Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: febbraio 2009

Recensione striminzita di Roméo et Juliet alla Fenice di Venezia e baricchi vari.

Circa quattro mesi fa ho prenotato il biglietto per il Roméo et Juliet di Gounod alla Fenice di Venezia, spinto dalla curiosità di ascoltare per la prima volta dal vivo il tenore Jonas Kaufmann (non ho ancora capito come si scriva, con due effe o con una?).
Mi era completamente sfuggito il fatto che la recita si svolgesse la domenica che precede il martedì grasso, altrimenti non ci sarei andato neanche se ci fosse stato Alfredo Kraus nel ruolo di Roméo.
Odio il carnevale e sull’orrida Venezia mi sono espresso più volte. A tutto questo aggiungete che sapevo della defezione di Jonas Kaufmann, ufficialmente colpito da un attacco di ernia del disco (la vox populi riferisce altro, ma la dietrologia non mi affascina molto).
Insomma, non ci sono andato volentieri.
Ancora, sono salito sul treno e nello scompartimento mi sono trovato insieme a due ragazze vestite da gattine mezze nude,
 
 
che hanno avuto l’idea geniale di fare un paio di moine a un gruppo di militari che stava salendo. Sostanzialmente la carrozza è stata invasa e occupata armi in pugno.
Uno dei ragazzotti, stranamente insensibile al fascino delle due sirene, si è seduto di fronte a me e ha indossato l’iPod. Bene, per due ore e mezza (sì perché ci voleva pure il ritardo, per migliorarmi la giornata)ha battuto il tempo della sua compilation di heavy metal con l’anfibio.
Peccato che sotto l’anfibio ci fosse il mio piede.
Tralascio, per carità di patria, il livello delle conversazioni (non sto parlando di cultura, ma di buon senso e ragionevolezza) che ho dovuto subire durante il viaggio, ma invito chiunque abbia ancora speranza nel futuro di questo paese, ad intraprendere un viaggio in compagnia di una ventina di ragazzi di età variabile tra i 19 e i 23 anni e ascoltare.
Certo, non tutti sono così, ma la media è questa ed è inutile e controproducente negarlo.
È evidente a chiunque non abbia interessi di parte da difendere che la nostra società è arrivata al punto di non ritorno e quindi, prima o poi, la famosa civiltà occidentale farà la fine dell’impero romano, implodendo miseramente. Altroché i cosacchi ecc.
Baricco peraltro, e qui potete leggere il suo pensiero, fa un discorso abbastanza serio ma poi sbaglia clamorosamente la conclusione: non dobbiamo decretare definitivamente che la televisione è la realtà, ma spostare il Paese dalla televisione.
Ricordo che Baricco deve le sue fortune alla televisione, perché prima della trasmissione “L’amore è un dardo” lo conoscevano in quindici persone, di cui sette erano parenti.
Bene, sto divagando più inutilmente del solito.
Il regista Damiano Michieletto firmava questo allestimento, in coproduzione col Verdi di Trieste, e ha fatto un buon lavoro, dal mio punto di vista. Michieletto ha sicuramente visto questo film e anche quest’altro e pure questo. Conosce Marilyn Manson e Andy Warhol, inoltre, e sa che oggi, ovunque, i ragazzi si muovono in branco.
Quindi i Capuleti e i Montecchi sono due bande rivali,

Morte Tybalt

 
 
con tutto ciò che ne può conseguire: risse, bulli vari (ahia, strasmile), territori marcati con il graf(f)iti writing (oggi sono in difficoltà con le effe, non se ne esce)
Tutta l’opera si svolge su di un enorme giradischi a testina (lo so che può sembrare allucinante, ma in teatro l’effetto era bello).

Finale

 
Il regista non ha tradito o frainteso lo spirito dell’opera, anche se in alcuni momenti le discrepanze con il libretto erano stridenti.
Roméo era impersonato dal tenore Eric Cutler che si è disimpegnato egregiamente, seppure gli acuti in qualche occasione non siano sembrati perfettamente a fuoco, come fossero un po’ schiacciati.
Molto buona e ricca di intenzioni interpretative la celeberrima Ah! Lève toi soleil!
Nino Machaidze,

Valzer Machaidze

 
 
attesissima dopo la prova nei Puritani a Bologna, è partita davvero male (ma male male) nel valzer iniziale Je veux vivre. Controllo dei fiati pessimo, forse dovuto all’emozione, non so.
Il soprano però si è ripresa molto bene e alla fine è parsa un’eroina credibile (in alcuni punti mi sono pure commosso…nel duetto che chiude il secondo atto, per esempio).
Bravo il baritono Marcus Werba, Mercutio, che supera bene la prova dell’aria iniziale della Regina Mab e appare incisivo e presente anche nel fraseggio, oltre che dotato di ottima disinvoltura scenica.
Il migliore della serata è risultato Giorgio Giuseppini, nella parte fondamentale di Frère Laurent. Voce non enorme, ma proiettata bene e interpretazione di ottimo gusto.
Ha cantato male, invece, Ketevan Kemoklidze (Stéphano). Il mezzosoprano, anche lei alle prese con una gestione dei fiati almeno problematica, ha palesato pure seri problemi d’intonazione.
Restando tra i mezzi, non bene neanche la Gertrude di Anne Salvan, quasi afona.
Buono il tenore Juan Francisco Gatell quale Tybalt, così così Nicolò Ceriani (l’ho sentito molto più in palla, anche recentemente) nei panni di Pâris e Luca Dell’Amico in quelli di Capulet.
Meritano almeno la menzione Antonio Feltracco (Benvolio), Matteo Ferrara (Gregorio) e Michele Bianchini (insomma, non straordinario il suo Duc de Vérone).
Il direttore Carlo Montanaro si è limitato a portare a termine l’opera, dirigendo in modo molto uniforme, però almeno non ha pigiato troppo sul volume di un’orchestra molto buona.
 

Cast completo

C’è da considerare che dopo le bordate di mano de pedra Kovatchev nella Norma triestina sono pronto a tutto.
Ottimo il Coro.
Pubblico molto contento, teatro completamente esaurito.
In palco con me una gentile coppia di coniugi tedeschi, affascinati dal teatro alla Fenice che vedevano per la prima volta. Hanno cercato, inutilmente, di convincermi che Kauffman sia il più grande Cavaradossi di sempre, ma forse ho capito male io, perché parlavamo in un inglese grottesco (strasmile).
Ritorno a casa fantozziano, a dire poco.
Ho perso il treno, ho litigato per cambiare il biglietto, sono salito su un carro bestiame e mi sono lasciato così alle spalle, senza alcun rimpianto, una Venezia più orrida del solito.
Vabbè, c’è di peggio nella vita, direi.
Alla prossima e ciao a tutti.
 
P.S.
Mi scuso con tutti per la mia perdurante latitanza nei vostri blog. Credetemi sulla parola, ho giustificazioni serie, anzi semiserie (smile).
Pubblicità

Recensione semiseria di Norma a Trieste: a Carnevale ogni scherzo vale?

Poi, ovviamente, su Operaclick la recensione "seria" (non questa eh?) è tradotta in inglese da Giorgia, che ringrazio ancora.

Nella migliore tradizione carnascialesca, venerdì sera a Trieste ho visto un’opera mascherata.

 
 
Il direttore (mascherato) Julian Kovatchev, infatti, ha pensato bene di rallegrare il pubblico triestino con una variante inedita della Norma di Bellini, travestendola con la versione bandistica di un’opera degli anni di galera verdiani.
 

Partitura Norma Trieste

L’operazione, molto ardita, è riuscita magnificamente, bisogna dirlo.
Mano de pedra Julian Kovatchev non ha trascurato nulla. La Sinfonia iniziale è risultata cromaticamente varia come un completo nero di Gasparri, seppur meno volgare. La chiusura dei concertati lieve come un’impepata di cozze servita al posto del dessert dopo un pranzo a base di trippa e peperonata. L’accompagnamento ai cantanti soave ed etereo, tutto giocato sulle sfumature e i sottintesi, come una telefonata a una hot-line con sede alle Isole Fiji. (credo di aver reso l’idea, strasmile)
Ovviamente, per farsi sentire, i cantanti sono stati costretti a sgolarsi, seguiti loro malgrado dagli artisti del Coro. Il tutto, come si può facilmente immaginare, ha creato un ambiente particolarmente favorevole alla musica di Bellini.
Detto questo, passiamo alle cose semiserie.
June Anderson, soprano di grandissima caratura tecnica e meritata fama internazionale, impersonava Norma.
Che dire?
L’inizio è stato scoraggiante, perché sia il recitativo Sediziose voci sia l’aria Casta diva non sono risultati all’altezza della fama dell’artista: per accento e per intonazione. Peraltro durante tutta l’opera, negli attacchi, la voce della Anderson ha sofferto di una specie di effetto sirena, che è andato affievolendosi nel corso della recita.
Il soprano però se l’è cavata bene negli acuti, che sono sempre sicuri, e soprattutto ha una reale affinità col Belcanto che si evidenzia nella capacità di legare benissimo le melodie lunghe lunghe di Bellini, un controllo dei fiati ammirevole, buonissima musicalità e fraseggio curato.
Spesso questa cantante è stata definita noiosa, ma mi sembra davvero una definizione ingenerosa. Piuttosto direi che il suo modo di porgere è più adatto ai momenti più malinconici e lirici della partitura, mancando un po’ di quella grinta interpretativa che ci vorrebbe nei passi più drammatici: I Romani a cento a cento fian mietuti fian distrutti oppure In mia man alfin tu sei, solo per fare due esempi.
Tenete presente che aveva sotto mano de pedra, quindi anche lei, poverina, sarà rimasta agghiacciata da tanto furore.
Nel complesso la sua prova è stata positiva.
Il povero Brandon Jovanovich, giovane tenore americano, convinto dal direttore che a carnevale ogni scherzo vale, ha pensato di cantare Pollione come fosse il Turiddu della Cavalleria Rusticana, agevolato dal fisico e dal portamento nobile di un cowboy a caccia di donne in un saloon di Yuma (il treno lo faceva Kovatchev, smile).
E dire che la voce, scura e sonora, avrebbe potuto essere accettabile per rendere in maniera meno greve il proconsole romano che scopa tutto quello che si muove. Invece, costretto dalla scarsa tecnica e dall’uragano di suono a forzare, ha cannato di brutto il si bemolle della cabaletta, esalando un urlaccio lacerante.
Ma la stecca si potrebbe perdonare, hanno steccato tutti i più grandi tenori, poteva farlo anche lui. Il problema è che il suo canto è mancato completamente di nobiltà e gusto, palesando inoltre pronuncia tipicamente yankee (circostanza grave, perché sposta il ritmo della melodia, che s’inceppa e arranca) e canto sbracato. Dopo la bastonata iniziale, si è deciso a più miti consigli, ma con la vocalità di Bellini, almeno al momento, non ha nulla a che vedere.
Ha dalla sua la giovane età, può fare molto meglio, applicandosi nello studio e lasciando da parte il Belcanto.
Il mezzosoprano Laura Polverelli è stata, complessivamente, l’artista più in palla della serata, anche se pure lei è stata costretta ad alzare il volume inopinatamente (sempre a causa del direttore).
Adalgisa è personaggio difficile, contrastato, al pari di Norma della quale come ho scritto nei post precedenti è quasi il contraltare psicologico. Anche lei, per amore, tradisce il suo credo e inconsapevolmente pugnala Norma. La Polverelli ha reso bene l’aspetto ingenuo del suo personaggio, caratterizzandolo con una recitazione sobria e controllata.
Giacomo Prestia era Oroveso, e ovviamente ha cercato di connotare di autorevolezza il Capo dei Druidi, riuscendoci attraverso la scorciatoia di un’interpretazione sbilanciata sul canto tutto forte, che non è esattamente ciò che voleva Bellini. La sua prova è stata comunque discreta, la voce è sonora anche se un po’anonima.
Il tenore Antonello Ceron (Flavio) e il mezzosoprano Sara Zaramella (Clotilde) sono parsi sufficienti, ma nulla di più.
Ho sentito, per la prima volta da lunghi anni, il Coro in difficoltà, costretto a sgolarsi e incerto negli attacchi: la responsabilità è, a mio parere, ancora una volta del direttore, perché la compagine triestina è sempre stata il fiore all’occhiello del teatro Verdi.
La stessa considerazione vale per l’orchestra, mal diretta e obbligata a fragori eccessivi.
L’allestimento di Federico Tiezzi è a mio parere molto bello e godibile, colto e di ottimo gusto.
Il regista ha una visione dell’opera unitaria e ispirazione originale. L’idea di considerare parimenti terribili la guerra di sentimenti e la guerra tra Romani e Galli è ben realizzata dalle magnifiche scenografie di Pier Paolo Bisleri e dalle luci straordinarie di Gianni Pollini. I costumi di Giovanna Buzzi, invece, seppur funzionali allo spettacolo, sono un po’pacchiani (i guerrieri con una specie di carapace…mah…non so…sembravano tartarughe ninja sfigate)
Un discorso a parte merita la parte squisitamente visiva e cioè i sipari ricavati dai bozzetti originali di Mario Schifano.
La quercia, coloratissima, sembra quasi preludere, anticipare gli stati d’animo dei protagonisti nel susseguirsi della vicenda. Di grande impatto emotivo l’ultima scena, con il sipario che s’illumina di giallo e rosso a simbolo del rogo.
Oggi mi tocca l’orrida Venezia, dove alla Fenice vedrò il Romeo et Juliet di Gounod. (non si giudica uno spettacolo da una foto, certo che però è davvero Carnevale eh?)
Ho acquistato il biglietto quattro mesi fa, quando non sapevo della rinuncia del tenore Jonas Kauffman e, soprattutto, non avevo idea che fosse l’ultima domenica di Carnevale.
Venezia deve essere davvero bella piena di gente ubriaca e travestita, sì sì, il fascino della città lagunare si accresce di molto, così.
Speriamo almeno cantino bene (gli artisti, non le maschere), già sono abbastanza inferocito, poi mi tocca scrivere un’altra recensione semiseria incazzata. (smile)
 
 

Norma a Trieste: ultime considerazioni, domani la prima.

Dicevo, nei post precedenti, che al debutto alla Scala nel dicembre del 1831 la Norma di Bellini fu un fiasco.
In realtà, come giustamente sottolineava non ricordo dove Lorenzo Arruga, avercene di fiaschi così beneauguranti! Norma è una di quelle opere che non sono mai uscite dal repertorio [anche se qualche volta sarebbe stato meglio (smile)].
Il pubblico dell’epoca si stranì anche perché, in qualche modo, Bellini risultava destabilizzante rispetto ai gusti dell’epoca: mancavano alcuni capisaldi come il finale concertato del primo atto (Rossini docet) e latitava una bella scena della pazzia, che faceva sempre audience.
La verità è che Norma è opera di cantanti se ne esiste una e alla prima i grandi artisti in scena non erano in serata. Succede.                    
Leggete Bellini, a proposito del suo approccio alla composizione e al canto in generale.
 
“Studio attentamente il carattere dei personaggi, le passioni che vi predominano e i sentimenti che esprimono…omissis…Chiuso quindi nella mia stanza, comincio a declamare la parte del personaggio con tutto il calore della passione e osservo intanto le inflessioni della mia voce, l’affrettamento e il languore della pronunzia in questa circostanza, l’accento insomma e il tono dell’espressione che dà la natura all’uomo in balia delle passioni, e vi trovo i motivi e i tempi musicali adatti a dimostrarle e trasfonderle in altrui per mezzo dell’armonia.”
 
In questo senso, Norma è un lavoro davvero straordinario. Ogni personaggio, nel dipanarsi della trama tra pubblico e privato, ha la sua cifra interpretativa che lo rende riconoscibile, ma c’è una tensione corale comune che rende l’opera omogenea, concava, avvolgente.
Trovo che Norma sia una donna vera, piena di contraddizioni e slanci di orgoglio, un essere umano e non stilizzato e asettico, freddo. Tradita dal padre dei suoi figli, sacerdotessa scandalosa, lei che si sarebbe dovuta mantenere vergine, a sua volta traditrice della fede e ancora, in qualche modo, costretta dalle circostanze a rivivere i suoi errori (?) nelle vicende di Adalgisa, in un gioco di specchi che riflettono contemporaneamente futuro e passato.
Al suo popolo dice, al momento dell’estremo sacrificio sul rogo: Norma non mente. Nel bene e nel male, rimane un leader che esprime autorevolezza.
Insomma Bellini e il suo librettista, Felice Romani, compiono una specie di miracolo di equilibrio psicologico, traendo ulteriore ispirazione da un dramma teatrale che pochi mesi prima aveva furoreggiato a Parigi, Norma ou l’infanticide di Alexandre Soumet (senza dimenticare l’influenza della Vestale, di Medea, di Les Martyrs).
Ieri pomeriggio a Trieste si è tenuta la prolusione all’opera, e il relatore ha fatto ascoltare alcuni brani di Norma cantati da Gina Cigna, grandissimo soprano, in una registrazione storica, mi pare del 1936, ma non ho voglia di controllare.
Mai come in questo caso l’opinione del sulfureo critico Elvio Giudici giunge opportuna: per quanto grande sia stata la Cigna, la sua Norma ci fa apprezzare l’importanza della rivoluzione copernicana di Maria Callas in questo repertorio.
Callas che nel 1953 cantò Norma (assieme a Franco Corelli, Elena Nicolai e Boris Christoff, diretti da Antonino Votto) a Trieste.
Argh…altri tempi…ci provò pure la Katia (Ricciarelli) nazionale nel 1986 (mi pare) e il giorno dopo Trieste fu inondata di manifestini listati a lutto che annunciavano la definitiva morte di Norma.
Ecco, pensate un po’ che recensione semiseria ne sarebbe uscita! (strasmile)
Un’ultima curiosità sull’allestimento, che io ho già visto a Bologna (qui la recensione semiseria di quella serata, per molti versi memorabile), di Federico Tiezzi.
Per il regista questa Norma è stata il punto di partenza. Infatti, nel 1991 lo spettacolo avrebbe dovuto debuttare al Petruzzelli di Bari, che però s’incendiò e tutto il lavoro andò distrutto.
Qui sotto, la quercia, simbolo sul quale non mi sono soffermato per mancanza di tempo, contrariamente alla luna che è stata un po’ indagata.
Ci tornerò in sede di recensione, anche perchè un accenno a Mario Schifano dovrò pur farlo!

Sipario

Domani, con le opportune modifiche sarà riproposto anche al Verdi di Trieste.

Presentazione semiseria di Norma a Trieste: la luna.

Da un particolare punto di vista, uno dei personaggi principali della Norma di Bellini entra in scena quasi di soppiatto.
Lo fa attraverso le parole iniziali di Oroveso, capo dei Druidi e padre di Norma stessa:
 
Ite sul colle, o Druidi,
ite a spiar ne’ cieli, quando il suo disco argenteo
la nuova luna sveli.
 
La luna è evocata, e con la Casta Diva si manifesta il carattere notturno, malinconico, dell’opera.
Lo scrivo chiaro, perché molto spesso mi rendo conto che i neofiti conoscono e apprezzano, in qualche modo, la romanza e non sanno che è dedicata alla luna.
Qui sotto un’interpretazione straordinaria, comunque la mia preferita, senza nulla togliere ad altre grandi cantanti.
Montserrat Caballé:
 
Casta Diva che inargenti
queste sacre antiche piante
a noi volgi il bel sembiante
senza nube e senza vel.
Tempra, o Diva,
tempra tu de’ cori ardenti
tempra ancor lo zelo audace
spargi in terra quella pace
che regnar tu fai nel ciel.
 
Allo stesso tempo, si percepisce che con Norma il compositore siciliano guarda avanti, a un romanticismo ancora da venire.
L’atmosfera che prelude al rito, alla celebrazione fantastica, all’apparizione inquietante, sono tratti tipici del Romanticismo.
Non si dice, forse, essere lunatici, intendendo una disposizione incoerente nel comportamento? Quasi una piccola follia, una specie di patente di stranezza caratteriale.
Norma è una sacerdotessa, una veggente, che interpretando i segni della Natura predice il futuro e dispone la strategia del suo popolo.
Il personaggio di Norma ha le sue origini nella tragedia greca, in quella Medea di Euripide che uccide i figli per vendicarsi di Giasone che la tradisce senza pensarci troppo.
Norma di Bellini debuttò il 26 dicembre 1831, alla Scala di Milano.
Tale Giacomo Leopardi scriveva, proprio qualche semestre prima:
 
Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
silenziosa luna?
 
A ulteriore dimostrazione che c’è questa sinergia, spesso inconsapevole, tra i grandi artisti, a prescindere dalla modalità in cui si esprimono.
La prima fu una specie di disastro, più che altro perché i cantanti non erano in gran serata.
E dire che rispondevano ai nomi di Giuditta Pasta (Norma), Giulia Grisi (Adalgisa) e Domenico Donzelli (Pollione).
A Trieste canteranno June Anderson, Laura Polverelli e il quasi debuttante Brandon Jovanovich.
I più esperti noteranno che nella formazione originaria, diciamo così, ci sono due soprano e un tenore.
Oggi, e a Trieste non si farà eccezione, il ruolo di Adalgisa si affida quasi sempre a un mezzosoprano.
Vedremo in sede di recensione semiseria.
Tornando alla luna, ritroviamo l’astro molto spesso presente nell’opera lirica.
Mi limito a un paio di citazioni.
Lucia di Lammermoor (1835) di Gaetano Donizetti, Regnava nel silenzio:
 
Regnava nel silenzio
alta la notte e bruna…
colpia la fonte un pallido
raggio di tetra luna…
 
Nel Trovatore di Giuseppe Verdi (siamo nel 1853) c’è un’aria di bellezza…lunare, e cioè Tacea la notte placida:
 
Tacea   la notte placida
e bella in ciel sereno
la luna il viso argenteo
mostrava lieto e pieno…
 
Potrei continuare a lungo, spaziando da Boito a Strauss, da Puccini a Dvorák sino a…Blue Moon, di cui ricordo l’effetto grottesco nella scena più divertente di uno dei miei film cult, Un lupo mannaro americano a Londra, prodotto dalla Lycantropefilm.  ( chi è facilmente impressionabile non clicchi, ché poi io già lo so che ve la prendete con me!)
Ma direi che sto divagando un po’ troppo.
Soprattutto, sarebbe già una cosa non sentire un soprano che ulula Casta Diva!
Buona settimana a tutti. (strasmile)
 
 
 
 
 

È qui la festa? Ovvero recensione semiseria di un particolare San Valentino.

Qui, su Rotocalco, un mio intervento insensato sul libro Auto da fé di Elias Canetti.
Buon fine settimana a tutti.

Normalmente San Valentino è una festa da carie fulminea o da diabete, fate voi.

C’è un giovin signore, però, che quest’anno vivrà questa baracconata di regime in modo più lieto del solito.
Nell’immaginario collettivo la musica lirica è considerata, piaccia o meno poco importa, una disciplina artistica riservata a pochi intenditori, perlopiù giurassici e seriosi.
Noi melomani, invece, viviamo la nostra passione con gioia e voglia di divertirci, al pari di chi segue il calcio, tanto per fare un esempio d’intrattenimento popolare.
Ci accapigliamo per dimostrare la presunta superiorità dei nostri beniamini, gioiamo quando un artista canta bene, ci disperiamo se ascoltiamo un’opera mal eseguita, insomma viviamo con entusiasmo la nostra passione.
E proprio con questo spirito barricadero, ruspante, ma che non prescinde da una seria preparazione tecnica e da una profonda conoscenza dell’argomento, Davide Steccanella ha scritto questo libro, Montserrat Caballé. Ultimo soprano assoluto.
Un lavoro che non è né una biografia né tantomeno un’agiografia della straordinaria cantante catalana, ma, molto semplicemente, un atto d’amore nei suoi confronti.
Steccanella ripercorre la carriera di Montserrat Caballé dall’esordio a Basilea nel 1956 con la Bohéme sino alle trionfali apparizioni del 2007 a Vienna, nella Fille du Régiment, accanto a due acclamati divi odierni come Natalie Dessay e Juan Diego Flórez.
Cinquant’anni di carriera artistica documentati da una ricchissima cronologia, dalla discografia ufficiale e pirata, spezzoni d’interviste, molte foto (bellissime) e ricordi personali.
Immagino non sia stato facile raccogliere e catalogare tutto il materiale, soprattutto vista l’ipercinesi (si fa per dire, vista la stazza, strasmile) del soggetto e la sua bulimia interpretativa.
Il libro offre molti spunti di riflessione, ad esempio quando leggiamo che il debutto italiano del soprano fu rimandato, pensate un po’, perché l’opera di Manuel De Falla, La Vida Breve, in programma a Firenze, cadde sotto la scure dei tagli alla cultura e fu cancellata dal cartellone.
Sorprende anche che Montserrat Caballé, ritenuta non certo a torto somma belcantista, consideri Richard Strauss il suo compositore preferito.
Si apprezza pure il coraggio della cantante, che rischiando di persona sull’esempio di Maria Callas fu artefice della riscoperta di molte opere cadute nell’oblio.
Molto interessanti e curate anche le schede monografiche per autore e stile, in cui si approfondiscono le ragioni dell’approccio interpretativo della Superba ai vari compositori. Leggendo ci si rende conto di come l’artista abbia sostanzialmente cantato tutto il possibile, e proprio in questa sezione Davide Steccanella, seppur riottosamente, ammette in tono sfumato che qualche passo falso c’è stato. Non è poco per chi, tra i tanti indiscutibili pregi della Caballé, indica la dizione perfetta! Cioé Davide, la Montsy s’inventava di sana pianta i testi, qualche volta, siamo seri!
La fatica dell’avvocato melomane si chiude con una trovata ad effetto, di quelle che fanno ribaltare il processo a proprio favore, come nella migliore tradizione della popolarissima serie Perry Mason.
Nella suite di un albergo parigino si ritrovano Montserrat Caballé, Joan Sutherland e una vitalissima Maria Callas! La Superba, La Stupenda e La Divina si scambiano confidenze e fanno il bilancio della loro carriera: quale appassionato non vorrebbe essere presente a una simile riunione?
Il libro è molto ben riuscito, la scrittura non è appesantita dall’abuso di tecnicismi e scorre facilmente; unico difetto qualche refuso di troppo, ma anche in questo caso mi sento di poter reclamare per l’Autore la presunzione d’innocenza.
Intanto proclamo Davide e Montserrat coppia di fatto dell’anno, che è pur sempre un buon risultato.
A Davide anche il titolo di nuovo mostro, ambitissimo pure questo.(strasmile)
 

Presentazione semiseria di Norma a Trieste: la trama.

Ogni volta che m’appresto a scrivere di qualche opera, vorrei cominciare dicendo che sto per parlare di un capolavoro assoluto. Non può essere così, evidentemente, non sarei più credibile.
Il problema di noi melomani è che il nostro mondo ci appare bellissimo, spesso il migliore possibile.
Anch’io devo fare scelte però, e allora, tra la Norma di Bellini che vedrò a Trieste venerdì 20 e Romeo et Juliet di Gounod nell’orrida Venezia della domenica successiva, opto per una presentazione semiseria a puntate della prima, lasciando a Gounod solo la recensione (sempre semiseria eh?) dello spettacolo alla Fenice.
Insomma, mi viene di approfondire di più la creatura belliniana e lo farò con una serie di post consecutivi, uno più sciroccato dell’altro.
Magari m’inventerò qualcosa di diverso per San Valentino, perché so che ci tenete a quella festa idiota, messa su per far stare peggio chi già soffre perché è solo come un cane o maledice l’ora che si è sposato/a oppure fidanzato/a.
Mi intriga la trama, prima di tutto.
I Romani decidono che è indispensabile parlare ovunque dicendo ‘namo famo se vedimio se sentimio ma che stai a di’ che stai a fa’ ecc ecc e quindi invadono la Gallia, per cui dopo un po’ si sente in ogni angolo berciare come in televisione ai giorni nostri.
C’è ‘sta donna mezza santa mezza capopolo e tutta furore, Norma (sembra che girasse con una T-shirt con la scritta “Rispettate la…” sulla schiena e poi mostrasse le tette urlando il suo nome, ti credo che poi si mette nei casini), che s’innamora di un boro romano imperialista, Pollione, uno tipo er carota, per dire. Una variante porno della Sindrome di Stoc…colma, insomma.
Questo gira con la patta aperta e la spada sempre sguainata, un bullo [argh…(strasmile)] della peggior specie, un ingravidator che ragiona con la parte meno nobile del corpo, e non sto parlando del culo. Fa un paio di figli con la sacerdotessa e poi insidia una dolce e giovane sfigata, Adalgisa, sillabandole con grazia mo’ te sdereno. La ragazzina già non stava bene di suo perché si era promessa sposa al dio Irminsul, una divinità col nome di un farmaco antidiabetico.
Poi c’è Oroveso, papà di Norma, un vecchio che si chiama come un biscotto per bambini, e quindi conta come Casini negli equilibri politici internazionali.
Insomma Adalgisa ha l’ideona di confidare a Norma che si è innamorata di uno degli invasori, un romano de Roma vero.
Alla sacerdotessa già girano le palle, perché anche lei ha fatto la stessa cazzata, e in quel momento mentre le due ragazze si confidano, entra er surfista de noantri, Pollione. (grazie margie, mia continua e inesauribile fonte d’ispirazione)
Adalgisa tutta contenta lo indica col dito dicendo Eccolo lì, è lui è lui perciò Norma inferocita come una biscia la manda via e chiede spiegazione al paraculo, che a onor del vero non tenta neanche di smentire dicendo Quella è suonata, ma quando mai? e ammette di scopare tutto quello che si muove.
Qui potrebbe finire l’opera, basterebbe che Norma si ricordasse di Lorena Bobbit, invece si va avanti con la classica baracconata di regime: la sacerdotessa prima minaccia di uccidere i figli, ma poi si ricorda che i figli so’piezz’e core, Pollione dice che ha sbagliato a cornificarla e tutti contenti si fanno bruciare sul rogo, mentre i ragazzini, poveri, dovranno fare da badanti al nonno biscotto.
Ovviamente Pollione è la classica testa di tenore (c’è un’aneddotica infinita sulle stronzate che fanno i tenori), Norma è un soprano drammatico d’agilità, una figura retorica più che una cantante, e Oroveso è un basso.
I bassi nell’opera hanno questi ruoli così, o sono cattivi o sono rincoglioniti, non c’è niente da fare, sempre personaggi monolitici.
Poi c’è Flavio, un laziale evidentemente, perché ha una particina piccola ma può fare figuracce tremende e perciò tenore pure lui, e Clotilde una donna inutile che non ha trovato la sua vocalità d’elezione, mezzosoprano.
Anche loro contano un casino nella storia, sempre sulle orme di Casini, ma sono meno presenzialisti.
Il Coro invece è importante, perché spesso interviene cantando chi non salta Pollione è chi non salta ecc.
Il prossimo post sarà più serio, forse, ma anche no, intanto buon proseguimento di settimana a tutti ok, io vado a sentire Franco Corelli, l’unico tenore di cui avrei potuto innamorarmi davvero, nonostante pare che io sia etero.

Io non sono che un critico, dice il mio gemello Jago.

UPDATE: LA REDAZIONE DI SPLINDER, INCURANTE DEL PERICOLO E DELLO SCHERNO, MI HA PURE INTERVISTATO. SONO TEMPI DURI, ME NE RENDO CONTO! (SMILE). NON È UNO SCHERZO DI CARNEVALE DI PESSIMO GUSTO, CLICCATE E NE AVRETE CONTEZZA…

Beh, insomma, apprendo da Bloggando che se come chiave di ricerca s’inserisce recensione puritani bologna si arriva da queste parti:  visite 359 http://amfortas.splinder.com
A maggior ragione allora, il post appena pubblicato cade a fagiolo!

Io qui spesso mi diletto a scrivere di musica lirica, recensendo spettacoli e saltuariamente dischi, insomma mi arrogo un po’ il mestiere del critico.

 
 
Ogni tanto m’arriva la mail di qualcuno che s’arrabbia, più per il tono leggero dei miei interventi che per i pareri negativi che do degli Artisti (insomma, diciamo fifty-fifty, smile).
Beh, come ho già detto la scelta di uno stile non troppo paludato è consapevole, e strettamente dettata dal mio desiderio di divulgazione di una forma d’Arte che fa parte della mia vita e che vorrei più conosciuta e diffusa. A me preme che chi legge possa interessarsi all’argomento, ovvero quello che scrivo faccia accendere la scintilla della curiosità almeno, se non della passione; non mi sembra poi di esibirmi in esternazioni eccessivamente tranchant. Quando ritengo di dare un giudizio severo, cerco sempre di motivarlo in maniera dettagliata.
Poi, come spesso nella vita, è questione di opinioni, e si sa, le opinioni sono come le palle, ognuno ha le sue (Clint Eastwood).
Vi faccio un paio d’esempi di opinioni d’illustri personaggi, riferite ad opere o cantanti, che potranno far capire che io sono in buonafede, e che come tutti posso prendere pure qualche cantonata, anche se ahimé non credo che passerò alla Storia eh?
 
Prima però, un breve scritto di Berlioz  [mica pizza e fichi (smile)] sul mestiere di critico.
 
 
"Tale è la mia avversione per ogni lavoro di questa natura. Non riesco a sentire l’annuncio di una prima rappresentazione in uno dei nostri teatri lirici senza provare un malessere che aumenta progressivamente fino al momento in cui il mio articolo non è stato portato a compimento (…) a quali miserabili riguardi sono costretto! Quante circonlocuzioni per evitare di dire la verità! Quante concessioni fatte alle relazioni sociali ed anche all’opinione pubblica! Quanta rabbia trattenuta, quanta vergogna ingoiata! E si ha ancora il coraggio di trovarmi iroso, cattivo, sprezzante! Eh, ignoranti che mi trattate a questo modo, se io dicessi il mio pensiero fino in fondo, vi accorgereste che il letto d’ortiche sul quale credete di essere stati da me distesi non è che un letto di rose a paragone della griglia sulla quale v’arrostirei!"
 
Ora, una previsione un po’ avventata comparsa su La Stampa di Torino il 23 febbraio 1896, firmata da Carlo Bersezio:
 
"La Bohème, credo, come non lascia grande impressione nell’animo degli uditori, non lascerà gran traccia nella storia del nostro teatro lirico, e sarà bene se l’autore, considerandola (mi si permetta l’espressione) l’errore di un momento, proseguirà gagliardamente per la strada buona, e si persuaderà che questo è stato un breve sviamento nel cammino dell’arte".
 
Poi ecco Luigi Torchi, Rivista Musicale Italiana, 1900
 
"Le speranze di salutare nella Tosca un’opera grandemente riuscita erano generali e molto fondate. Si diceva da tutti: "Tosca è un bel soggetto, Puccini è un musicista di talento. Or bene lo credo che Tosca non è un’enormità, appunto perché il talento del compositore modesto."
 
I talentuosi compositori, nel giudicare i colleghi, non si sono comportati in modo molto differente delle nevrasteniche star hollywoodiane.
Rossini disse che la musica di Weber “gli fa venire la colica”, Berlioz stesso affermò che la musica di Rossini “è la musica di un uomo disonesto”; Chopin fu definito “mondana nevrotica, Debussy a proposito di Schubert esclamò che era “un musicista per zitelle”.
Ci sono poi un paio di capolavori di buongusto, uno nei confronti di Arturo Toscanini, da parte di Filippo Tommaso Martinetti.
 
“Paragono i direttori d’orchestra come Toscanini a delle vulve di prostitute che si adattano ai diversi geni musicali…”
 
Finissima anche la lettera che un gruppo di frequentatori della Scala di Milano, che si firmarono ad onor del vero, recapitò a Maria Callas:
 
“Lei, gentile signora, naturalmente è una cagna urlante che disonora il campo lirico in pieno, anche se è un bel pezzo di donna, dalla brutta mania di dimagrire, per far la padrona su uno degli “ex” più importanti teatri del mondo (ora purtroppo non più invidiatoci). Quando la smetterà di guaire e abbaiare e frizzare? Speriamo noi tutti prestissimo. Canti al varietà.”
 
Ora, chi mastica un po’ di Lirica sa che il tempo ha consacrato Maria Callas come la massima interprete della “Norma” di Vincenzo Bellini (anche qui, non tutti, altri dicono Caballé, altri ancora Sutherland). Ebbene, qualcuno non ne era così sicuro, a suo tempo.
 
Ecco le opinioni di Dal Fabbro (1952) e Pannain (1953):
 
“In ogni modo, la Callas è cantante troppo diseguale nei vari registri, troppo imprecisa nel fraseggio, troppo impulsiva nel ritmo per tentare con fortuna la parte della tragica druidessa.”
 
“Norma richiede forza e purezza di voce, la voce di Maria Callas possiede forza e non purezza. L’interpretazione della medesima parte richiede arte di canto e intensità espressiva. Maria Callas possiede una e non l’altra. Ciò sta a significare che la Norma non è fatta per lei.”
 
Straordinario fu Rodolfo Celletti , peraltro da me apprezzatissimo in molti dei suoi giudizi sui cantanti, leggete un po’ qui:
 
“Carreras ha una voce bellissima di timbro e di smalto e, per natura, calda, morbida ed estesa (pag 923 Il teatro d’opera in disco)”
 
“Non so con quale coraggio si possa affermare che il timbro di Carreras è affascinante. Anche nei centri la voce manca di rotondità, di pastosità, di morbidezza, di nobiltà. [pag 920 della stessa pubblicazione, (strasmile)]”
 
Quando sento un cantante mi dà parecchio fastidio il vibrato stretto, ecco l’opinione sull’argomento vibrato di Celletti:
 
"Giuseppe Morino è l’unico tenore di grazia degli ultimi anni (…) per quel suo vibrato stretto tipico dei grandi tenori di grazia ottocenteschi…"
 
Ma poi:
 
"La Barbara Bonney ha quello che si chiama vibrato stretto. Il vibrato stretto a volte evoca il belato, a volte il nitrito: Qui siamo, seppure alla lontana, al nitrito."
 
Quindi, nell’augurare uno splendido fine settimana a tutti, auspico di non ricevere più lettere di protesta da parte di nessuno (ultrasmile).
Soprattutto, proclamo il critico musicale nuovo mostro per eccellenza!
 
P.S.
Ho scritto qualcosa anche per Stanze all’aria, magari se e quando avete tempo, dateci un’occhiata! (mica solo a me, anche agli altri compagni d’albergo, mi raccomando!)

Recensione semiseria di Les Contes d’Hoffmann a Torino e Lucia di Lammermoor a Firenze.

Dunque, dopo una tre giorni operistica piuttosto faticosa, forse è il caso di fare un piccolo bilancio, partendo da considerazioni che con la lirica non c’entrano nulla.
A Torino ho trovato un addetto alla reception dell’albergo che era di una gentilezza imbarazzante, però parlava con la stessa voce priva d’espressione di HAL9000, il computer impazzito di 2001: Odissea nello spazio. Il ragazzo era estremamente analitico e rispondeva con dovizia di particolari a qualsiasi domanda, anche quelle che richiederebbero risposte immediate.
“Scusi, dov’è la sala della prima colazione?”
Risposta.
“Una robusta e sana colazione al mattino è fortemente consigliata da tutti i nutrizionisti. Recenti studi sui bioritmi hanno dimostrato che l’uomo necessita di una quantità di zuccheri…ecc…ecc…”
Tutto questo con il tono, appunto, di una segreteria telefonica pedante.
Cioè, ho fame, se mi fai un seminario sulla storia dell’alimentazione mi acculturo, ma muoio di stenti e non mi servirà a nulla.
No, perché voglio dire, metti che chieda scusi dov’è la toilette, non è che puoi farla tanto lunga no? Vuol dire che da solo non la trovo e ne ho bisogno urgente, altrimenti non farei domande imbarazzanti.
Bene, e questa è una e il titolo di nuovo mostro non glielo leva nessuno!
Poi, annuncio a tutti che io e ex-Ripley abbiamo raggiunto i 297 Km/h, o meglio a quella velocità andava il treno tra Novara e Torino. In carrozza c’era uno strano silenzio, dovuto certo all’ottima insonorizzazione, ma anche al fatto che i passeggeri trattenevano il fiato per il terrore.
Ancora.
Domenica a pranzo sono andato a mangiare con Bob e Marina. Avevo chiesto gentilmente che mi portassero in un posto qualsiasi, insomma un boccone per stare in compagnia, anche perché alle 15.30 mi aspettava la Lucia e non volevo farmi cogliere dalla classica botta di sonno da mappazza post prandiale.
Certo. Finocchiona, coppa di testa, prosciutto crudo, crostini toscani, lardo di Colonnata, insalata di fagioli, coccole (mi pare, una specie di torta fritta parmigiana) e ricotta come ANTIPASTO, in uno dei migliori ristoranti di Firenze. Minestra di fagioli e farro e ribollita come primo piatto. Una fiorentina come secondo (non la squadra, ché quella vale poco, ultrasmile), patate al forno e carciofi fritti. Sorbetto non mi ricordo come, ma buonissimo. Vino e acqua.
Non solo, ci hanno pure offerto il pranzo, ‘sti due disgraziati.
Battute di rara volgarità davanti al teatro, dove ho immortalato Bob mentre importuna con gesti inequivocabili una signora. Non metto la foto perché sono un signore.
Io e ex-Ripley ringraziamo coram populo (per il pranzo, non per il comportamento di Bob, ultrasmile)
Ma veniamo alle cose meno serie.

La partitura di Les Contes d’Hoffmann.

Venerdì a Torino ho assistito a un’opera che adoro, Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, nell’allestimento di Nicolas Jöel ripreso per l’occasione da Stephane Roche.
Molto belle le scenografie di Ezio Frigerio e magnifici i costumi di Franca Squarciapino. Buone anche le luci di Vinicio Cheli.
Un elemento fisso, che assomiglia molto agli ingranaggi di un orologio, fa da sfondo alle vicende dello sfigatissimo poeta Hoffmann.
Il tenore Arturo Chacòn-Cruz però non mi è piaciuto per nulla, soprattutto perché non ha capito che il personaggio è un maledetto ( Baudelaire, non a caso, amava I Racconti )e non un bamboccione, un bambascione come dice la mia amica Margie, fonte inesauribile d’ispirazione.
La voce, in teatro, appare sempre velata e priva di autentico squillo tenorile. Inoltre l’interpretazione è monolitica, sempre improntata a un generico forte o mezzoforte.
Purtroppo Alfonso Antoniozzi ha dovuto rinunciare a causa di una tracheite (non so se poi ha cantato domenica pomeriggio, ma mi auguro che si sia ripreso), ma è stato ben sostituito dal collega Simone Alberghini, artista di grande classe ed eleganza. Voce non monumentale, certo, ma accento sempre appropriato e pertinente in un ruolo (sono quattro personaggi, lo ricordo) difficile che ha reso alla perfezione.
Ne approfitto per spezzare una lancia a favore degli Artisti che si esibiscono nei nostri teatri.
Forse mancano le voci straordinarie, peraltro rarissime anche in passato, ma questi signori si fanno un mazzo così a curare l’interpretazione, la gestualità, la mimica e tutto ciò che contribuisce a rendere credibile un personaggio. Cantano distesi, correndo, arrampicati sui trampoli, a testa in giù, insomma seguono le indicazioni, spesso insensate (ma non è questo il caso), dei registi.
Vogliamo considerarlo una volta per tutte un bel valore aggiunto alla prestazione complessiva? O continuiamo a far finta che se cantassero impalati al proscenio, come appunto spesso succedeva ai tempi sempre troppo rimpianti del passato, saremmo tutti lì a dire Sì Tal dei Tali ha una bella voce ma sembra Maldini in area di rigore tanto è ancorato a terra?
Questo non significa certo che si debba passare sopra ad orrori vocali quando ci sono, sia chiaro, ma credo che non sottolineare il diverso e meritevole impegno dell’artista moderno sia disonesto.
Amen.
Désirée Rancatore ha sparato acuti e sovracuti a nastro nella parte della presunta donna Olympia, questo richiede il ruolo, che non necessita di particolari sottigliezze interpretative. Quindi il soprano siciliano era a suo agio al pari di Berlusconi quando sta per dire una stronzata, un gioco da ragazzi. Trionfo dopo l’aria della bambola meccanica, che ho riportato nel post precedente nella versione di Natalie Dessay.
Raffaella Angeletti mi è piaciuta moltissimo come Antonia, una ragazza che vuole cantare a tutti i costi e ci lascia le penne, povera. Speriamo non succeda la stessa cosa al soprano Silvia Dalla Benetta, che mi dicono abbia intenzione di debuttare Norma a Trieste. (ao’, sto a scherza’ eh?, smile)
La Angeletti ha palesato solo sporadiche tensioni negli acuti, ma ha una voce di colore e timbro gradevolissimi e una presenza scenica di gran classe. Brava!
Monica Bacelli, nell’atto veneziano, faceva la cortigiana. I mean per ragioni di libretto eh? (smile)
Però qui devo contestare il librettista Jules Barbier. Quando mai una zoccoletta si è chiamata Giulietta? Giulietta può al massimo cadere in un tragico equivoco ed  amare un travestito, come ben aveva capito Bellini. (strasmile)
E chiamala Deborah, o Jessica, no? Transeat.
Comunque la Bacelli ha una voce importante, tanto che nella barcarola che apre l’episodio di cui è protagonista, l’altro mezzosoprano Nino Surguladze ( non fate casini con i nomi e i travestiti e tutto il resto, Nino è donna, e pure bona, vedere qui, grazie) sembrava un pesce nell’acquario, muoveva la bocca ma non si sentiva. Bravissima anche Monica, allora!
Sia Angeletti sia Bacelli sono impegnate in duetti col tenore che, appunto in queste occasioni, faceva il secondo pesce nell’acquario. La proiezione della voce di un cantante si valuta in teatro, nelle trasmissioni radiofoniche ci sono i microfoni che rendono tutto uniforme, vale la pena ricordarlo.
Di Nino Surguladze ho sostanzialmente già detto, con l’aggravante che non mi sembrava troppo attenta dal punto di vista scenico, né come Musa né come Nicklausse (altro personaggio en travesti, abbiate pazienza, ma oggi è un delirio). La voce è abbastanza gradevole ma è evidente il tentativo di gonfiare i centri, con il risultato che poi gli acuti sono sbiancati e stimbrati, per non dire spoggiati, addirittura. Peccato no?
Tutti gli altri coprotagonisti meritano una citazione non distratta: i tenori Carlo Bosi ( Andrès, Cochenille, Frantz e Pitichinaccio)e Emanuele Giannino (Spalanzani). Bene anche il baritono Armando Ariostini (Schlémil e Hermann) e il basso Alessandro Guerzoni (Crespel). Pure Diego Matamoro (Oste), Gianluca Sorrentino (Nathanafil) e Giovanna Lanza (madre di Antonia) sono sembrati di buon livello. Nella breve e muta apparizione, non passa inosservata la curata mimica di Maria Paola Rebecchi nel ruolo di Stella.
Il Coro ha risposto con grande sicurezza anche dal punto di vista scenico.
La concertazione di Emmanuel Villaume non mi è parsa memorabile, ma il direttore ha seguito con grande attenzione i cantanti, evitando casini tra buca e palcoscenico e con tanti personaggi in scena non è merito da poco.
Il pubblico di Torino, cioè la parte di pubblico che è rimasta sino alla fine, perché un paio di centinaia di gradassi presenzialisti se ne sono andati al secondo intervallo, ha applaudito convinto tutta la compagnia artistica.
Ma che ci venite a fare in teatro, mi chiedo. Tra l’altro I Racconti sono quasi da consigliare al neofita, perché è un lavoro che si segue con facilità, ogni atto una vicenda diversa, mica è il Parsifal.
E state a casa, no? Mah.
Non finisce qui, purtroppo per voi, perché poi da Torino sono partito per Firenze come avrete argutamente capito dall’introduzione alle recensioni semiserie.
Al Comunale era di scena La Lucia di Lammeroor di Donizetti.

Paritura di Lucia di Lammeromoor.

Allora, fermo restando che io qui esprimo opinioni personali e non le spaccio per Verità Assolute, dico subito che, dal punto di vista artistico, mancava la protagonista.
Il soprano Eglise Gutiérrez che ho sentito più volte in teatro a Trieste e non solo, a mio avviso, ha completamente travisato il personaggio di Lucia.
Voglio dire, questa ragazza doveva essere una con le palle (in senso lato, ché ormai qui non si parla più di presunti uomini o donne, strasmile), non una povera sfigata che si fa mettere i piedi in testa da tutti.
È innamorata di un bellimbusto litigioso ma ragioni familiari spingono il fratello (quello sì, sfigato, perché sceglie di stare dalla parte di chi perde una guerra) a imporle un matrimonio che gli salvi il culo.
Ora, lei avrebbe potuto benissimo sposare il ricco e vincente sostituto, sgravare una sessantina di eredi e vivere il resto della sua vita serenamente, oppure, al limite, darsi al whisky che in Scozia non è male.
Invece no, che fa? Uccide lo sposino, diventa matta e muore di consunzione amorosa.
Insomma il personaggio è tosto, fiero, nobile, orgoglioso, non piagnucoloso e pigolante!
Appunto invece la Gutiérrez ha trasformato Lucia in una lagnosa scassa palle, e non va bene per nulla.
Vocalmente poi, almeno ieri, non mi è parsa all’altezza. Nulla di grave, però la prima ottava era latitante e gli acuti e sovracuti (pochi, questi ultimi) quasi impercettibili, presi sempre “da sotto” e restavano lì, non correvano per il teatro, segno che nell’ emissione c’è qualche falla.
C’è da sottolineare che l’acustica del Maggio non è il massimo, e non lo sostengo io, ma chi al Maggio è di casa, come spettatore intendo; può essere quindi che in una posizione più favorevole la voce si sentisse meglio. Però, santo cielo, ero nella terza fila in prima galleria, mica nel magazzino delle scope.
Nella scena della pazzia si è rotolata un po’ sul palco, ma lo faceva nel salotto di casa anche Linda Blair nell’Esorcista, non è che si caratterizzi così un personaggio.
Il tenore Stefano Secco, Edgardo, ha cantato davvero bene l’ultima aria, Tu che a Dio spiegasti l’ali, e gliene va reso atto. Però la voce è come il suo cognome, secca e priva di armonici, comunque piccolina.
Inoltre nelle scene più drammatiche, quando il suo personaggio deve tirare fuori gli attributi, il suo furore è quello di un bambino al quale hanno tolto la Nintendo, e non va bene neanche questo.
Il ruolo è molto difficile ed è opportuno considerarlo, quindi direi che nel complesso la prova di Secco è stata discreta.
Alberto Gazale è un baritono dalla voce piuttosto ampia e sonora e dalla linea di canto omogenea, ma anche lui (c’è sempre da tenere presente che i cantanti devono seguire le indicazioni del regista) vede Enrico come uno sempre inferocito: gli manca nobiltà, questo voglio dire.
Buona la sua prestazione.
Raimondo Bibident (lascio a voi le battute salaci su un personaggio che si chiama così, una via di mezzo tra una gazzosa e un adesivo per dentiere) è stato interpretato dal basso Giovanni Battista Parodi, che è stato autorevole dal punto di vista scenico e discreto dal lato vocale.
Così così gli altri: il mezzosoprano Antonella Trevisan (Alisa), i tenori Saverio Fiore (lo sposino Arturo) e Enrico Cossutta (Normanno).
Molto bene l’Orchestra del Maggio, anzi, direi magnifica. Buono il Coro.
Stefano Ranzani a me è piaciuto, perché ha diretto questa Lucia (a memoria pure lui, come il giurassico Nello Santi) con vigore ma senza fare chiasso nei momenti più drammatici e con sufficiente leggerezza nelle fasi più scopertamente romantiche e notturne.
Non è piaciuto, invece, a un numero esiguo ma non irrilevante di spettatori, che lo hanno buato alla fine.
Opinioni.
Applausi convinti (teatro pienissimo, immagino che fosse tutto esaurito o quasi) invece per tutti i protagonisti, con punte d’entusiasmo per Eglise Gutiérrez.
Graham Vick firmava la regia, ripresa da Marina Bianchi. Boh. Non ho visto un’impronta significativa, mentre erano belle anche se leggermente stucchevoli e didascaliche le scene di Paul Brown che ha firmato anche i costumi. Appaganti, ma non tali da destare meraviglie le luci di Nick Chelton.
Però me lo dico da solo, non sono mai contento.
L’allestimento era tradizionale e abbastanza rispettoso del libretto (con l’eccezione della scena della torre, mancava…la torre).
Direi che può bastare.
Buon fine settimana a tutti.
P.S
In trasferta con me c’era anche ex-Ripley che ha apprezzato tutto, da Torino a Firenze, ad eccezione della mia compagnia.
Come darle torto, peraltro. (smile)
P.S 2
%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: