Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: novembre 2008

Recensione del Siegfried a Firenze, semiseria come sempre.

Un Siegfried nato per stupire, ma anche per raccontare.
Questa è stata la prima considerazione che ho fatto quando sono uscito dal Teatro del Maggio, ieri sera.
 

Siegfried

 

La seconda riflessione, invece, è più amara e legata all’attualità: riuscirò a vedere il Götterdämmerung allestito dalla Fura dels Baus, che dovrebbe inaugurare la prossima edizione del Maggio Fiorentino, considerati i tagli previsti alla cultura?
Prima della recita, come già anticipato da Daland, gli artigiani (sarti, falegnami ecc.) del teatro hanno lanciato il loro grido di dolore con una proiezione sullo schermo (“Noi tagliamo, ci vogliono tagliare”) e in sala si respirava un’atmosfera di tesa partecipazione: Zubin Mehta, grande direttore e brillante uomo di spettacolo, si è rivolto al pubblico annunciando che “visto che i tagli sembrano aver già colpito gli altoparlanti del teatro, vi annuncio io che questa sera Albert Dohmen canterà al posto di Juha Uusitalo nel ruolo di Wotan”.
Sorrisi liberatori stempera tensione e doveroso ringraziamento a Albert Dohmen, in questi giorni impegnato in Emilia Romagna con il Fidelio.
Ho scritto all’inizio di un Siegfried nato per stupire; in realtà è il progetto di tutto questo Ring che è stupefacente: per originalità d’intenzioni, per la bellezza dei costumi (già premiati l’anno scorso con l’Abbiati) ma anche, e di questi tempi è quasi una rarità, per un’ammirevole fedeltà al libretto originale.
Il merito maggiore della Fura dels Baus è proprio quello, a mio avviso, di aver allestito un Ring fruibile anche dai neofiti, un progetto di divulgazione culturale forse in alcune occasioni un po’ ingenuo, ma meritoriamente privo d’inutili sofismi intellettualistici.
Certo c’è molta carne al fuoco sul palcoscenico, e si rischia in alcune occasioni una specie di saturazione dei sensi: molto ricche in particolare la scena iniziale e l’apparizione del drago Fafner.

Dead Fafner

Proiezioni coloratissime, personaggi, comparse, macchine semoventi possono distogliere l’attenzione dal canto, più che dalla vicenda.
Alcune intenzioni sono molto didascaliche e anche banalotte se vogliamo, come nella scena della forgiatura della spada, ma è molto suggestiva e poetica l’apparizione di Brünnhilde addormentata e circondata dal fuoco e il precedente viaggio aereo di Wotan alla ricerca di Erda.
Uno spettacolo da vedere, questo è certo.
Dal lato musicale è indispensabile sottolineare l’ottima prova dell’orchestra del Maggio, diretta con grande leggerezza da Zubin Mehta, che sceglie una lettura lirica e pulita della partitura scevra da clangori e wagnerismi deteriori. Magica, in questo senso, la splendida scena iniziale del secondo atto: cupa, notturna, ansiogena, misteriosa.
Forse è mancato un po’ di pathos nell’altro momento topico del risveglio di Brünnhilde, ma proprio a voler essere pignoli e incontentabili.
Un bravo a Mehta e all’orchestra del Maggio, che forse oggi è l’unica compagine musicale italiana di altissimo livello.

Orchestra Maggio Mehta

Complessivamente molto buona anche la prova dei cantanti.

Cantanti

Albert Dohmen è uno dei Wotan di riferimento degli ultimi anni, e fa valere sia la sua magnifica presenza scenica sia la sua perfetta comprensione del ruolo: la voce è dimagrita rispetto a qualche anno fa, però la sua prova è stata nettamente superiore, per esempio, a quella del Festival di Bayreuth dell’estate scorsa, nella quale le tensioni negli acuti erano apparse evidenti.
Di rilievo anche la caratterizzazione di Mime (personaggio difficile, spesso eccessivamente ridotto a macchietta e risolto con artifici che nulla hanno a che vedere col canto) che offre Ulrich Ress: gli acuti sono sicuri, il fraseggio curato, la recitazione mai sopra le righe. Magnifico, veramente, il suo concitato ultimo colloquio con Siegfried.
Franz-Joseph Kappellmann è apparso un po’ vociferante, ma il personaggio di Alberich esce in tutta la sua ferina ambiguità.
Non mi è piaciuta troppo, ma mi sto convincendo che è un problema mio che prescinde dall’interprete, Catherine Wyn-Rogers nei panni di Erda: io vorrei una voce sontuosa, misteriosa, ampia, adatta a rendere la grandezza drammaturgica di questo fondamentale personaggio del Ring, e invece trovo, nel migliore dei casi, cantanti che sono corretti e nulla più.
Peccato.
Grandissimo invece è stato Stephen Milling nei panni di Fafner: voce scura da basso profondo, ricca di armonici. Finalmente ho sentito l’ultimo rappresentante della stirpe dei Giganti, e non un drago isterico da cartone animato artigianale.
Discreto il Waldvogel di Chen Reiss, che ha palesato una voce argentina afflitta da un vibrato stretto piuttosto fastidioso. (però dai, cantava sospesa nel vuoto!)

Waldvogel

Brünnhilde era Jennifer Wilson, un soprano del quale non si può certo dire che difetti di volume: gli acuti sono pieni e voluminosi ma, almeno a mio parere e riferendomi alla recita di ieri sera, è mancata nel tratteggiare quell’aura di mistero quasi sovrannaturale che pretende il personaggio.
Ho lasciato per ultimo l’interprete di Siegfried, e non per caso.
Lo stesso Wagner, è cosa nota a tutti i devoti (smile), era conscio di aver scritto una parte musicalmente quasi mostruosa per il tenore. Con questa premessa e sentiti i recenti naufragi di cantanti ben più quotati mi sento di affermare che l’artista russo Leonid Zakhozhaev è stato un buon Siegfried: certo la voce è piccolina e abbastanza anonima, non si sentono acuti squillanti, però è arrivato al duetto finale con lo strumento in condizioni ancora buone e intenzioni interpretative lodevoli. Sicuramente la direzione di Mehta, mai preponderante, lo ha aiutato molto: del resto, io, al contrario di altri, non vedo nulla di particolarmente scandaloso nel concertare anche in funzione degli artisti dei quali si dispone, a condizione che il risultato d’insieme sia omogeneo.
I movimenti scenici sono curati in modo maniacale da Carlus Padrissa, ma con uno spettacolo così strutturato non potrebbe essere diversamente.
Sono molto belle le scene di Roland Olbeter e spettacolari i costumi di Chu Uro; allo stesso modo ho trovato splendide le luci di Peter van Praet, mentre le proiezioni di Franc Aleu, in qualche circostanza, mi sono sembrate troppo hollywoodiane seppur originali e godibili.
A proposito è giusto considerare che dalla prima galleria i video, oltre a essere proiettati sullo sfondo, erano riflessi dal palcoscenico lucido; è probabile quindi che la mia sensazione di eccessivo affollamento scenico sia dovuta in quota percentuale anche alla mia avarizia: dalla platea questo inconveniente non si notava. (strasmile)
Ex-Ripley ha resistito stoicamente senza addormentarsi sino al duetto finale, durante il quale ha manifestato qualche raro episodio di deficit dell’attenzione, peraltro non accompagnato dal tipico rumore da basso tuba di chi russa pesantemente.
Direi che va assolta (strasmile).
Un abbraccio all’amico Bob (che immagino a breve ci farà sapere anche il suo autorevole parere), gentilissimo e premuroso come sempre, e un saluto affettuoso alla dolcissima Marina, con la quale abbiamo trascorso, per ragioni logistiche, poco tempo.
Ci rifaremo presto.
 
P.S.
 
Le foto sono così così, ma meglio di niente no?
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Pillole di Otello.

La gestazione dell’Otello fu piuttosto lunga.
Giuseppe Verdi e Arrigo Boito lavorarono a stretto contatto, anche con qualche incomprensione.
Giulio Ricordi spesso fece da tramite e pungolo tra i due artisti.
Queste tre eminenti personalità della cultura della fine dell’ottocento, quando si riferivano al lavoro tratto dal dramma di Shakespeare, adoperavano una specie di codice:
 
“Dirai a Giulio che sto fabbricando il cioccolatte…”
 
Che non è carino comunque, ma erano altri tempi ed è sempre meglio di abbronzato, secondo me. (smile)
 
Giuseppina Strepponi esercitava il suo dovere di pompiere nei rapporti abbastanza tesi tra Verdi e Boito, anche inventandosi metafore ardite:
 
“Lasciamo che la corrente se ne vada diretta per la sua via al mare. È negli ampi spazi che certi uomini sono destinati ad incontrarsi ed intendersi”
 
 
Sembra la pubblicità dell’Amaro Montenegro o di qualche nuova automobile.
Anzi, mi sa che qualche creativo di passaggio se ne approprierà. (strasmile)
 
 

Otello al Teatro dell’Opera di Roma: alcune considerazioni a margine.

Il 6 dicembre al Teatro dell’Opera di Roma, dopo 40 anni, si riallestisce l’Otello di Giuseppe Verdi, uno dei titoli più ineseguibili, di questi tempi, dell’intero panorama operistico.
 
 
Nei prossimi giorni quindi scriverò, spero con frequenza quotidiana, qualche piccola curiosità su questo lavoro pazzesco.
Ho definito all’inizio ineseguibile quest’opera: intendo dire che sono anni che non si sente un Otello di livello molto buono, non che l’opera non si esegua. Il problema è il tenore, che ha una parte di rara difficoltà.
Degli altri personaggi principali, Jago e Desdemona, abbiamo potuto apprezzare anche recentemente buone interpretazioni.
A questo punto è interessante leggere cosa scriveva sulla vocalità di Otello Victor Maurel, creatore del ruolo di Jago nel 1887: il baritono francese oltre a essere stato un cantante di fama straordinaria, era anche uno studioso della vocalità e del teatro.
 
“L’ideale della potenza vocale di cui il personaggio necessita è stato dato dal creatore del ruolo, Sig. Francesco Tamagno, con un’intensità stupefacente, ma ci sembra pericoloso permettere che in tutti i futuri interpreti di Otello si formi l’idea che questa straordinaria potenza vocale sia una condizione sine qua non per una buona interpretazione.
Quei tenori che hanno l’ambizione d’interpretare Otello non si lascino intimidire dai racconti, del resto reali, a proposito dello strumento unico che il creatore del ruolo possiede. Devono convincersi di questa importante osservazione: dopo dieci minuti un pubblico si è abituato a qualunque tonalità per quanto potente possa essere, ciò che lo stupisce e lo conquista sempre è l’esattezza, l’energia e la varietà degli accenti.”
 
 
È uno scritto chiaro, che ogni artista che ha in progetto d’interpretare questo ruolo dovrebbe imparare a memoria.

Recensione semiseria della Tosca a Trieste.

Ecco, ieri sera a Trieste si è avuto l’esempio lampante di come non deve essere una regia operistica, pur senza che si veda nulla di particolarmente scandaloso.
Il concetto è questo: il teatro lirico vive, fino a prova contraria, di canto e musica, e di conseguenza il regista si deve mettere al servizio dei compositore e dei cantanti.
Ora, se Giovanni Agostinucci ha un’idea distorta della storia e dei personaggi di Tosca, non dovrebbe firmare regie liriche, a prescindere dal fatto che siano costose o meno: le sue eccentricità distolgono l’attenzione dalla musica.
È questo il principio da cui si dovrebbe partire per risanare le fondazioni liriche, eliminare e allontanare gli incompetenti dai teatri e chi, con i nostri soldi, li ingaggia: sarebbe già una bella vittoria.
Nel caso di Puccini poi, il più cinematografico dei compositori, conta solo questo:

Tosca.

sulla partitura e sul libretto c’è scritto tutto, non solo le note, ma anche i sentimenti che animano i protagonisti.
Ieri sera Juan Pons, baritono spagnolo di grande prestigio e lungo corso ha cantato bene il suo Scarpia, seppur con qualche inevitabile cedimento vocale( non è più un ragazzino) ma in scena era inguardabile: una parrucca che lo faceva assomigliare a Tarzan dopo che si è cotonato i capelli era la cosa più sobria.(smile)
Il sublime Te Deum che chiude il primo atto era popolato da un sacco di personaggi inutili, sulla cui presenza mi sto ancora interrogando.
Chi erano? Cosa rappresentavano?
Poi, Daniela Dessì, che si è confermata, l’ho già scritto in occasione delle recite alla Fenice ma lo ribadisco, la più credibile Tosca del panorama operistico attuale e comunque di assoluto riferimento, è nell’opera di Puccini una “Diva”, una cantante famosa: non può essere vestita dimessamente, ma deve apparire elegante, sofisticata, desiderabile anche per la sua condizione privilegiata di artista.
Il soprano genovese (incredibilmente all’esordio a Trieste) ha stregato il pubblico con una prestazione davvero brillante: acuti sicuri (cito solo il famoso DO della lama per tutti), fraseggio curatissimo, interpretazione coinvolgente ma sobria e controllata.
Mai una frase buttata via, fornendo risalto proprio a quel canto di conversazione che è così importante nelle opere di Puccini.
Una prova da incorniciare.
Bravissimo anche il tenore Fabio Armiliato nei panni di Cavaradossi; e a proposito di panni, con quel costume poteva essere chiunque: Don Chisciotte, D’Artagnan, Alvaro, Siegfried, un fantino del Palio di Siena e pure il mio amico Luca.(strasmile)
Che senso ha?
Armiliato, nell’ambito di una prestazione maiuscola, ha cantato un “E Lucevan le stelle” eccezionale, cercando e trovando mille sfumature e colori, mentre sarebbe più comodo per lui e forse anche più appagante per il pubblico sparare acuti a nastro.
Nel bellissimo duetto d’amore del primo atto, un valore aggiunto alla eccellente prova dei due artisti lo ha dato la complicità che c’è nella vita privata: Armiliato e Dessì celebravano ieri sera la centesima rappresentazione pucciniana in coppia.
Bravi anche Alessandro Svab, il fuggiasco Angelotti, e Nicolò Ceriani, simpatico Sagrestano.
Non avrei volto essere per alcun motivo al mondo nei panni di Gianluca Bocchino, che ha cantato bene la piccola parte di Spoletta ma è stato costretto a una recitazione grottesca: ghigni, risatazze, smorfie per significare un eccesso di sadismo, di crudeltà.
Corretti Giuliano Pelizon (Sciarrone) e Damiano Locatelli ( Carceriere) e a posto come sempre il Coro preparato da Lorenzo Fratini e il coro di voci bianche istruito da Maria Susovsky.
Il Pastorello era il giovanissimo Osmer Daniel Spangher, molto bravo.
Il direttore Donato Renzetti mi ha lasciato perplesso: evidenti le scollature con il palcoscenico, sonorità spesso al limite del clangore e una visione dell’opera frammentaria, che si è materializzata in una direzione disomogenea; spesso l’orchestra (incolpevole, a mio modo di vedere) gli è scappata via.
Pubblico in visibilio (un’eccezione, visto che si trattava dei fighetti zombie della prima), con ripetute richieste di bis, purtroppo non accolte, dopo il “Vissi d’arte” di Dessì e il “E Lucevan le stelle” di Armiliato.
Fuori dal teatro i rappresentanti dei sindacati hanno distribuito un volantino, molto ben fatto, in cui s’invita a sottoscrivere questo appello unitario preparato dai lavoratori del Regio di Torino: io l’ho già firmato dopo la segnalazione di Bob e invito tutti i miei lettori a fare come me.
Una considerazione finale sull’accoglienza che ha ricevuto dalla stampa locale questa Tosca, in un momento difficile per il mio teatro.
“Il Piccolo”, tristissimo quotidiano locale, al suo peggio: dieci righe stentate e fumose di recensione, probabilmente riferite alla generale, messe giù con la sufficienza di chi deve fare un compitino.
Complimenti vivissimi, così si aiuta la causa della cultura in Italia.
 
 
 

Tosca a Trieste: qualche rapida considerazione semiseria.

Finalmente comincia a Trieste la stagione operistica 2008-2009.
L’inizio avviene in un clima avvelenato dalle polemiche a causa dei tagli governativi al FUS e non posso fare a meno di ricordarlo, poiché proprio il titolo più interessante dell’anno, la Francesca da Rimini di Zandonai, è caduto per mancanza di fondi.
Certo, la sostituzione della Francesca con un’opera popolare (e bellissima!) come Tosca contribuisce a placare momentaneamente gli animi, anche perché Daniela Dessì, (qui in una bella foto che scattai alla Tosca alla Fenice di Venezia)

Tosca alla Fenice, 30.05.08

 Fabio Armiliato (stessa serata)

Tosca alla Fenice, 30.05.08

 e Juan Pons (già scritturati per la Francesca, appunto) sono artisti che dovrebbero garantire uno spettacolo di ottimo livello.
Ma, solo per fare un esempio, questo è il terzo allestimento di Tosca negli ultimi 10 anni, mentre il lavoro di Zandonai a Trieste non era mai stato rappresentato.
Transeat, almeno per il momento.
Da qualche tempo sto ristudiando l’Otello di Giuseppe Verdi, perché dovrei (anche qui prevedo una polemica sanguinosa, nelle prossime settimane) recensire quest’opera che inaugurerà la stagione romana il 6 dicembre prossimo.
Ebbene c’è stato un momento, durante la faticosa collaborazione tra Verdi stesso e il librettista (e mai come in questo caso appare limitativo definirlo così!) Arrigo Boito in cui fu paventata la possibilità d’intitolare l’opera Jago invece di Otello: anche il lavoro di Puccini potrebbe chiamarsi Scarpia e non Tosca.
I due perfidi personaggi hanno più di qualche affinità, anche se differiscono molto dal punto di vista psicologico.
Sono entrambi baritoni per esempio; ancora, fanno leva sulla gelosia per ottenere il loro scopo e si servono di un oggetto qualsiasi per ingannare le loro vittime: un fazzoletto nel caso di Jago, un ventaglio per il corrotto barone romano Scarpia.
Sono due geni del male, due disgraziati; a fare le spese della loro cattiveria sono i buoni: Desdemona, Otello, Tosca, Cavaradossi.
Sempre dal punto di vista psicologico, è interessante notare che i personaggi forti, nelle due opere, si uccidono: Otello si pugnala, Tosca salta giù dai bastioni di Castel Sant’Angelo.
Allora, almeno per questo estremo sacrificio, è giusto che le opere siano passate alla storia della cultura e dell’Arte con i nomi di Otello e Tosca.
Anche perché Shakespeare e Sardou, dai cui lavori teatrali in prosa sono stati tratti, la pensavano alla stessa maniera.
Intanto sabato scorso si è aperta la stagione operistica a Bologna, con un lavoro di rarissima rappresentazione: “Der Vampyr” di Heinrich Marschner.
Civilmente, alla fine dello spettacolo, gli artisti del Coro di Bologna hanno manifestato il loro disagio per il criminale tentativo di additarli come unici responsabili della disastrosa situazione economica dei teatri italiani: sono comparsi al proscenio con uno striscione che diceva "Non siamo noi i vampiri…ci dipingono così".
Buona settimana a tutti, passate a vedere che si scrive nell’albergo in cui mi hanno affittato una stanza, se avete tempo e voglia.

Bianca al par di neve alpina?

Come sempre la lettura delle chiavi di ricerca che portano al mio blog è esilarante.
Intanto mi aspetto qualche denuncia da parte della casa editrice Marsilio: la mia recensione pessima del primo libro di Stieg Larsson è in cima ai motori di ricerca, tanto che non scriverò l’opinione sul secondo volume della saga dello scrittore per paura di essere gambizzato, appunto, perché dovrei esprimermi in modo ancora più negativo.
Inoltre, ci deve essere un tenore che porta a qualche audizione la romanza degli Ugonotti di Meyerbeer “Bianca al par di neve alpina”, perché compare spesso nelle statistiche.
 
 
Qualcuno poi pensa che Google sia una persona in carne e ossa e gli risponda tramite Skype, perché le sue ricerche sono domande:
dimmi quando quando quando c’è in inglese?
chi canta spirto gentil?
Poi c’è un altro che ha problemi seri, perché è arrivato qui su questo blog cercando “come puzza”.
Una persona cerca non so cosa e involontariamente lascia un meraviglioso titolo per un moderno melodramma, del quale quando ho tempo scriverò sicuramente la trama, se non addirittura il libretto.
Io lo trovo meraviglioso: Il regno delle donne parrucchiere.
Immagino poi le terribili avventure domestiche di colui che ha digitato “si taglia dentro la vasca”: speriamo che abbia trovato un tonno vivo in scatoletta e non che cerchi come far scomparire il cadavere di qualche congiunto.
E per finire uno sconosciuto/a che si becca di diritto il titolo di nuovo mostro, in quanto lascia su Google questo messaggio che non si può certo definire polisemico: mio padre è un coglione.
Mi spiace, chiunque tu sia, ma vorrei sentire anche la versione di tuo padre.
E novembre è appena cominciato eh?
Faccio contento il tenore e chiunque abbia voglia di sentire una delle prestazioni più strabilianti (e più fuori stile, ma sarebbe discorso complicato) mai sentite in teatro.
 
Buon fine settimana a tutti. (strasmile)

Avvelenata.

Io non firmo.
Il Teatro del Maggio ha la stessa dignità culturale delle altre realtà italiane.
Firmare, dal mio punto di vista, equivale ad avallare una tristissima guerra tra poveri.
Forse, dopo il Maestro Unico, ci aspetta il Teatro Unico?
Ogni teatro italiano può vantare un passato illustre, non solo la Scala o il teatro fiorentino.
Forse che il San Carlo di Napoli, solo per fare un esempio, non ha titoli in questo senso?
Che questi governanti si prendano al responsabilità morale di chiudere tutti i teatri lirici italiani, senza se e senza ma, tolleranza zero, come piace dire a questa classe politica cialtrona e incompetente, che pretende di risolvere i problemi economici tagliando i fondi alla cultura.
In ogni città italiana, sostanzialmente, c’è un teatro e una caserma dei carabinieri.
Chiudete le caserme dei carabinieri, piuttosto, tanto ora ci sono le ronde.
 

Mamma, quel vano è generoso.

Qualcuno dei miei lettori più affezionati (non ridete, giuro che ce ne sono!) si è lamentato che in questo blog si parli quasi sempre di musica lirica.

Bene, ora mi hanno affittato una camera in un posto che non a caso si chiama "Stanze all’aria", perché c’è un po’ di sana confusione.
Però, appunto, c’è aria, che io interpreto come possibilità di circolazione di idee.
Dalla mia cameretta parlerò anche di musica, come ho fatto oggi per esempio, ma in futuro ci sarà spazio anche per altro, come potete vedere qui.
Auguro a tutti una buona settimana.

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