera. Io l’ascoltai a casa ed il giorno dopo andai a comprarmi lo spartito dell’aria: suonavo già un po’ il pianoforte, avevo 10-12 anni e cercavo di accompagnarmi! Recentemente ho ritrovato la registrazione in un cd masterizzato con lo Chénier di Carlo Bergonzi e l’ho riascoltata. Questo fatto mi ha convinto a prendere in mano il telefono e chiamare Carlo, che si è dimostrato subito disponibile, e sono andato da lui. L’incontro mi è stato utilissimo sia per i consigli che questo straordinario cantante mi ha dato per il recitativo e l’aria specifica, sia per il mio desiderio di cantare in modo più rilassato, senza peraltro trascurare quello slancio, quell’ ardore, che in alcuni momenti quest’opera esige. In un certo senso ho imparato, diciamo così, a sublimare le mie emozioni e farle passare attraverso la cura della parola scenica e l’interpretazione, al pubblico. Credo di essere riuscito, almeno parzialmente, nell’impresa di giungere a questo punto d’arrivo emozionale, e spero che il pubblico l’abbia percepito.
Nella “Forza”, aldilà dei momenti più noti, c’è qualche punto di difficoltà tecnica che il pubblico meno smaliziato non percepisce?
Questa è un’opera che richiede grandissima maturità. Qualcuno ieri sera mi ha chiesto come mai non l’abbia affrontata prima, dopotutto ho già cantato molte opere verdiane ed anche del verismo più spinto. Don Alvaro però è un personaggio che propone molte difficoltà perché è controverso dal punto di vista psicologico, ed inoltre la partitura è bassa in certi punti (sino al SI bemolle basso) e sale fino al SI naturale del duetto che di solito si taglia. Ancora, nel duettone del secondo atto, è molto faticosa anche la tenuta vocale, in quanto ci sono tre ariosi nello spazio ristretto di 4-5 pagine, e tutti in tessitura molto alta ed impegnativa: questa circostanza mette a dura prova anche il controllo dei fiati.
Poi c’è quella scala ascendente subito all’inizio, dopo una sortita che impegna subito con un intenso concitato, che se non si esegue correttamente rischia di chiuderti la gola e ti porta a forzare. È un momento importante per tutta l’economia tecnica della recita.
Come tutti i compositori, Verdi è stato estremamente preciso nell’indicare i segni d’espressione sulla partitura: l’attenzione a questi segni è fondamentale, vero?
Certo, perché si capisce bene lo stato d’animo del personaggio, e ti faccio immediatamente un esempio: quando Don Carlo arriva al convento, nell’ultimo atto, Alvaro lo accoglie dicendo “fratello” che deve essere inteso e cantato come lo dicesse un uomo che ha deciso di vivere un’altra vita, una vita spirituale, in qualche modo avulsa dal mondo reale. Poi riconosce il suo avversario e n’è sorpreso, e durante l’intero duetto bisogna saper rendere questo contrasto di sentimenti, questo entrare ed uscire tra la condizione di clausura a cui l’hanno costretto le vicissitudini dell’esistenza e l’altra vita della quale aveva quasi rimosso il ricordo. Ci sono una serie d’indicazioni straordinarie (piano, con impeto, forte, trattenendosi) ma se non hai la vocalità sotto controllo non riesci ad esprimere questo turbinio di sentimenti. Tante volte, nella mia carriera, ho cercato di apparire più convincente dal punto di vista interpretativo, ma quando si hanno problemi tecnici non ci si riesce. Per questo è indispensabile studiare sempre, proprio per poter preparare le mezzevoci, e colorare la frase nella maniera più opportuna.
Tra un paio di mesi sarai nei panni di Pollione nella "Norma" di Bellini, un ruolo che tu già conosci ed hai cantato, ma che resta pur sempre difficilissimo.
Sì, l’ho già affrontato, ma sono contento di riproporlo, perché anche questo è un ruolo che qualche volta si rischia di eseguire troppo presto. Ad esempio, all’inizio della carriera, quando non si è ancora affermati, si può anche aver bisogno di lavorare e sei quasi costretto a cantare ruoli per i quali non sei ancora pronto tecnicamente. Il nostro, per quanto particolare, è un mestiere, oltre che una vocazione ed una passione. Tra l’altro Pollione è un personaggio piuttosto ingrato sia vocalmente, la tessitura è molto centrale e c’è un’aria molto difficile all’inizio, sia umanamente…insomma, Pollione, Pinkerton, non sono propriamente simpatici modelli di comportamento da seguire, questo voglio dire.
Alvaro e Pollione sono due personaggi piuttosto lontani, dal punto di vista storico musicale: trovi ci siano anche delle affinità, magari psicologiche?
Sono ruoli, prima di tutto, che bisogna affrontare in piena maturità artistica: poi certo, anche lì c’è il duetto con Adalgisa in cui, si fa per dire, Pollione fa un po’ il Don Alvaro, allo scopo di convincere Adalgisa ad abbandonare il suo popolo e portarla con sé a Roma. C’è questa rivoluzione nella sua vita privata, e la giovanile baldanza che la sostiene, questi possono essere punti in comune tra i personaggi. Poi c’è il dramma, lo scontro con questa donna abbandonata…insomma i romani erano conquistatori, forse Norma ed Adalgisa sono più immagini di desiderio, che di amore vero.
Parliamo del disco che hai voluto incidere in omaggio a Beniamino Gigli, ma anche per te stesso, per l’amore che hai manifestato più volte nei confronti di questo straordinario tenore.
Sì, è un omaggio ad alcune delle cose che piacciono a me del suo repertorio e che mi hanno accompagnato nella mia educazione vocale, musicale, di questa voce che è sempre stata presente nella mia vita. Quando mio padre ascoltava “Mamma”  cantata da Beniamino Gigli ( e qui il nostro prode Alvaro si commuove un po’), avevo 4-5 anni e l’ascolto m’emozionava; la frase “Amici miei, soldati” dal Ballo io quasi non riesco a sentirla cantata da altri tenori…questa naturalezza, questa vocalità sempre alta e bellissima che ha fatto diventare celebri i cantanti quando il mondo mediatico quasi non esisteva: solo con la voce riescono a far capire quello che c’è dietro a ciò che stanno raccontando. Era anche la capacità della radio che riusciva a costringere l’ascoltatore ad usare l’immaginazione: un mondo che rimpiangiamo perché lasciava lo spazio alle favole, alla nostra creatività. L’Artista deve lasciare un margine al fruitore dell’Arte, al pubblico, che a sua volta deve metterci qualcosa ed architettare la propria creazione fantastica, con l’immaginazione. Per questo l’opera, ad esempio, è sempre attuale, perché attraverso le sensazioni provocate dalla musica, dà la possibilità all’ascoltatore di essere un protagonista.
Allora, Fabio, il prossimo impegno?
Gioconda a Madrid e domani alle 15 la replica della Forza, un impegno, quest’ultimo, piuttosto gravoso. Sai, parlavo a suo tempo con Franco Corelli e mi ricordava che dopo questi ruoli lui pretendeva due giorni pieni di riposo, Alfredo Kraus addirittura tre quando faceva i “Racconti di Hoffman” a Buenos Aires, e non erano certo inesperti nella gestione della vocalità.
Ma torniamo a Gigli, i personaggi del suo livello sono ricordati assai poco, anche perché sono molto ingombranti, erano delle macchine da suono, carriere lunghissime sostenute da una tecnica perfetta, i paragoni possono spesso essere imbarazzanti. Un altro protagonista di cui si parla troppo poco è Mario Del Monaco, un torrente di vocalità e personalità: il suo debutto in Otello, pur in giovane età, era giustificato da una qualità straordinaria, ma ci vuole anche voce, non solo maturità…non è obbligatorio cantare Otello a 40 anni se non sei preparato sotto ogni punto di vista. Insomma, non è indispensabile cantare tutto e subito! Nonostante un’evidente persecuzione da parte di una certa critica, Mario è stato uno degli ultimi capiscuola di vocalità, perché ha lasciato un segno indelebile nel campo drammatico.
In ogni caso il messaggio è che bisogna maturare, e non avere fretta.
Io stesso ho commesso degli errori, ma poi mi sono reso conto che l’approccio corretto è un altro. Guarda Kraus, uno dei più grandi cantanti di sempre, ha fatto del rispetto della propria vocalità una bandiera, ed è diventato un’icona dell’Arte del canto. Bergonzi e Corelli stessi, non so se mi spiego, hanno fatto scelte ben precise per l’Otello( Corelli anche Manon Lescaut) ad esempio, anche se poi Corelli mi confidò che gli dispiacque molto non aver registrato l’opera quando si sentiva effettivamente pronto, a causa di problemi esterni. Cancellò ed al suo posto cantò McCracken con la Freni, diretti da Barbirolli, ma per la Lescaut no, mi disse che proprio non pensava di riuscire a cantare come lui avrebbe voluto.
Insomma, si può arrivare ad essere famosi e popolari, ma essere bravi è ben altra cosa. Questo è un mestiere difficile, gli errori si pagano.
Faccio un esempio eclatante, Pavarotti. Tenore straordinario, ma avrei preferito che ci lasciasse un Gualtiero, o un Devereux, invece di qualche Aida e l’Otello o lo stesso Chenier.
Certo, nessuno può neanche discutere un Pavarotti, ma io l’ho visto debuttare nel Ballo in Arena e da appassionato anch’io mi rammarico che non abbia approfondito certi ruoli. Sai, il nostro microsistema vive al margine tra il mondo dell’Arte e quello dello show business e ciò ancora oggi ci crea qualche problema. Noi siamo esecutori di capolavori immortali, dobbiamo rispetto anche ai compositori, oltre che al pubblico.
Secondo te,  perché oggi è quasi impossibile vedere un’opera com’è descritta nel libretto, specialmente nella scuola registica tedesca?
Ci sono varie motivazioni, una sicuramente è il lato economico: molti registi di prosa sono passati alla lirica perché girano più soldi, più investimenti, ed anche perché, in secondo luogo, l’attenzione del pubblico è maggiore.
Se un regista allestisce, tanto per fare un esempio, un Don Carlo, ha più spazio sui media, e maggiore visibilità ovunque.
Eppure se qualcuno andasse a chiedere a Andrew Lloyd Webber d’ambientare il suo Fantasma dell’Opera in Cina, ad esempio nella Città proibita, gli sarebbe risposto di no. Mancherebbe l’aderenza alle esigenze del Compositore, al testo. Non credo che Webber sia da rispettare meno, che ne so, di Puccini.Bisogna usare le tecnologie moderne per rendere meglio di una volta il pensiero del compositore, non per soddisfare il nostro egocentrismo o quello dei registi. Ora, ci sono anche idee innovative e valide, non bisogna buttare tutto via, ma occorre avere rispetto di capolavori immortali che tengono alto il nome dell’Italia e dell’italianità in un momento in cui il nostro paese ne ha molto bisogno.
Bisogna ristabilire i ruoli, il cantante deve tornare ad essere figura centrale nell’economia di un allestimento, in collaborazione attiva con il direttore ed il regista, ricordando però, anche con un occhio al passato, che senza le grandi voci l’opera scomparirebbe in breve tempo.
 
 
Un’ora è volata via veloce, è il momento di salutarci ( non sia mai che si perda l’inizio della partita!).
Non riesco neanche ad offrirgli il caffè che abbiamo bevuto, tra una chiacchiera e l’altra.
A Milano, mercoledì 20 febbraio, Fabio Armiliato e Daniela Dessì si esibiranno in un concerto, di cui qui potete trovare i dettagli.
Io non ci sarò, accidenti.
Buon fine settimana a tutti.
 
 

Mascagni e Federico Tiezzi.

Sono impossibilitato, dal punto di vista intellettuale, ad esercitare la nobile e frequentatissima arte del pregiudizio.
Ieri sera, una volta di più, mi sono accorto che tale mia inadeguatezza è in realtà un valore aggiunto.
L’opera Iris di Mascagni, ma il discorso vale per tutto un movimento che qui, per amor di chiarezza e semplicità, chiameremo verismo musicale, è stata a lungo guardata con malcelato sospetto da una certa ala oltranzista della sinistra intellettuale italiana.
Questo atteggiamento è stato dettato anche (ma non solo) dalle vicende personali di molti Compositori, che sono vissuti all’epoca del ventennio fascista e, in qualche modo, sono stati contigui a quell’ideologia aberrante.
Ora, posto che è del tutto legittimo che non piaccia l’Iris, come è altrettanto legittimo che non incontri il favore di qualcuno l’Aida o il Don Giovanni, è invece assolutamente idiota che non piaccia un’opera lirica, ma direi l’Arte in generale, perché è stata composta da Mascagni o altri in quanto rappresentanti presunti di un’ideologia.
Se ne deduce che chi, per default, diciamo così, disprezza una forma di comunicazione artistica, è una persona intollerante, ignorante.
L’intolleranza è il primo passo verso il razzismo, in senso lato. L’ignoranza è la Madre di Tutte le Disgrazie. Il razzismo e l’ignoranza portano inevitabilmente all’emarginazione del diverso ed alla ghettizzazione del dissenso.
Il pre-giudizio è in nuce fascismo.
Bene, questo concetto elementare ed espresso in modo rozzo, mi serve per affermare con forza che ieri sera, al Verdi di Trieste, il teatro ha vinto sulla chiacchiera da salotto radical chic.
Mi sono emozionato, non poco, a vedere rappresentata l’Iris di Mascagni, in uno splendido allestimento del regista Federico Tiezzi.
In questo mondo che vive delle ombre che si celano tra le pieghe di contraddizioni contraddette, nel quale far finta di essere sani è l’unica risposta all’esigenza di guarire dalla salute e non dalla malattia, ho fatto il mio piccolo passo avanti verso la rigenerazione.
Grazie Svevo. Grazie Gaber. E grazie a Mascagni.
(quasi quasi mi candido)
 
 
 

A night at the opera.

Vorrei proseguire, anche perché ne ho bisogno io, la mia lettura in chiave umoristica dell’opera. Oggi affronto un argomento in continuo divenire, e cioè…

le papere , gli imprevisti, i lapsus, gli improvvisi vuoti di memoria che sono l’incubo di chiunque calchi un palcoscenico.
La lirica non è certo immune a questo problema, vuoi per ignoranza del settore vera e propria (penso ad annunciatrici e speaker vari), vuoi perché, e chi lavora o ha lavorato in teatro lo sa benissimo, la catastrofe è sempre dietro l’angolo.
Allora, nella speranza di far sorridere qualcuno, ecco un piccolo florilegio di “incidenti” accaduti sul palcoscenico o notati sulla stampa, durante la rappresentazione o descrizione di alcune Opere.
Comiciamo con l’ Otello di Verdi .
Qualche anno fa, il mitico Paolo Limiti, che era stato incaricato dalla RAI di presentare il capolavoro verdiano, chiese nell’intervallo al tenore Josè Cura che ne pensasse della sua Adalgisa (personaggio della “Norma”), confondendola stolidamente con Desdemona e suscitando lo sguardo scandalizzato del tenore argentino, oltre che le proteste telefoniche dello sparuto gruppo di ascoltatori.( tra i quali, ovviamente, c’ero anch’io)
Un giornale sostituì nella pagina degli spettacoli, a caratteri cubitali, il nome Dalila con Dalida, nel presentare il Samson et Dalila allo Sferisterio di Macerata, suscitando speranze di resurrezione negli ammiratori della cantante francese, che era già morta da qualche anno.
In una Forza del Destino di qualche anno fa , il tenore ha bussato così violentemente alla porta dell’antro dove si trova in clausura la sua Leonora, che gli è rimasto il battente in mano , compromettendo il pathos della drammatica scena. Due anni fa, a Trieste, uno Sparafucile fu colpito in faccia da una porta che si chiuse per sbaglio. Quest’anno, sempre a Trieste, la povera Sondra Radvanovsky è scivolata dalle scale, di cui il perfido regista Pier Luigi Pizzi aveva disseminato la scena.
In una Traviata genovese, un tenore che evidentemente non aveva incontrato i gusti del pubblico, dopo aver pronunciato alla sua Violetta la frase "Or vanne, andrò a Parigi" si sentì rispondere dal pubblico "E restaci!" .
Nel momento più drammatico di Tosca , la protagonista, non riuscendo a trovare un coltello sul tavolo della cena con Scarpia, uccide il potentato barone a colpi di forchetta!
Sempre nella stessa opera, Tosca alla fine si getta giù dal torrione di Castel Sant’Angelo…ovviamente in scena sotto c’è qualcosa che attutisce la caduta…beh una volta devono averci messo un tappeto elastico, visto che Tosca dopo il suicidio nel vuoto, riapparse miracolosamente per qualche secondo!
Aida è un’opera che si presta a regie straordinarie, specie nelle famose rappresentazioni all’aperto, dove spesso c’erano veri elefanti ed altrettanto veri cavalli: beh, mica si può dire ad un elefante "No, qui non puoi mollarla" e neanche ad un cavallo "Non mangiare l’elmo di Radames ", vero? E quindi le povere bestie (quelle vere, non i tenori), davano sfogo alla loro natura, con risultati comici che vi lascio immaginare. Per non parlare di questo orrido allestimento, da me già stigmatizzato,  che si deve al genio del regista. (la famiglia dei Dumbo-Jet resta un classico)
Il pubblico è feroce, come abbiamo già visto: una volta, in provincia, all’ultimo secondo la prima ballerina dovette dare forfait ed essere sostituita dalla coreografa, non più giovanissima; bene, nella celeberrima scena della Morte del Cigno l’anziana signora si adagia mollemente sul palcoscenico, e subito dal loggione: "Pora bestia, ha finito de soffri’ ".
Nel Don Carlo di Verdi, nella scena del giuramento d’amicizia tra tenore e baritono, la spada del tenore non esce dal fodero, perciò i due protagonisti incrociano una spada…ed un braccio teso!
Ma una delle “papere” più famose è raccontata da quell’enciclopedia vivente del Teatro che è Elio Pandolfi : siamo in RAI ai tempi della censura democristiana, quando in sostanza non si poteva dire nulla che suggerisse neanche lontanamente un doppiosenso a sfondo sessuale.
La “cavatina” nell’accezione lessicale operistica è “ una breve aria monostrofica, priva di una seconda parte e di una successiva ripresa della sezione principale, perlopiù d’intonazione patetica”; bene, al debutto alla radio, una giovane annunciatrice disse: “Ed ora, gentili ascoltatori, dal Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini vi trasmettiamo la chiavatina di Rosina" .
Ovviamente, fu licenziata in tronco e non se ne seppe più nulla.

Buona settimana a tutti. (smile)

Come t’antitoli?

Quando ognuno di noi prende in mano carta e penna (o s’avvicina alla tastiera), per scrivere una lettera, un racconto, un post, arriva il momento tragico in cui si pone la fatidica domanda: “Ora, come intitolo ‘sta cosa?”.
Dallo stesso smarrimento, credo, sono stati colti musicisti e librettisti d’opera, a meno che le loro storie non fossero direttamente tratte da Shakespeare; voglio dire, Verdi come avrebbe potuto intitolare l’Otello o il Macbeth, senza apparire non voglio dire ridicolo, ma almeno un po’ troppo immodesto ?
Nella maggioranza dei casi quindi, il titolo può essere considerato una specie di spot commerciale, e siccome nei secoli passati non avevano la fortuna (?) dell’immediatezza della comunicazione, l’azione di convincimento doveva, inevitabilmente, essere particolarmente efficace.
Questa modestissima riflessione vale ancor di più per tutti quei compositori che, nel loro intimo, si rendevano conto che i contenuti artistici del loro lavoro non erano, come dire, memorabili; del resto anche oggi, i prodotti più gridati sono spesso quelli con minor valore intrinseco.
Un esempio per tutti: i tormentoni dei comici che, nella maggioranza dei casi, al primo ascolto provocano l’impulso di spaccare a testate il mezzo che li veicola; poi, la reiterazione del messaggio ci porta in un secondo momento all’accettazione, e nei casi più gravi di dissociazione psichica, anche all’assunzione di paternità della battuta, magari per far colpo su qualche ragazza. (che se a quel punto t’accoglie nel talamo, vuol dire che non era necessaria neanche la battuta) (smile)
Torniamo alla lirica, ché di drude e vili cortigiane si parla troppo spesso.
(per inciso, un tormentone che sarà particolarmente gridato da comici straordinari, nei prossimi mesi, sarà questo: "Voi avete impedito al Papa di parlare". Sarà detto da chiunque passa in televisione, alla Radio, sui manifesti elettorali, negli autobus, insomma dove volete voi…ma transeat pure questo, basta che poi non dite che vi avevo avvertito)
Ecco un elenco di opere liriche delle quali, evidentemente per mancanza di contenuti, ci resta solo il titolo, un po’ come per la Multipla della FIAT. [ oh vista oh vista orribile… se era brutta! (rismile)]
Ho pensato di dividerle per categorie, per maggior chiarezza.

Opere per tour operator:

1) Il fiore delle Haway
2) Il viaggio in Cina
3) La ritornata da Londra
4) Il fiore della Pampa
5) La bambola della prateria

Opere dedicate a soggetti border line:

1) Lampadino
2) I pezzenti
3) Cocoricò
4) Il Re dei matti
5) La bella marmottara
6) Il folletto di Gresy
7) Il trombetta
8) Il finto sordo
9) La Monacella della fontana
10) Il piccolo Haydn
11) Il milionario accattone

Opere da ufficio del lavoro:

1) Il parrucchiere politico
2) Katia la ballerina
3) Serafino il mozzo
4) Il signore del Tassametro
5) L’avvocato ballerino
6) Lulù boxeur ( magari da qui ha preso spunto Clint Eastwood? Non lo sapremo mai)

Soap opera:

1) La notte degli schiaffi
2) Un milioncino
3) Maledetta
4) Tradita
5) La bella mammina
6) È pazza

…e per finire in bellezza…ed a parziale complemento del mio contributo a Rotocalco

Opere per agenzie matrimoniali e produttori hard core:

1) Basta con gli uomini
2) La sposa invisibile
3) La moglie di tre mariti
4) Prestami tua moglie
5) Il marito decorativo
6) La supermoglie
7) Il controllore dei vagoni letto
8) Il regno delle donne emancipate
9) L’amore di un mozzo
10) Gola d’oro
11) La finta muta per amore
12) La signorina Ettore
13) Tancreda
14) Don Finocchio
15) La Principessa Riccardo

Lo so, pensate che io mi sia inventato tutto, ma giuro che esistono!
Magari qualche sagace commentatore, potrebbe inventarsi una trama, o trarre spunto per un raccontino, chissà.
Ora, mi si pone un dubbio tremendo, come intitolo questo post? (strasmile)
Buona giornata a tutti ed un grazie ad Enrico Stinchelli, autore di un libro divertentissimo, "Opera, che follia!" che ho letto un miliardo di anni fa, quando credevo ancora che la sinistra politica italiana esistesse davvero.

%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: