Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: luglio 2009

Breve recensione inferocita del Siegfried a Bayreuth.

Chi segue questo blog sa che io non sono certo estremista nelle mie valutazioni ma questa volta, dopo il Siegfried di ieri pomeriggio, invece di una recensione semiseria scriverò una specie di atto di dolore.
Mio Wagner mi pento e mi dolgo non tanto per me, ma per il pubblico presente a Bayreuth che non ha avuto il coraggio non voglio dire di buare, io non lo faccio mai e non posso pretenderlo dagli altri, ma almeno di scappare via in silenzio e più velocemente possibile dal teatro.
Invece, applausi per tutti. Scandalo nello scandalo.
Tanto è stata disastrosa la prestazione dei cantanti che arrivare alla fine dell’opera mi è stato difficile e faticoso.
Addirittura repellente, dal punto di vista artistico, la prestazione dei due tenori Christian Franz (Siegfried) e Wolfgang Schmidt (Mime) : sembravano due ubriachi che s’accapigliano in un’osteria per l’ultimo bicchiere prima d’andare a vomitare in strada. Una coppia di fatto di nuovi mostri.
Di questo disastro mi pare che qualche responsabilità debba addebitarsi anche a Christian Thielemann, che come direttore non dovrebbe tollerare che in palcoscenico si sentano cachinni e urla. Quindi, nonostante anche ieri la direzione sia stata di gran lunga la cosa migliore, io lo boccio senza appello. Taccio per decenza della prestazione di qualche professore d’orchestra (il cornista), preda di una crisi respiratoria prima e d’un attacco di panico durante il secondo atto. Horribile auditu, semplicemente.
Il fatto è che i cantanti, come ho scritto tante volte, sono umani e possono avere serate storte, ma è inconcepibile che travisino così il testo e l’ispirazione del compositore.
Le prestazioni abbastanza buone di Albert Dohmen (Wotan,un po’ affaticato in alto), Andrew Shore (Alberich, meglio dell’anno scorso) e Christa Meyer (Erda, anche lei in progresso rispetto alla passata stagione) non sono bastate a riscattare una serata triste per la musica in generale e per Wagner nello specifico.
A questa atmosfera luttuosa ha contribuito in modo tutt’altro che insignificante Linda Watson, che ieri pomeriggio ha urlato oltre il lecito ed è parsa calante e stonata in più d’una occasione.
Una Brünnhilde sotto il livello sindacale minimo.
E pensare che domani c’è la Götterdämmerung! Sperare che tenore e soprano cantino bene, a questo punto, è un atto di fede.
Buon fine settimana a tutti.
 
 
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Mini recensione semiseria di Die Walküre al Festival di Bayreuth e piccolo omaggio a Federica Pellegrini e Alessia Filippi.

Se si parla di Valchirie, soprattutto per come sono percepite nell’immaginario collettivo di chi non è melomane,  credo che in questi giorni l’apertura del post spetti a loro, specialmente dopo la clamorosa vittoria di ieri nei 200 stile libero di Federica Pellegrini che bissa la medaglia d’oro del giorno precedente nei 1500 di Alessia Filippi!
Bravissime! Siete due "nuovi mostri", in senso buono!
Intanto martedì, da Bayreuth via radio spagnola…
ho sentito una bellissima Die Walküre, nella quale Christian Thielemann, il direttore, si è confermato come uno dei migliori wagneriani del momento [ho scoperto ora che Thielemann è pure bloggarolo (smile)].
La sua direzione mi è sembrata davvero meritevole di ogni plauso, in particolare per come ha saputo rendere la drammaticità e la grandezza del finale senza essere ridondante e retorico, cosa che si potrebbe benissimo invece affermare per nomi celeberrimi del passato che spesso “gonfiavano” il suono dell’orchestra (questa volta senza sbavature).
Tra i solisti molte luci e qualche ombra, ma nel complesso è andata molto bene (nella foto Wotan è Falck Struckmann e non Albert Dohmen)
Endrik Wottrich ripropone il suo Siegmund vigoroso e selvaggio, sfruttando una voce che mi sembra aver perso, forse, qualche lucentezza negli acuti ma che sicuramente ha guadagnato una bella rotondità nei centri. Il tenore mi ha ricordato, come linea interpretativa, Ramon Vinay.
Qualche tensione negli acuti per Eva Maria Westbroek, Sieglinde, ma il personaggio esce benissimo in tutta la tormentata emotività che lo caratterizza. Molto buona la “chimica” tra il soprano e il tenore nel famoso duetto porno (smile) che chiude il primo atto.
Kwangchul Youn si conferma quale solidissimo Hunding, a cui manca (forse) un po’ di ferina cattiveria, ma vocalmente è risultato imponente e autorevole.
Linda Watson, il soprano che interpreta Brünnhilde, è sempre lei, nel bene e nel male. Indubbiamente, specialmente nel finale, gli acuti risultano leggermente calanti e l’intonazione non è adamantina, però ricordo recite peggiori, documentate su dischi storici e leggendari, della Mödl e della Varnay, non so se mi spiego (no, probabilmente, soprattutto se chi legge non conosce codeste due straordinarie interpreti!).
Dal confronto indiretto tra lei e Irène Theorin, che ha impersonato Isolde nel Tristan di apertura del Festival, esce vincitrice a mani basse.
Nel complesso mi sento di definire ottima la recita di Albert Dohmen, che ha delineato un Wotan di grande impatto vocale. Certo, qualche suono esce un po’ gutturale, però ragazzi miei che accento e che autorevolezza! Tra l’altro, rispetto all’anno scorso, l’artista sembra in forma vocale smagliante e prova ne siano gli acuti, decisamente centrati e, per quanto è possibile valutare per radio, “grandi”.
Bene anche Michelle Breedt nei panni dell’inviperita Fricka e sufficienti le otto “starnazzanti” sorelle, di cui per mancanza di tempo tralascio i nomi.
Successo di pubblico notevole, a giudicare dagli applausi che mi trovano assolutamente concorde, anzi, credo proprio che se fossi stato presente mi sarei spellato le mani anch’io.
Se trovo qualche opinione discordante in Rete, la linko volentieri, e ovviamente sono ben accetti anche interventi qui sul blog.
Oggi tocca al Siegfried, in cui sono molto curioso di sentire il tenore Christian Franz, speriamo bene!
Buona giornata a tutti.
 
P.S.

Il Rheingold a Bayreuth e varie ed eventuali da Marcelo Álvarez e Juan Diego Flòrez.

Al Festival di Bayreuth, i Meistersinger (che ho seguito un po’ distrattamente) di domenica scorsa sono scivolati via senza grandi emozioni, ma con un rendimento complessivo della compagnia di canto decisamente migliore del Tristan di apertura.
Sicuramente un direttore di maggiore personalità come Sebastian Weigle ha contribuito al buon risultato finale, credo sia opportuno sottolinearlo.
Fischi e buate, invece, per la regia di Katharina Wagner, peraltro ampiamente previsti perché già nella scorsa edizione il pubblico reagì in questo modo.
Anche Daland, a proposito dei Meistersingers, è abbastanza contento.
Ieri è stata la volta del Rheingold e oggi tocca a Die Walküre.
Considerata la latitanza di RADIO3, la recita può essere seguita via web su alcune radio. Io, ho trovato, almeno ieri, che la qualità migliore di trasmissione sia quella della radio spagnola.
Dicevo del Rheingold di ieri pomeriggio, di cui metto qui sotto la locandina. Il cast è molto simile all’anno scorso, in neretto gli artisti “nuovi” e tra parentesi i cantanti sostituiti.
 
Wotan Albert Dohmen
Donner Ralf Lukas
Froh Clemens Bieber
Loge Arnold Bezuyen
Fasolt Kwangchul Youn
Fafner Ain Anger (Hans-Peter König)
Alberich Andrew Shore
Mime Wolfgang Schmidt (Gerhard Siegel)
Fricka Michelle Breedt
Freia Edith Haller
Erda Christa Mayer
Woglinde Christiane Kohl (Fionnuala McCarthy)
Wellgunde Ulrike Helzel
Flosshilde Simone Schröder
 
A sentire la prima di ieri mi pare che Albert Dohmen (buon viatico per questo pomeriggio, ma Wotan è parte difficilissima) sia più in palla dell’ultima volta, mentre il pur volenteroso Ain Anger non è stato efficace come Fafner.
Davvero bravissimo Christian Thielemann, mentre ho sentito qualche clamoroso svarione dell’orchestra (un paio di spernacchiamenti inconsueti per Bayreuth).
Per tutto il resto rimando alla recensione della scorsa stagione.
Segnalo che Marcelo Alvarez, tenore tra i più amati del momento e anche da me apprezzato nella recente Adriana Lecouvreur a Torino, ha scelto OperaClick per spiegare ai numerosi fan l’equivoco con il Teatro dell’Opera di Roma in merito alla sua scomparsa dal cartellone nella Carmen a Caracalla.
Nel frattempo, voci di corridoio segnalano che Juan Diego Flórez, che al prossimo Rossini Opera Festival interpreterà Ilo nella Zelmira d’apertura, non sappia ancora la parte.
Il suo agente, Ernesto Palacio, conferma.
Quest’anno ne vedremo delle belle a Pesaro, anche perché un fuoriclasse assoluto come Florez scatena la passione dei melomani.
Buona settimana a tutti.
 
 

Mini recensione semiseria di Tristan und Isolde al Festival di Bayreuth 2009.

Non mi soffermo in questa sede sulla genesi del Tristan und Isolde o sull’amore infelice di Wagner per Matilde Wesendonck, sarebbe troppo complicato.
Invece sottolineo come ieri, una volta di più, abbia apprezzato il magnifico lavoro di Guido Manacorda e la comodità del libretto dell’opera pubblicato dalla Sansoni. La mia copia costava 7 Lire nel 1940, pensate un po’!
Andiamo subito alla recensione, anzi, alla mini recensione semiseria della recita che ha inaugurato il Festival di Bayreuth 2009.
La trasmissione è stata abbastanza disturbata nel primo atto, non è la prima volta che succede nelle dirette [qualcuno dirà che è stato un bene, visto il rendimento della Theorin (smile)].
Ovviamente le mie opinioni sono da prendere con le molle, è evidente che l’ascolto radiofonico è un ascolto monco, difficile capire se c’è equilibrio tra voci ed orchestra ad esempio, e poi manca la dimensione teatrale.
La direzione di Peter Schneider, che non s’inventa nulla di nuovo restando nel solco di una solida tradizione, in qualche momento mi è sembrata un po’troppo concitata e fragorosa, ma davvero è difficile valutare attraverso l’ascolto radiofonico. Forse il momento migliore è stato il Preludio, diretto in maniera asciutta e spedita.
Robert Dean Smith, ormai un veterano del repertorio wagneriano pur essendo ancora giovane [insomma, ha un anno meno di me, ma così mi tiro un po’ su di morale (smile)], è parso di gran lunga il miglior cantante della serata.
L’accento è nobile, e mi è piaciuto come ha reso lo smarrimento di Tristan dopo aver bevuto il filtro d’amore.
Nel lunghissimo duetto del secondo atto si è sentita qualche tensione in acuto, ma anche qui molto meglio il tenore che il soprano. Il terzo atto del Tristan, si sa, è una specie di trappolone gigante per i tenori, si ricordano disastri anche negli ultimi anni (Storey e Heppner, tanto per fare un paio di nomi). Dean Smith, invece, pur senza esaltare, ha retto bene sino alla fine e anzi, in alcune occasioni mi ha sorpreso per la capacità di gestione dei fiati.
È un nuovo idolo del canto wagneriano? No, ma è un buon cantante e gli va dato atto.
Non mi ha convinto per nulla la caratterizzazione di Irène Theorin che, forse nel tentativo di rendere il temperamento febbrile di Isolde, ne fa un’isterica assai poco nobile. Gli acuti erano sempre forzati e schiacciati e sostanzialmente m’è sembrata vociferante ed urlante, in particolare nel primo atto.
Questa sensazione di precarietà vocale è stata confermata nella celeberrima Mild und Liese, durante la quale ho temuto seriamente che la voce si rompesse in più occasioni. Ovviamente, in queste condizioni, il fraseggio e il legato risultano assenti, la cantante era troppo concentrata a dosare le forze.
Non capisco come mai a Bayreuth, che dovrebbe essere una vetrina d’eccellenze artistiche, non si trovi una Isolde migliore, ce ne sono sicuramente, ad esempio Janice Baird.
Il basso Robert Holl, Re Marke, comincia con un attacco bruttissimo il suo lungo monologo e manifesta poi qualche serio problema d’intonazione. Diciamo che si è salvato perché non ha sbracato e si è mantenuto su un livello discreto di civiltà interpretativa.
La stessa considerazione vale per la Brangane abbastanza anonima di Michelle Breedt.
Sufficiente Jukka Raislainen (Kurwenal) e a livello di minimo sindacale tutti gli altri.
Nel complesso questo Tristan non mi pare degno d’essere ricordato con particolare entusiasmo. Non so se in teatro la sensazione possa essere stata molto diversa dalla mia, ma lo metto in conto, perché so benissimo che in sala la situazione può cambiare anche di molto.
Oggi, sempre alle 15.57 su RADIO3, c’è la diretta dei Meistersinger, speriamo che il livello artistico sia complessivamente più elevato di ieri.
Buona giornata a tutti!
 
 

I’m in a Bayreuth state of mind. Sabato 25 luglio si apre il Festival di Bayreuth con Tristan und Isolde.

Sabato prossimo ricomincia l’annuale rito del Festival di Bayreuth.
Quest’anno, come argutamente sottolinea daland, sembra che ci sia un po’d’Italia anche sulla collina sacra (smile). Speriamo bene.
Si comincia con Tristan und Isolde, una delle opere che amo di più e quindi è imprescindibile l’ascolto radiofonico, su RADIO3, che merita una volta di più un plauso e gratitudine da tutti i melomani.
Appuntamento alle 15.57 di sabato 25 luglio, quindi.
Seguirà, credo, la consueta recensione semiseria.
Qualcuno mi ha chiesto nei giorni scorsi un consiglio discografico per questo straordinario capolavoro. Non è facile, anche perché le edizioni sono molte e io ci trovo un pregio in tutte (smile).
Diciamo che, a mio parere, non si può prescindere dalla Isolde di Birgit Nilsson,
di cui ci sono diverse testimonianze. Se dovessi sceglierne una consiglierei quella, un po’tardiva per quasi tutti i protagonisti ma forse per questo così preziosa, diretta proprio a Bayreuth nel 1966 da Karl Böhm.
Qui la Nilsson, accusata spesso di una qual freddezza da certa critica, ammorbidisce il suo canto e il suo strumento fenomenale in un lirismo sfocato e sfuggente, presago di sventura dalla prima frase e pur radiosissimo e sensuale nel duetto, ad esempio. Un’interpretazione che non esito a definire sconvolgente.
Gli altri protagonisti sono tutti a livelli eccellenti, a mio parere.
Il Tristan di Wolfgang Windgassen è memorabile, meravigliosa la Brangäne di Christa Ludwig, ottimi sia Eberhard Wächter (Kurwenal) sia Martti Talvela (Re Marke).
La direzione di Böhm è magnifica: non indugia in effetti retorici ma anzi snellisce, se così si può dire, la sterminata partitura wagneriana. Manca il colpo di genio? Probabilmente sì, ma non se ne sente la mancanza, con quegli interpreti.
L’appassionato wagneriano che c’è in me sta scalpitando, perché indico un solo titolo. In realtà ce ne sarebbero tante, di registrazioni memorabili, ma non la finirei più di scrivere.
Lascio un ascolto, non il famoso Liebestod questa volta, ma l’altrettanto emozionante Preludio, nell’interpretazione di Daniel Barenboim in occasione della prima alla Scala di Milano nel 2007.
A presto!

Di rider finirai pria dell’aurora.

Io scrivo recensioni semiserie e mi diverto, sperando di strappare un sorriso anche a chi legge.
Quando vado alla Fenice, nelle mie cronache ci metto dentro sempre l’orrida Venezia, ormai è una specie di tormentone.
Però forse devo cominciare a stare attento, a giudicare dalle statistiche:
 
10.07.09 07:31:32 Magistrato alle acque di Venezia    Italia    xxx.xxx.xxx.xxx              Explorer 7.x      Windows XP
 
Come se non bastasse, questa mattina pensavo di scrivere qualcosa di spiritoso sull’influenza che ha esercitato la Chiesa sulle scelte dei librettisti, nei secoli scorsi.
Dopo aver visto questo:
 
17.07.09 12:01:28           Holy see            Città del Vaticano          xxx.xxx.xxx.xxx              Explorer 7.x      Windows XP
 
credo sia meglio soprassedere, non ho più il polso della situazione.
Qui c’è poco da ridere…
Buon fine settimana a tutti!

Quel povero diavolo di Niccolò Paganini.

In Italia, d’estate, la musica lirica si trasferisce spesso all’aperto.
A Torre del Lago è appena cominciato (non benissimo, ahimé)  il Festival Pucciniano, all’Arena di Verona proseguono le recite delle opere in cartellone, Aida, Barbiere, Carmen (particolarmente sfortunata quest’anno, numerose le sospensioni a causa di acquazzoni), Turandot, il Gala con Placido Domingo del 24 luglio.
Tutti appuntamenti interessanti, ma per me fa troppo caldo e rinuncio. Salvo imprevedibili cambi di programma (sempre possibili anche se non probabili), m’accontenterò di seguire alla radio il Festival di Bayreuth e il Rossini Opera Festival, per poi riprendere le mie frequentazioni teatrali in settembre.
Nel frattempo mi sono imbattuto in un ottimo libro, a cura di Marco Capra: Il diavolo all’opera. Aspetti e rappresentazioni del diabolico nella musica e nella cultura del XIX secolo. (qui su IBS)
L’autore va ad indagare non tanto le opere in cui appare, in varie forme, il Maligno, ma offre uno sguardo più ampio sull’impatto della figura diabolica in varie discipline, partendo dalla lirica o dalla musica più in generale.
Nel primo capitolo, paradigmatico di tutto il volume, si parla, pensate un po’, di Niccolò Paganini, il violinista che non ripeteva mai. Vista con gli occhi di oggi, la frase “Paganini non ripete” sembra uno slogan, non così dissimile nella forma ad un messaggio pubblicitario. Vedremo che questa visione non è poi così peregrina.
Ma perché parlare di Paganini in un libro che si occupa d’influenze diaboliche? Bisogna fare un passo indietro e considerare un altro celeberrimo violinista, Giuseppe Tartini, che una notte del 1713 fece uno strano sogno e cioè che il diavolo si metteva a sua disposizione per realizzare qualsiasi desiderio.
L’artista gli affida il proprio violino e il diavolaccio suona una melodia di straordinaria bellezza, tanto che, al risveglio, Tartini si precipita sullo strumento per provare a riprodurla. Nulla da fare, la musica è irripetibile e l’armonia scompare dalla mente del compositore. Allora, febbrilmente ispirato, quasi in uno stato di trance, scrive le note di un nuovo pezzo, la Sonata del Trillo del diavolo di cui, nel secolo successivo, Paganini diede interpretazioni memorabili.
Ma la bravura soprannaturale non basta a spiegare l’accostamento tra l’artista e il tentatore, ci vuole altro, e Paganini, grandissimo promotore di se stesso, sfruttò a proprio vantaggio anche alcune caratteristiche fisiche.
Era alto, allampanato, l’espressione un po’assente, con le mani affusolate e le dita lunghissime che ghermivano il violino come artigli. Suonava il suo strumento in modo inconsueto, strappando le corde o tenendolo capovolto (un Jimi Hendrix ante litteram, diciamo, strasmile). Si esibiva, si dice, nei cimiteri!
Nel 1812 assiste, alla Scala di Milano, ad uno strano balletto di Salvatore Viganò intitolato Il noce di Benevento, che parla di streghe che si riuniscono nei pressi di un albero.
Una delle melodie di questo lavoro lo affascina a tal punto che incomincia ad inserirla nei concerti. Diventa famoso e i media del tempo si occupano di lui, lo vediamo ritratto mentre suona circondato da diavoli. Paganini si trasforma in un fenomeno massmediatico e fioriscono le prime leggende metropolitane sulla sua chiacchierata persona.
Le voci si rincorrono.
Sembra che da bambino, a causa del morbillo, sia quasi stato sepolto vivo! Pare che sia stato coinvolto in un delitto orribile!
Puntuale, ecco una litografia che lo immortala in prigione. Durante i suoi concerti c’è chi giura di vedere sinistri bagliori o di sentire odore di zolfo!
In questo clima eccitato, persino il poeta Heinrich Heine,
nelle Florentinische Nächte, descrive così il musicista durante un’esibizione:
 
“Dietro a lui s’agitava uno spettro, la fisionomia del quale rivelava una beffarda natura di caprone e talvolta vedevo due lunghe mani pelose (le sue, pareva) toccare le corde dello strumento suonato da Paganini. Talvolta esse gli guidavano pure la mano onde reggeva l’arco e risate belanti d’applauso accompagnavano i suoni che sgorgavano dal violino sempre più dolorosi e cruenti.”
 
Che dire, dobbiamo crederci?
E pensare che in una delle prime raffigurazioni vediamo il musicista accanto ad un’arpa, cioè lo strumento angelico per antonomasia!
Insomma Paganini si organizza la vita facendosi attendere e precedere da campagne di stampa che creano attesa, curiosità morbosa, aspettative straordinarie.
Un artista diabolico o solo un grande artista molto furbo?
Il libro poi prosegue, corredato da una nutrita bibliografia, descrivendo altre “relazioni pericolose” vere o presunte tra compositori e il Maligno. Non mancano, ovviamente, considerazioni sul Romanticismo, afflato culturale nel quale demoni e streghe hanno proliferato ampiamente.
Insomma, direi che vista la notevole frequentazione reciproca, artisti e diavoli vari possono essere considerati tranquillamente nuovi mostri e…coppie di fatto (strasmile)!
È una lettura colta, scritta con intenti divulgativi, che non si rivolge solo agli addetti ai lavori e può essere apprezzata da chiunque, quindi consiglio il libro ai miei numerosi fan (smile).
Buona settimana a tutti!
 

Festival dell’Operetta al Verdi di Trieste: recensione semiseria della Vedova Allegra di Franz Lehár.

Sabato scorso, in una serata per molti versi da tregenda, ha esordito al Verdi di Trieste il nuovo allestimento della Vedova Allegra di Franz Lehár.
Perché dico da tregenda? Il motivo è semplice, anche se con la musica ha poco a che fare: cominciavano i saldi, il Comune ha organizzato la relativa notte bianca e i triestini si sono lanciati tutti in centro.
Un casino allucinante.
Per l’occasione si sono allestite anche alcune isole pedonali transitorie, perciò il traffico, già di per sé caotico, si è concentrato in un paio di vie, che si sono trasformate in gironi infernali. Tutti contro tutti, ho visto genitori lanciare carrozzelle contro i fuoristrada per farsi largo sulle strisce. Automobilisti che prendevano in ostaggio i vigili e come riscatto chiedevano un posto in parcheggio.
Io stesso ho ancora nel bagagliaio il corpo di un turista austriaco, che aveva tentato di fregarmi un posteggio comunque di malavita, davanti al passo carrabile d’un cantiere edile.
Ecco, finita l’introduzione semiseria (strasmile).
Quest’anno ricorre il quarantennale del Festival dell’Operetta ma c’è poco da gioire, la fondazione lirica triestina non ha soldi e quindi le celebrazioni sono rimandate a tempi migliori, ammesso che ce ne siano in futuro.
Lo spettacolo è interamente prodotto a Trieste e nella prossima stagione girerà alcuni teatri italiani (Napoli, Verona, Genova). La Vedova Allegra, una vecchia signora ultracentenaria che ha ancora fascino da vendere, è l’unico titolo di questo festival in tono minore.
Sì, certo, ci sono alcune manifestazioni di contorno anche interessanti, però la realtà è che c’è un solo titolo, indorare la pillola serve a poco.
Il regista Federico Tiezzi mette il danaro al centro del suo spettacolo, di evidente ispirazione cinematografica, e ambienta la vicenda nella Parigi dei primi anni trenta del secolo scorso, nel momento della Grande Depressione. Il simbolo di questa regia è la protagonista, Hanna Glawari, che entra in scena uscendo da una cassaforte gigante. Al suo apparire tutti i grafici di Borsa, costellati di segno meno o in picchiata, invertono la tendenza. La vedova ha una dote assai cospicua e se sposerà un residente dello Stato di Pontevedro i bilanci potranno essere risanati.
Comincia quindi la nota commedia degli equivoci che porterà al matrimonio il Conte Danilo e la Glawari.
Lo spettacolo, a mio parere, è riuscito. Sono semplici ma funzionali le scene di Edoardo Sanchi, eleganti i coloratissimi costumi di Giovanna Buzzi ed efficace l’impianto luci di Gianni Pollini. Contribuiscono ad arricchire l’ambiente, senza pesantezze, le videoanimazioni di Antonio Giacomin e la coreografia di Giovanni Di Cicco.
Molto attraente la scena chez Maxim, con relativo scoppiettante can-can.
Il lavoro di Tiezzi è di qualità e di ottimo gusto, forse manca di un po’ di brio e spensieratezza e appare leggermente statico. A questo proposito sarebbe bene provare a coinvolgere di più il Coro (i peana a questi artisti sono sempre troppo pochi!).
Dal lato strettamente musicale, le cose non sono andate benissimo, purtroppo.
Julian Kovatchev conferma che il soprannome mano de pedra che gli ho affibbiato dopo la Norma di qualche mese fa è meritato. L’Orchestra del Verdi, che si disimpegna bene, meriterebbe qualcosa di meglio.
Direzione uniforme, clangorosa, monolitica, della serie “faccio il compitino e vado a casa”. Specialmente nei valzer si sente la mancanza di un po’ d’anima. Vabbè.
La compagnia di canto, ahimé, non era straordinaria (detesto parlare male dei cantanti, non avete idea quanto!).
L’unica a fornire una prestazione discreta è stata Silvia Dalla Benetta, nei panni di Hanna Glawari. Insomma nulla di particolare, ma almeno ho sentito un paio di filati in pianissimo di buona fattura. Inoltre il soprano vanta un’intonazione adamantina, acuti sicuri e una bella presenza scenica, mentre appare da perfezionare la dizione.
Il baritono Gezim Myshketa impersonava il Conte Danilo e se dal punto di vista attoriale ha parzialmente convinto (gli manca un po’ di quella allure cialtrona che il personaggio richiede), ha deluso dal lato vocale. La voce è anonima e povera di armonici, costantemente forzata, spesso in difficoltà negli acuti.
Molto peggio ha cantato Elena Borin, la Valencienne della serata, che ha finito la recita praticamente afona. Forse stava male, non so, ma indisposizioni non sono state annunciate.
Mi ha sorpreso negativamente monociglio Gianluca Terranova, nelle vesti che per lui dovrebbero essere comode di Camille, abituato com’è al Duca di Mantova o Edgardo. Non so, mi è sembrato deconcentrato, assente, e tutt’altro che ineccepibile vocalmente: gli acuti erano evidentemente forzati.
Oltre a Riccardo Peroni (Barone Mirko Zeta) e Sandro Lombardi (Njegus), il lavoro di Lehàr prevede molti coprotagonisti, che cantano negli ensemble e recitano qualche battuta in prosa. Non hanno demeritato, eccoli qui: Nicolò Ceriani (Cascada), Saverio Bambi (Raoul), Alessio Colautti (Bogdanowitsch), Marzia Postogna (Sylviane), Andrea Binetti (Kromow), Ilaria Zanetti (Olga), Giuliano Pelizon (Pritschitsch), Sara Alzetta (Praškowia).
Pubblico contento e plaudente ma non eccitatissimo, a mio parere.
Spero che nelle prossime recite il rendimento dei cantanti migliori, l’allestimento di Tiezzi lo merita.
Ciao a tutti.
 

Recensione semiseria di Adriana Lecouvreur al Teatro Regio di Torino.

Voglio vedere se riesco a scrivere la recensione, per quanto semiseria, senza usare parolacce tipo metateatro, so che ce la posso fare!
L’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea è un’opera strana, che s’inquadra storicamente nel Verismo (la prima è del 1902) ma, allo stesso tempo, s’affranca dagli aspetti più deteriori di questo controverso movimento culturale. Quindi niente scene truculente, sgozzamenti e cachinni, protagonisti con la bava alla bocca e pasticci vari. Qui anche la morte si dà con classe, senza clamore, tramite un raffinato mazzetto di fiori avvelenati. Siamo nell’ambiente teatrale, dove si recita in scena e anche, e forse di più, fuori scena.
L’umanità è quanto mai pittoresca e pullula di favorite, amanti, invidie e livori che sanno d’alcova, attrici fallite e gossip: sembra un Consiglio dei Ministri (smile).
La trama è davvero difficile da sintetizzare ma si scosta dal celebre “il tenore vuole scopare il soprano ma il baritono si oppone” solo perché invece del baritono c’è un mezzosoprano inferocito, vi basti questo.
L’opera si presta come poche a sbracamenti allucinanti da parte della protagonista, perché il ruolo prevede addirittura che il soprano reciti in prosa un paio di volte. Non so se ci siano tante circostanze paurose come vedere (e sentire) un cantante che declama in prosa: penso agli orrori della lettura delle numerose lettere di cui è costellata l’opera lirica. In codeste occasioni spesso s’assiste ad un fenomeno inquietante e cioè le cantanti del title role si trasformano nella caricatura di Gloria Swanson in Viale del Tramonto.
Una tragedia, appunto, altroché Fedra! (strasmile).
Aggiungete che nel libretto si leggono cose tipo “Cielo! Mio Marito” e capirete che per buttarla in casino basta veramente poco.
Ecco, comincio col dare atto al soprano Micaela Carosi, primadonna solo nella finzione dell’opera per il momento, di avermi risparmiato un simile scempio e di ciò la ringrazio.
D’altronde anche la sua interpretazione asettica non mi ha convinto, al di là di alcune mende tecniche piuttosto evidenti: problemini d’intonazione sparsi, ad esempio. Dizione fantasiosa, frequentemente. Canto sempre sul forte o fortissimo, genericità e piattezza d’accento.
Note positive, anche: voce bella tosta, registro centrale potente, acuti voluminosi e sicuri, buon gusto nel porgere.
Una prova accettabile, ecco, ma non di più.
Accanto a lei il tenore Marcelo Alvarez nella parte di Maurizio di Sassonia, un ragazzotto nobile sempre infoiato e con pochissimo cervello. L’artista argentino è stato bravissimo. Voglio dire che ha cantato bene e soprattutto, in un ruolo in cui è facile avendone i mezzi (ed a Marcelo non mancano!) puntare sull’effettaccio bieco da tenorissimo, si è sforzato d’interpretare con cura: belle mezzevoci, recitazione composta, e poi anche acuti pieni e, vi dirò, più squillanti del solito.
Molto brava anche Marianne Cornetti, nei panni dell’incazzatissima Principessa di Bouillon. Il mezzosoprano ha una voce di volume davvero inconsueto nel panorama odierno e, se in altre occasioni l’ho sentita puntare tutto sulla quantità, la sera scorsa ciò non è avvenuto. Elegante e autorevole, anche nei momenti più infuocati, come il duetto con Adriana che chiude il secondo atto.
Alfonso Antoniozzi è stato bravo in scena quasi quanto era spiritoso e dissacrante quando scriveva le sue “Pillole di Malox” sul blog (strasmile). Michonnet è un personaggio difficile, spesso visto come un perdente sfigato, anche da nomi prestigiosissimi in passato, mentre invece il basso-baritono-qui-decisamente-baritono ne ha colto sì il lato malinconico, ma anche la nobiltà d’animo. Dal punto di vista vocale, tra l’altro, tanto di cappello!
In questo lavoro di Cilea la compagnia di canto è molto numerosa e prevede parecchi coprotagonisti , tra i quali hanno un rilievo maggiore il tenore Luca Casalin (Abate) e il basso Simone Del Savio (Principe di Bouillon), che hanno ben figurato. Tutti gli altri sono risultati all’altezza della situazione, eccoli qui: il soprano Antonella De Chiara, il mezzosoprano Patrizia Porzio, il tenore Carlo Bosi, il basso Diego Matamoros, il tenore Giuseppe Milano e il mimo Carola Iannuzzi.
Bene l’Orchestra del Regio e discreto il Coro, forse un po’ moscio.
Sul podio il M°Renato Palumbo non mi è piaciuto molto, sinceramente. Sonorità eccessive tanto da coprire di frequente i cantanti proprio nelle scene in cui il “canto di conversazione” la fa da padrone. Qualche lentezza, anche, specialmente nei pezzi chiusi, in particolare nella bellissima “L’anima ho stanca” che ha fruttato ad Alvarez un’ovazione. In generale una lettura retorica e troppo magniloquente.
La regia di Lorenzo Mariani non mi ha scandalizzato ma non ha brillato per originalità. In alcuni momenti si è sfiorata la comicità involontaria, ad esempio quando la Principessa di Bouillon è lanciata in scena su di un letto semovente a rotelle: grottesco. Nel complesso uno spettacolo nel solco della tradizione con qualche trovatina da recita liceale di fine anno. Costumi di rara bruttezza, opera di Luisa Spinatelli, luci inutili di Carlo Schmid, scenografia impersonale di Nicola Rubertelli e coreografia noiosissima di Michele Merola.
Il pubblico torinese ha tributato un successone allo spettacolo, applaudendo i protagonisti con vigore (tra l’altro, tutti i solisti sono stati applauditi anche a scena aperta)  e quindi i miei distinguo  da intenditore di ‘sta cippa verranno lavati via come lacrime nella pioggia (smile).
A proposito di pioggia, prima della recita è venuto giù qualcosa che definirei  un po’ di meno del diluvio universale e un po’ di più d’un acquazzone tropicale. Io e ex Ripley abbiamo navigato a vista sotto i portici di Via Pietro Micca, saccheggiato un bar e poi abbiamo guadato Piazza Castello prima d’attraccare al Regio, fradici ma sani e salvi.
Buon fine settimana a tutti, che la farsa sia con voi!
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