Dopo una splendida recita di
“La Forza del Destino” di Giuseppe Verdi, a Montecarlo, ho incontrato per un breve scambio di vedute
Fabio Armiliato, fresco di debutto nel ruolo di Don Alvaro.
Ci vediamo nella hall del Novotel, magnifico albergo del centro monegasco. Io sono un po’ intimorito, ma il tenore genovese mi mette subito a mio agio, obbligandomi simpaticamente a darci del tu.
Gli chiedo se ha problemi di tempo, e risponde che l’unico suo cruccio è riuscire a vedere la Sampdoria in televisione!
Beh, ora sono davvero tranquillo, Fabio è prima di tutto una persona molto disponibile e simpatica, dalla battuta facile, non incarna certo lo stereotipo un po’ datato del “divo”.
Dopo alcune considerazioni sul fenomeno del “cellettismo” , che aborriamo entrambi, comincio, molto rassicurato, con le domande.
Allora Fabio, qual è stato il tuo approccio al personaggio, che percorso hai seguito per arrivare a questo debutto così difficile?
Beh, un percorso lungo, che parte da molto lontano e nasce dalla passione per la lirica. Mio padre mi ha abituato sin da bambino ad ascoltare la nostra musica, che è subito diventata una passione forte, di quelle che danno un significato alla vita, perché si trasforma: diventa ricerca, studio e quando poi si converte in professione si autoalimenta. La voce è uno strumento straordinario che si può arricchire e trasformare in mille modi: con la tecnica, con lo sviluppo della muscolatura, ad esempio. C’è un aspetto evolutivo, una specie di alchimia che ricorda la speranza degli antichi di mutare il materiale grezzo in oro. La gestione della vocalità necessita di devozione ed umiltà, è indispensabile sapere quando fermarsi e capire gli errori che eventualmente si fanno, e compiere un passo indietro se necessario. Credo che l’applicazione severa di queste regole sia il motivo principale dei miei progressi a livello vocale e di conseguenza del risultato soddisfacente del mio debutto come Don Alvaro.
Molto spesso gli ascoltatori aspettano il cantante e lo giudicano in base alla riuscita di un’aria famosa, ed è giusto che sia così, fa parte del gioco; sai che invece noi critici, quando ci apprestiamo all’ascolto in modo professionale, cerchiamo d’investigare con attenzione anche i momenti meno popolari della partitura. Ad esempio, ho notato una grandissima cura del fraseggio nel recitativo che precede l’aria “Oh tu che in seno agli angeli ”: tu, come ti sei preparato? Hai ascoltato i consigli di qualche grande nome, è una tua caratteristica precipua, o entrambe le cose?
Un certo istinto per la musicalità nel fraseggio è qualcosa d’innato, si può certamente sviluppare ma deve appartenere al cantante, essere diciamo così genetica, naturale. È ovvio che queste peculiarità vadano alimentate attraverso la conoscenza, che è fatta di ascolti, di comparazioni: la mia frequentazione in teatro è sempre stata assidua ed una delle prime opere che ho sentito da ragazzo è stata proprio “La Forza”, al Teatro Margherita a Genova, interpretata da Carlo Bergonzi, Piero Cappuccilli, Rita Orlandi Malaspina e Bonaldo Giaiotti, un cast straordinario. Mi ricordo che qualche tempo prima mio padre registrò alla Scala, con un apparecchio Lesa a nastri, la stessa opera. Io l’ascoltai a casa ed il giorno dopo andai a comprarmi lo spartito dell’aria: suonavo già un po’ il pianoforte, avevo 10-12 anni e cercavo di accompagnarmi! Recentemente ho ritrovato la registrazione in un cd masterizzato con lo Chénier di Carlo Bergonzi e l’ho riascoltata. Questo fatto mi ha convinto a prendere in mano il telefono e chiamare Carlo, che si è dimostrato subito disponibile, e sono andato da lui. L’incontro mi è stato utilissimo sia per i consigli che questo straordinario cantante mi ha dato per il recitativo e l’aria specifica, sia per il mio desiderio di cantare in modo più rilassato, senza peraltro trascurare quello slancio, quell’ ardore, che in alcuni momenti quest’opera esige. In un certo senso ho imparato, diciamo così, a sublimare le mie emozioni e farle passare attraverso la cura della parola scenica e l’interpretazione, al pubblico. Credo di essere riuscito, almeno parzialmente, nell’impresa di giungere a questo punto d’arrivo emozionale, e spero che il pubblico l’abbia percepito.
Nella “Forza”, aldilà dei momenti più noti, c’è qualche punto di difficoltà tecnica che il pubblico meno smaliziato non percepisce?
Questa è un’opera che richiede grandissima maturità. Qualcuno ieri sera mi ha chiesto come mai non l’abbia affrontata prima, dopotutto ho già cantato molte opere verdiane ed anche del verismo più spinto. Don Alvaro però è un personaggio che propone molte difficoltà perché è controverso dal punto di vista psicologico, ed inoltre la partitura è bassa in certi punti (sino al SI bemolle basso) e sale fino al SI naturale del duetto che di solito si taglia. Ancora, nel duettone del secondo atto, è molto faticosa anche la tenuta vocale, in quanto ci sono tre ariosi nello spazio ristretto di 4-5 pagine, e tutti in tessitura molto alta ed impegnativa: questa circostanza mette a dura prova anche il controllo dei fiati.
Poi c’è quella scala ascendente subito all’inizio, dopo una sortita che impegna subito con un intenso concitato, che se non si esegue correttamente rischia di chiuderti la gola e ti porta a forzare. È un momento importante per tutta l’economia tecnica della recita.
Come tutti i compositori, Verdi è stato estremamente preciso nell’indicare i segni d’espressione sulla partitura: l’attenzione a questi segni è fondamentale, vero?
Certo, perché si capisce bene lo stato d’animo del personaggio, e ti faccio immediatamente un esempio: quando Don Carlo arriva al convento, nell’ultimo atto, Alvaro lo accoglie dicendo “fratello” che deve essere inteso e cantato come lo dicesse un uomo che ha deciso di vivere un’altra vita, una vita spirituale, in qualche modo avulsa dal mondo reale. Poi riconosce il suo avversario e n’è sorpreso, e durante l’intero duetto bisogna saper rendere questo contrasto di sentimenti, questo entrare ed uscire tra la condizione di clausura a cui l’hanno costretto le vicissitudini dell’esistenza e l’altra vita della quale aveva quasi rimosso il ricordo. Ci sono una serie d’indicazioni straordinarie (piano, con impeto, forte, trattenendosi) ma se non hai la vocalità sotto controllo non riesci ad esprimere questo turbinio di sentimenti. Tante volte, nella mia carriera, ho cercato di apparire più convincente dal punto di vista interpretativo, ma quando si hanno problemi tecnici non ci si riesce. Per questo è indispensabile studiare sempre, proprio per poter preparare le mezzevoci, e colorare la frase nella maniera più opportuna.
Tra un paio di mesi sarai nei panni di Pollione nella "Norma" di Bellini, un ruolo che tu già conosci ed hai cantato, ma che resta pur sempre difficilissimo.
Sì, l’ho già affrontato, ma sono contento di riproporlo, perché anche questo è un ruolo che qualche volta si rischia di eseguire troppo presto. Ad esempio, all’inizio della carriera, quando non si è ancora affermati, si può anche aver bisogno di lavorare e sei quasi costretto a cantare ruoli per i quali non sei ancora pronto tecnicamente. Il nostro, per quanto particolare, è un mestiere, oltre che una vocazione ed una passione. Tra l’altro Pollione è un personaggio piuttosto ingrato sia vocalmente, la tessitura è molto centrale e c’è un’aria molto difficile all’inizio, sia umanamente…insomma, Pollione, Pinkerton, non sono propriamente simpatici modelli di comportamento da seguire, questo voglio dire.
Alvaro e Pollione sono due personaggi piuttosto lontani, dal punto di vista storico musicale: trovi ci siano anche delle affinità, magari psicologiche?
Sono ruoli, prima di tutto, che bisogna affrontare in piena maturità artistica: poi certo, anche lì c’è il duetto con Adalgisa in cui, si fa per dire, Pollione fa un po’ il Don Alvaro, allo scopo di convincere Adalgisa ad abbandonare il suo popolo e portarla con sé a Roma. C’è questa rivoluzione nella sua vita privata, e la giovanile baldanza che la sostiene, questi possono essere punti in comune tra i personaggi. Poi c’è il dramma, lo scontro con questa donna abbandonata…insomma i romani erano conquistatori, forse Norma ed Adalgisa sono più immagini di desiderio, che di amore vero.
Sì, è un omaggio ad alcune delle cose che piacciono a me del suo repertorio e che mi hanno accompagnato nella mia educazione vocale, musicale, di questa voce che è sempre stata presente nella mia vita. Quando mio padre ascoltava “Mamma” cantata da Beniamino Gigli ( e qui il nostro prode Alvaro si commuove un po’), avevo 4-5 anni e l’ascolto m’emozionava; la frase “Amici miei, soldati” dal Ballo io quasi non riesco a sentirla cantata da altri tenori…questa naturalezza, questa vocalità sempre alta e bellissima che ha fatto diventare celebri i cantanti quando il mondo mediatico quasi non esisteva: solo con la voce riescono a far capire quello che c’è dietro a ciò che stanno raccontando. Era anche la capacità della radio che riusciva a costringere l’ascoltatore ad usare l’immaginazione: un mondo che rimpiangiamo perché lasciava lo spazio alle favole, alla nostra creatività. L’Artista deve lasciare un margine al fruitore dell’Arte, al pubblico, che a sua volta deve metterci qualcosa ed architettare la propria creazione fantastica, con l’immaginazione. Per questo l’opera, ad esempio, è sempre attuale, perché attraverso le sensazioni provocate dalla musica, dà la possibilità all’ascoltatore di essere un protagonista.
Allora, Fabio, il prossimo impegno?
Gioconda a Madrid e domani alle 15 la replica della Forza, un impegno, quest’ultimo, piuttosto gravoso. Sai, parlavo a suo tempo con Franco Corelli e mi ricordava che dopo questi ruoli lui pretendeva due giorni pieni di riposo, Alfredo Kraus addirittura tre quando faceva i “Racconti di Hoffman” a Buenos Aires, e non erano certo inesperti nella gestione della vocalità.
Ma torniamo a Gigli, i personaggi del suo livello sono ricordati assai poco, anche perché sono molto ingombranti, erano delle macchine da suono, carriere lunghissime sostenute da una tecnica perfetta, i paragoni possono spesso essere imbarazzanti. Un altro protagonista di cui si parla troppo poco è Mario Del Monaco, un torrente di vocalità e personalità: il suo debutto in Otello, pur in giovane età, era giustificato da una qualità straordinaria, ma ci vuole anche voce, non solo maturità…non è obbligatorio cantare Otello a 40 anni se non sei preparato sotto ogni punto di vista. Insomma, non è indispensabile cantare tutto e subito! Nonostante un’evidente persecuzione da parte di una certa critica, Mario è stato uno degli ultimi capiscuola di vocalità, perché ha lasciato un segno indelebile nel campo drammatico.
In ogni caso il messaggio è che bisogna maturare, e non avere fretta.
Io stesso ho commesso degli errori, ma poi mi sono reso conto che l’approccio corretto è un altro. Guarda Kraus, uno dei più grandi cantanti di sempre, ha fatto del rispetto della propria vocalità una bandiera, ed è diventato un’icona dell’Arte del canto. Bergonzi e Corelli stessi, non so se mi spiego, hanno fatto scelte ben precise per l’Otello( Corelli anche Manon Lescaut) ad esempio, anche se poi Corelli mi confidò che gli dispiacque molto non aver registrato l’opera quando si sentiva effettivamente pronto, a causa di problemi esterni. Cancellò ed al suo posto cantò McCracken con la Freni, diretti da Barbirolli, ma per la Lescaut no, mi disse che proprio non pensava di riuscire a cantare come lui avrebbe voluto.
Insomma, si può arrivare ad essere famosi e popolari, ma essere bravi è ben altra cosa. Questo è un mestiere difficile, gli errori si pagano.
Faccio un esempio eclatante, Pavarotti. Tenore straordinario, ma avrei preferito che ci lasciasse un Gualtiero, o un Devereux, invece di qualche Aida e l’Otello o lo stesso Chenier.
Certo, nessuno può neanche discutere un Pavarotti, ma io l’ho visto debuttare nel Ballo in Arena e da appassionato anch’io mi rammarico che non abbia approfondito certi ruoli. Sai, il nostro microsistema vive al margine tra il mondo dell’Arte e quello dello show business e ciò ancora oggi ci crea qualche problema. Noi siamo esecutori di capolavori immortali, dobbiamo rispetto anche ai compositori, oltre che al pubblico.
Secondo te, perché oggi è quasi impossibile vedere un’opera com’è descritta nel libretto, specialmente nella scuola registica tedesca?
Ci sono varie motivazioni, una sicuramente è il lato economico: molti registi di prosa sono passati alla lirica perché girano più soldi, più investimenti, ed anche perché, in secondo luogo, l’attenzione del pubblico è maggiore.
Se un regista allestisce, tanto per fare un esempio, un Don Carlo, ha più spazio sui media, e maggiore visibilità ovunque.
Eppure se qualcuno andasse a chiedere a Andrew Lloyd Webber d’ambientare il suo Fantasma dell’Opera in Cina, ad esempio nella Città proibita, gli sarebbe risposto di no. Mancherebbe l’aderenza alle esigenze del Compositore, al testo. Non credo che Webber sia da rispettare meno, che ne so, di Puccini.Bisogna usare le tecnologie moderne per rendere meglio di una volta il pensiero del compositore, non per soddisfare il nostro egocentrismo o quello dei registi. Ora, ci sono anche idee innovative e valide, non bisogna buttare tutto via, ma occorre avere rispetto di capolavori immortali che tengono alto il nome dell’Italia e dell’italianità in un momento in cui il nostro paese ne ha molto bisogno.
Bisogna ristabilire i ruoli, il cantante deve tornare ad essere figura centrale nell’economia di un allestimento, in collaborazione attiva con il direttore ed il regista, ricordando però, anche con un occhio al passato, che senza le grandi voci l’opera scomparirebbe in breve tempo.
Un’ora è volata via veloce, è il momento di salutarci ( non sia mai che si perda l’inizio della partita!).
Non riesco neanche ad offrirgli il caffè che abbiamo bevuto, tra una chiacchiera e l’altra.
Io non ci sarò, accidenti.
Buon fine settimana a tutti.
Mi piace:
Mi piace Caricamento...
Hanno detto: