Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: agosto 2009

Guida ragionata all’ascolto della musica lirica, prima puntata.

Credo sia doverosa una premessa,prima di cominciare a leggere questa mia piccola guida all’ascolto della musica lirica.
Io non sono monomaniaco, dal punto di vista musicale. Apprezzo molti generi, non dico tutti, perché non è vero.
Oltre alla lirica, ascolto spessissimo musica pop e rock, ad esempio. Gruppi come i Pink Floyd, King Crimson, Moody Blues hanno suonato la colonna sonora della mia adolescenza. Mi sono esaltato sentendo le grida disperate della chitarra di Jimi Hendrix, mi sono commosso ascoltando i rantoli di Janis Joplin, ho sognato con le magiche atmosfere della West Coast. Ho goduto dei bellissimi impasti vocali dei Beach Boys di I get Around e così via, per non parlare ovviamente dei Beatles, i Rolling Stones e gli Who! Ottime anche alcune band nostrane: a mio gusto il Banco del Mutuo Soccorso su tutti, ma anche la PFM. Ascolto ancora oggi tutti questi cantanti e complessi, ed un’infinità di altra musica: i cantautori italiani, per esempio. A Gaber, De Andrè, devo molto. Anche a Guccini. E il Jazz? Insomma, non la finirei più con questo elenco.
Però dal momento che su questo blog ho fatto una scelta di campo, parlo di musica lirica, in attesa che i teatri riaprano a pieno ritmo dopo la pausa estiva.
A questa scelta di campo mi ha mosso un motivo specifico, che esula dalla passione per il singolo genere musicale: la ragione per cui scrivo di lirica è che, a mio modestissimo avviso, è un mondo meraviglioso che oggi va non voglio dire scomparendo, ma che appare emarginato, avulso dalla realtà, elitario, mentre per secoli ha rappresentato quanto di più autenticamente popolare esistesse (cliccate e vedrete meglio di cosa sto parlando).

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Se faccio una ricerca col tag “lirica” nei post pubblicati qui su Splinder (che non ho idea quanti blog ospiti, ma sono sicuramente un’enormità) arrivo quasi sempre ai miei post vecchi. Voglio dire, a parte qualche singolo caso l’opera non trova spazio.
Ebbene, dal punto di vista intellettuale questa situazione non mi va giù!
Il mio intervento, magari squinternato e privo di quell’aristocratica sacralità che spesso è il più grande ostacolo alla divulgazione e quindi alla conoscenza, è un atto d’amore ed allo stesso tempo un’operazione rivoluzionaria (sto scherzando, non prendetemi mai troppo sul serio), volta a sgombrare il campo dai pregiudizi e dalle manipolazioni di chi vuole vedere la vera cultura popolare costretta in un angolo, alimentando così il baraccone ignorante e volgare della televisione e del gossip, favorendo la mentalità del tutto e subito e del consumo acritico che non lascia traccia e favorisce una mentecatta globalizzazione (qui invece sono serissimo…).
Mettiamo il caso, un po’ improbabile, lo so, che qualcuno decida d’accostarsi all’opera lirica. Può succedere, no? Ho amici che si sono presi il morbo del melomane sentendo, per caso, una romanza in un film; altri hanno acquistato una rivista che allegava un compact d’arie famose, si sono incuriositi e via, inghiottiti dal precipizio della melomania marcia.
Allora, ipotizziamo che ci sia qualcuno portatore inconsapevole del morbo, oppure che senta i primi sintomi di squilibrio, ma non sappia orientarsi in questo mondo così difficile e apparentemente lontano.
Quali sono i punti cardinali, le coordinate di base per orientarsi?
Ci sono vari livelli d’ascolto, come cercherò di spiegare senza troppi tecnicismi incomprensibili.
I cardini intorno ai quali ruota il melodramma sono: musica, libretto, canto, recitazione ed ambientazione; già da questa banale considerazione giungiamo alla conclusione che solo in Teatro possiamo apprezzare se la rappresentazione dell’opera è congrua alle indicazioni del Compositore, e se l’impegno e la creatività dei vari protagonisti (dai cantanti al direttore, al regista) hanno portato ad un lavoro omogeneo e sensato.
Ma chi non può o non vuole, per i motivi più disparati, andare a teatro, come fa a conoscere ed apprezzare un’opera e valutarne il risultato?
Il primo passo è il compact disc, ovviamente, che io privilegio di gran lunga al più completo DVD.
Suggerisco, ma è solo la mia opinione, di procedere così:
1) Informarsi sulla trama, per capire qual è l’argomento trattato e come s’intrecciano le vicende dei protagonisti.
2) Se il libretto è stato ricavato, e succede spesso, da un lavoro letterario o da un testo teatrale, approfondire l’originale. Un esempio paradigmatico: un ascolto consapevole dell’Otello di Giuseppe Verdi, non può prescindere dalla conoscenza almeno superficiale dell’originale di Shakespeare.
3) Individuare, attraverso le vie che sono più agevoli ( riviste, forum) un’edizione di riferimento, intendendo con questo termine un’esecuzione che abbia riscontrato, nel corso degli anni, l’unanime consenso dei critici specializzati del settore.
4) Una volta che abbiamo compiuto la nostra scelta, prepararsi ad un primo ascolto, leggendo il libretto, in modo da poter seguire i dialoghi ed avere un’idea dell’ambientazione originale voluta dal Compositore.
5) Riascoltare l’opera in un secondo momento, cercando di seguire al meglio la musica e magari lasciandoci trasportare dai passi che ci colpiscono di più, dal punto di vista esclusivamente melodico.
Per questa prima puntata può bastare.
Se qualcuno volesse consigli o altro mi scriva in privato o nei commenti.
Buona settimana a tutti.
 
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Avvelenata polemica di fine agosto ovvero “Cortigianini, vil razza dannata”.

Come ho già detto altre volte, il mondo della critica musicale, ufficiale e non, presenta alcune singolarità interessanti. Della più significativa di queste peculiarità, ho già parlato qui. Queste anomalie poi portano a sorprendenti situazioni, come quella descritta in quest’altro post.
Negli ultimi mesi ho notato un’evoluzione, se così si può dire, perché a tutti gli effetti di involuzione si tratta se non di vero e proprio imbarbarimento, per quanto dagli effetti comici, esilaranti.
Il più tristemente famoso di questi blog operistici, che non nomino perché è peccato mortale e comunque è conosciuto dalla maggioranza degli addetti ai lavori, è riuscito a stupirmi una volta di più.
Succede che il blog ha implementato una chat nella quale si commentano i post o le opere liriche trasmesse in radio. In questo spazio si leggono cose straordinarie e quasi sempre a senso unico, mirate cioè a supportare le demolizioni pregiudiziali di tutti gli spettacoli operistici che si svolgono sull’orbe terracqueo dei quali c’è traccia sonora. Sono invece esaltati artisti e cantanti che sono morti o almeno non più in carriera, alcuni ormai in condizioni vocali preagoniche.
Ma c’è un primo incidente dietro l’angolo! Un anonimo commentatore, evidentemente stufo di leggere i soliti triti e ritriti luoghi comuni sui bei tempi andati (non ci sono più i cantanti di una volta, non ci sono più i registi di una volta, non ci sono più ecc ecc), sostiene che una delle beniamine dei tenutari del blog “ è uno sfiatatoio di suoni afoni”. Giudizio pesantino, indubbiamente, e anche piuttosto fuori luogo visti i reali meriti dell’artista in questione. Ovviamente l’appassionato è stato cacciato dalla chat (da una siura milanese tra l’altro, e sottolineo il genere femminile perché verrà utile più avanti) e ricoperto d’insulti all’inizio, e poi addirittura alla povera cantante offesa è stato dedicato un post riparatore, allegando ascolti che tra l’altro non le rendono giustizia, anzi. Però, de gustibus no?
Il problema è che un altro commentatore, che ha scritto un paio di giorni in chat e poi è scomparso (si sarà rotto le palle, immagino) ha evidenziato che è perlomeno singolare che si allontani qualcuno che appella “sfiatatoio afono” una cantante e si accetti, ed anzi s’incoraggi, che un altro definisca “rutti uterini” i suoni di un’altra cantante. Al di là del buon gusto, forse il termine rutto uterino” merita una piccola riflessione.
Perché, cari amici, le parole possono essere violente e andare oltre lo scopo canzonatorio del momento, bisogna tenerne conto. Perché se un “rutto” può essere emesso da chiunque, un rutto uterino no, perché identifica negativamente la donna in generale. Quell’aggettivo messo lì per fare una risata è un grande segno d’inciviltà ed è proprio un’altra, e non ne sentivamo il bisogno, violenza sulle donne. Significa accrescere il già brutto modo di definire la prova di un’ artista che invece di cantare, rutta, ma non solo, lo fa in modo prettamente femminile, uterino.
La Madre di Tutti i Rutti? Carina, come idea, quella di marchiare d’insulti beceri maschilisti l’eventuale e indimostrata prestazione negativa di una cantante, vero? Almeno, la prossima volta, scrivete che un tenore ha steccato in modo spermatico, così gli date anche della testa di cazzo. Par condicio no?
Poi c’è il secondo incidente e questo è francamente assai meno serio, anzi io lo trovo di una straordinaria comicità.
Alla stessa siura milanese di cui sopra, in una recente recensione scappa un complimento ad un cantante vivo e in carriera (per denigrarne un altro, peraltro, ma si sa noblesse oblige…).
Semel in anno licet insanire?
Sbigottimento generale, tanto che uno dei più tristi frequentatori del blog, preso da uno sgomento indicibile pari a quello di un bambino al quale è stato rivelato involontariamente che Babbo Natale non esiste, si mette a frignare e scrive nei commenti, con tono accorato e davvero commovente nella sua innocenza violata:
“Ma non trovate che Schrott (Erwin Schrott, eccellente basso uruguagio, una delle voci migliori del momento [nota di Amfortas] ) sia sempre carente di tecnica e ingolatissimo?”
A quel punto, la siura milanese ritrova il suo perduto istinto materno, e per evitare che il piccolino, sconvolto dal dolore, compia una pazzia, magari mangiandosi un barattolo intero di nutella e sgagazzi un po’ ovunque, risponde premurosa:
“E’ vero, Schrott canta generalmente come hai detto tu, ma il Faraone di Milano fu l’eccezione della sua carriera: voce enorme, con belle agilità di forza, e grande presenza scenica. In quel ruolo mostrò il cantante che potrebbe – e purtroppo non vuole – essere. Perché è più facile, e più efficace per la carriera, cantare in modo rozzo Mozart, piuttosto che impegnarsi davvero e mettere magari mano a ruoli tipo Maometto II…”
Magnifico, straordinario, un doppio salto carpiato di rara difficoltà.
Si sarà rassicurato il ragazzino? Non l’abbiamo perso, vero? Può tornare a giocare serenamente con i Pokemon? Vi prego, se ne sapete qualcosa, datemene notizia che gli mando una macchinetta, giuro.
E poi, per finire, una domanda a tutti quelli che fanno i plauditores alla rovescia, e cioè per far vedere che sono fuori dal coro supportano acriticamente qualsiasi stronzata venga scritta su quel blog.
Qual è la differenza tra coloro che, secondo il vostro parere illuminato, applaudono sempre tutto e tutti (convinzione che non si capisce da quali fatti sia alimentata, basta leggere le recensioni degli spettacoli) e voi che distruggete sistematicamente recite e artisti che, nella migliore della ipotesi, avete visto e sentito su Youtube?
Non siete neanche cortigiani, ma cortigianini.
Buon proseguimento a tutti.
 
 

PornOpera.

Spesso noi appassionati di musica lirica siamo considerati seriosi, quando non addirittura noiosi. Colpa nostra oppure i librettisti e i compositori ci stimolano in questo senso?
Ebbene, in questo post proverò a leggere in un’ottica un po’ particolare alcuni versi tratti dai libretti di opere piuttosto famose, così da sfatare questo luogo comune che ci vuole allegri come una dichiarazione di Bossi sull’immigrazione.
Diciamo che in alcuni casi se non si sconfina nella pornografia vera e propria, ci s’impantana in situazioni che potremmo definire boccaccesche e, spesso, in doppi sensi (voluti o meno) ed espressioni assai poco auliche.
Alcuni musicisti, Rossini in primis, ma anche altri come vedremo in un breve ma efficace excursus, erano dei buontemponi e sovente nei libretti ci sono delle frasi che si prestano ad interpretazioni perlomeno licenziose; altre volte il melomane maliziosamente interpreta a suo modo una frase o anche qualche nota sul pentagramma.
Bene, cominciamo dall’icona della lirica italiana, Giuseppe Verdi, il quale nell’Otello, nella scena di furiosa gelosia che apre il III atto, quando Otello per la prima volta accusa apertamente Desdemona di tradirlo, mette in bocca (ehm…) alla poverina, che non sa di cosa è accusata, questa frase:
“Qual è il mio fallo?” – che francamente, suona come una cattiveria gratuita nei confronti del già angosciato Moro.
Restando a Verdi, nella “Battaglia di Legnano”, il librettista Cammarano ad un certo punto se ne esce con un pruriginoso ”Or vanne…il fallo svela”, mentre in “Oberto Conte di San Bonifacio”, Solera, autore dei testi, per non essere da meno spara un “Vede il tuo fallo e freme ”(d’indignazione per la misura small o di stupore per una extralarge?).
Passiamo a Puccini e alla sua sanguigna e sensuale eroina Tosca; prima della celeberrima aria“Vissi d’arte”, nella quale sostanzialmente decide di cedere al ricatto sessuale del perverso Barone Scarpia per salvare l’amato Cavaradossi, l’orchestra suona queste note:
SI SI LA DO. Un caso?
Certo, come tutti sanno le cose non andranno benissimo per il potentato romano, ma il meccanismo che regola l’attrazione sessuale tra vittima e carnefice è oggetto di studi non banali.
Bellini illumina di una luce sessualmente ambigua “Norma”, ed anche di un eccesso di moralismo quando la costringe ad esclamare:“Si emendi il mio fallo, e poi si mora”, non vi pare?
“Adriana Lecouvreur”, eroina di Cilea, invece è perplessa dall’aspetto inquietante delle sue deiezioni, tanto da esclamare:“Giusto Ciel, che feci!”
Il vecchio Silva, in “Ernani” di Verdi è preoccupato che il romantico bandito abbia problemi di transito intestinale, e non esita ad apostrofarlo con un perentorio: “Ecco la tazza…scegli!”
E Mozart, o meglio Marco Coltellini, che nell’Opera “La finta semplice” s’inventa questo dialogo tra Cassandro e Fracasso (…)?
“Fremo, ohimè, dalla paura, ei m’infila addirittura! .
Ruggero Leoncavallo, “I Pagliacci”: nella scena finale, scoppia una lite furibonda tra Canio e Nedda, che tradisce il violento clown, il quale la apostrofa così: “Ma il vizio alberga sol ne l’alma tua negletta; tu viscere non hai… sol legge e’l senso a te! Va, non merti il mio duol, o meretrice abbietta…”
Sicuramente l’aria “Or la tromba” dal “Rinaldo” di Handel sarebbe una constatazione volgare, ma molto concreta, nel momento in cui Pinkerton e Butterfly si chiudono nella loro stanza per assaporare le gioie della prima notte di nozze, non vi pare?
Maria Stuarda di Donizetti, libretto di Giuseppe Bardari. Vogliamo parlare del linguaggio da educande con cui si esprimono le protagoniste? Così dice Maria ad Elisabetta: “Figlia impura di Bolena, Parli tu di disonore?Meretrice indegna e oscena, in te cada il mio rossore. Profanato è il soglio inglese, vil bastarda, dal tuo piè!”
E finiamo in bellezza con Rossini, che nella “Donna del lago” musica questo dialogo:
Malcolm: "Il fallo mio…"
Giacomo V, perentorio: “Pietà non merta!”
Del resto l’incipit dell’opera “Ermione”, sempre di Rossini, suona così: "Troia, qual fosti un dì !"
In coro, oltretutto.
Poi ci sono i registi, ovviamente, che nell’opera lirica spesso danno il meglio della loro arte. Si potrebbe aprire un lungo e meticoloso discorso su Calixto Bieito, talentuoso regista catalano.
Forse però, per capire la sua chiave di lettura interpretativa del melodramma, sono indispensabili le immagini. Eccone un paio, qui sotto, che si riferiscono alla sua interpretazione del "Ratto dal serraglio" di Mozart.
Comunque, buona settimana a tutti e sotto con altri esempi!
 

L’acqua intorno a noi, tra il serio, il faceto e una veloce puntata nella musica lirica.

Se fossi alle prese con il giochino delle associazioni di parole, con ogni probabilità dopo il vocabolo “acqua” risponderei  “mare”.
In mare, tutto quello che succede sulla terraferma assume connotazioni più marcate.

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Le nostre reazioni emotive sono ampliate o comunque modificate dalla presenza dell’acqua.
Penso, ad esempio, alla tempesta: affrontarne una in mare ed uscirne vincitori regala una patente d’eroismo, è qualcosa da raccontare ai nipoti.
La stessa tempesta, presa su di una statale suburbana, lascia solo i vestiti inzuppati di pioggia e ci espone alle sapide battute degli amici. La nostra impresa eroica diventa un’appendice apocrifa dei film di Fantozzi.
E che dire dei corsari, dei pirati?
Il mare riesce a donare dignità di mito anche ai delinquenti!
Un tale è squallido borseggiatore sugli autobus, ma in mare diventa Long John Silver, roba che Stevenson ne fa un capolavoro della letteratura d’ogni tempo e Björn Larsson uno dei romanzi più appassionanti degli ultimi anni.
Ancora, vogliamo parlare della grandezza di Moby Dick? (riconoscete questo attore, vero?)
Una delle più grandi ed audaci opere dell’uomo è stato il Titanic, scomparso negli abissi a causa di un pezzetto d’acqua ghiacciata. L’acqua ha inghiottito ogni cosa, è stata una tragedia immane ma il minuto successivo all’affondamento sulla superficie del mare c’era silenzio, come non fosse successo nulla.
Lascio ai lettori altre considerazioni, ce ne sono a bizzeffe in tutte le Arti.
Voglio fare un paio d’esempi tratti dall’opera lirica, senza entrare in dettagli troppo tecnici per non appesantire la lettura.
Badate bene, la Lirica è una forma d’Arte che è stata autenticamente popolare per più di tre secoli!
Farò un nome noto a tutti: L’Olandese Volante o il Vascello Fantasma.
Una nave maledetta popolata da non morti al soldo di un altro zombie, l’Holländer, un blasfemo bestemmiatore che ha osato sfidare Dio, pur di superare Il Capo di Buona Speranza; una donna che s’innamora del ritratto di un marinaio, e che si uccide gettandosi in mare.
Il fallimento dell’amore liliale, ma nevrotico, isterico, della ragazza potrebbe essere reso, con un umorismo un po’ macabro di cui mi scuso, con una metafora: “Ha fatto un buco nell’acqua!”.
Ancora, lo stesso artificio letterario ci soccorre quando, con malcelata ironia ed un po’ sprezzantemente diciamo che qualcuno “tira l’acqua al suo mulino” per giustificare qualche nefandezza.
Anche la saggezza popolare, che si dice raccolta nei proverbi, dove le figure retoriche abbondano, ci può essere d’aiuto.
Cosa c’è tra dire ed il fare? L’immensità del mare, appunto.
Siamo perseguitati dalla sfiga? Ebbene acqua a volontà, “piove sul bagnato”.
Ci troviamo in una situazione precaria? Siamo con “l’acqua alla gola” o “navighiamo in cattive acque”.
Ma l’acqua ha altri poteri e mille valenze psicologiche.
Cos’è un’isola se non un pezzetto di terra circondato dall’acqua?
Quando, presi dallo sconforto, affermiamo (un po’ incautamente, diciamolo) che vorremmo essere su di un’isola deserta, il nostro desiderio di stare da soli non è garantito da quel lembo di terra o dalla mancanza di autoctoni, ma dal fatto che tutto intorno c’è una sterminata distesa d’acqua. Diamo per scontato che quell’isola sia lontana dalla civiltà, altrimenti come potremmo trovare l’agognato raccoglimento interiore? Eppure, anche la Sicilia o un isolotto vicino a riva sono, a tutti gli effetti, isole.
C’è un’opera lirica di Giacomo Meyerbeer che s’intitola “Il Crociato in Egitto”, che oggi suona come il titolo di un videogioco.
Ebbene, nelle pieghe dei versi del libretto scritto da Gaetano Rossi, si trova una frase che all’inizio non si rivela in tutta la sua epicità e passa quasi inosservata: “Mare immenso ci separa…”
Grandioso!
Analizziamo i quattro componenti sintattici della frase.
“Un mare”: già basterebbe per perdere la nostra mente in una distesa liquida ed informe d’ipotesi, un labirinto in cui non lascia traccia del nostro passaggio, poiché l’acqua non ci consente di sapere se per quella via siamo già passati, si richiude imperterrita dietro di noi, come la scia di un relitto alla deriva.
“Immenso”: non grande, non enorme, non gigantesco bensì incommensurabile, al di là della nostra comprensione.
“Ci”: chi c’è dietro questo “ci”? Un uomo ed una donna, due popoli, un figlio e una madre, due amanti che si sono perduti?
“Separa”: divide, impedisce di esplicitare i nostri sentimenti, condanna alla solitudine, al rimpianto, al ricordo, all’abbandono, alla perdita.
Quando io penso a questa frase, ritorno indietro di tantissimi anni, alla mia fanciullezza passata all’oratorio.
Il prete mi assicurava che se fossi stato rispettoso dei comandamenti, una volta lasciata questa grama vita, sarei stato “per sempre”accanto a Dio. A me sembrava la più terribile delle condanne, perché non riuscivo a visualizzare, a dare le coordinate nel mio diagramma cartesiano a quel “per sempre”.Capivo solo che significava immobilità mentale e fisica, in una dimensione sconosciuta e ostile alla mia ipercinesi strutturale, mentale e fisica, intendo.
Dalla religione mi separava un mare immenso d’incomunicabilità.
Per questa mia prima uscita credo possa bastare, non vorrei affermare qualcosa che rappresenti la classica “goccia che fa traboccare il vaso”della vostra pazienza.
E se avete trovato questo mio scritto insopportabile, mi raccomando…”acqua in bocca” (smile).
 
Buon proseguimento a tutti.
 
 
 
 

Recensione polemica di Zelmira al Rossini Opera Festival di Pesaro.

Il killeraggio, sfrontato e pregiudiziale, nei confronti di Juan Diego Flórez, era cominciato, pensate un po’, addirittura un anno fa, in chiusura del ROF 2008.
Si ipotizzava tramite inventati e capziosi relata refero che non partecipasse alla Zelmira di quest’anno.
Il metodo parafascista, quello del venticello della calunnia, così cara a Rossini, è continuato anche alla vigilia della prima: “si dice che”, “mi risulta che” e giù illazioni, inesattezze, trombonate, puntualmente smentite dai fatti e da chi non fa pettegolezzo ma lavora seriamente nell’ambiente. Ovviamente non succede mai che qualcuno faccia poi ammenda e affermi: “Sono un coglionazzo, scusatemi!”
Il massimo si è raggiunto poi nei giorni immediatamente precedenti alla prima di ieri sera, quando un famigerato sito-blog nel presentare l’opera descriveva le caratteristiche che non dovrebbe avere un tenore che affronta il ruolo di Ilo che, guarda caso, coincidevano con le peculiarità che hanno reso giustamente famoso in tutto il mondo Juan Diego Flórez.
Siccome ho promesso di usare il neologismo cacabisi, ecco che me ne se presenta l’opportunità (strasmile).
Una volta di più, con una prestazione che mi limiterò a definire eccellente, il tenore peruviano ha infranto con i fatti i desideri, palesi a chiunque non sia in malafede, di un manipolo di reazionari storditi.
Bene, ora passiamo ai fatti, con le consuete avvertenze e cioè che l’ascolto radiofonico pregiudica la valutazione di molti parametri fondamentali: proiezione del suono e bilanciamento tra orchestra, coro e cantanti, sono quelli più rilevanti.
La direzione di Roberto Abbado non mi ha convinto, pur senza suscitare particolari reprimende. Mi è parso che spesso abbia confuso l’afflato drammatico con il clangore e la fretta, mentre in altre occasioni la direzione indugiava troppo nel cercare effetti suggestivi . Ne è uscita un’interpretazione piuttosto monocorde di una partitura che ha tantissimi tesori nascosti: il finale primo, il duettino Emma-Zelmira, solo per citarne i primi che mi sovvengono. Si sa che la prima è la vera prova generale, e quindi il rendimento complessivo probabilmente migliorerà nelle prossime recite.
L’amata (da me eh?) Kate Aldrich era Zelmira, e nonostante la parte non sia molto acuta proprio negli acuti il mezzosoprano è sembrata in difficoltà, ghermendone alcuni e strillandone un po’ altri. Più fastidiosa la circostanza che non abbia trovato, almeno a mio parere, l’accento giusto ed abbia uniformato la sua interpretazione a un generico tono piagnucolante, che non s’addice a una donna sì maltrattata ingiustamente, ma fiera ed orgogliosa.
Dice: “Ma parli male di una tua beniamina di cui hai detto benissimo in altre occasioni???”
Sì, dove sta il problema?
Gregory Kunde, altro artista che ammiro moltissimo, era alle prese con un ruolo di difficoltà terrificante. La vocalità del baritenore non gli appartiene come natura, però la sua prestazione è stata molto buona. Qualche suono gutturale nel registro grave si è sentito, così come anche qualche acuto era evidentemente forzato. L’accento però è stato pertinente e il personaggio del “cattivo”, legato storicamente alla vocalità di Andrea Nozzari, esce forte e chiaro.
Juan Diego Flórez si è bevuto con facilità tutte le note impressionanti della sua parte, da questo punto di vista è davvero un fenomeno più unico che raro, e sottolineo, io ne sono un estimatore moderato. Inoltre mi pare di poter affermare che la voce stia acquisendo una maggiore rotondità, circostanza che attutisce quella sensazione, qualche volta stucchevole, di ascoltare un ragazzino spensierato quando invece l’azione è drammatica. Tra l’altro anche altri due difetti, il canto leggermente nasaleggiante e il vibrato stretto, mi sono sembrati decisamente attenuati, ieri sera. A Flórez spettava il ruolo di “buono”, e qui andiamo a ricordarci di Giovanni David.
Bravissima, nonostante una piccola imprecisione nel finale della sua aria, Marianna Pizzolato nel ruolo di Emma. Spesso ho rimpianto che non fosse affidata a lei la parte della protagonista, soprattutto perché l’accento mi è sembrato più vigoroso, meno lagnoso della collega Aldrich.
Mirco Palazzi e Alex Esposito, rispettivamente Leucippo e Polidoro, hanno cantato complessivamente bene, seppure in alcune occasioni si siano lasciati tentare da qualche accento verista.
Sufficiente il rendimento dei comprimari Francesco Brito (Eacide) e Savio Sperandio (Gran Sacerdote).
L’orchestra ha suonato bene e credo sia giusto evidenziarlo, soprattutto dopo gli svarioni dei colleghi di Bayreuth segnalati nelle settimane scorse. Bene anche il Coro, sicuramente penalizzato dalla trasmissione radiofonica per i soliti motivi di microfonazione.
Non so dire nulla della regia, che nonostante il parere favorevole di mamikazen espresso nei commenti al post precedente, ha raccolto gli unici “buu” e fischi di una serata che il pubblico presente in sala ha gradito moltissimo.
Buona settimana a tutti, cacabisi compresi (smile).
 

Rossini Opera Festival: il via con Zelmira domenica 9 agosto.

Quest’anno ricorre il trentennale del Rossini Opera Festival, una delle manifestazioni culturali italiane dedicate all’opera lirica più meritevoli, dati alla mano. Opere riscoperte e grandissimi interpreti portati alla ribalta, quasi mitizzati.
Anche questa vetrina del canto rossiniano è stata colpita dai tagli al Fondo Unico dello Spettacolo e quindi non ci saranno festeggiamenti particolari, anzi, si può affermare che si tratterà di un’edizione forzatamente in tono minore.
I titoli proposti quest’anno sono interessanti: Zelmira, La scala di seta, Le Comte Ory. Inoltre appaiono in programma concerti di canto e la Petite Messe Solennelle, oltre al consueto Viaggio a Reims interpretato da giovani artisti.
Dal mio punto di vista quest’anno il Rossini Opera Festival ha la sua maggiore attrattiva nella riproposta di Zelmira, opera che aprirà la manifestazione domenica 9 agosto, e che si potrà seguire in diretta su RADIO3 dalle ore 20. Ricordo che il ROF ha il grande merito di aver rilanciato il Rossini serio, quindi proprio in quest’ottica mi pare che Zelmira sia particolarmente interessante.
Molto spesso parlando di quest’opera si commette l’errore di considerare quasi esclusivamente la parte della protagonista, dimenticando che il lavoro di Rossini prevede altri ruoli di difficoltà folle. Quest’anno la presenza, quale Ilo, del grandissimo Juan Diego Flórez, rischia di ribaltare il problema, tanto è fervida l’attesa per la prestazione del tenore! Ma andiamo con ordine.
Il libretto di Andrea Leone Tottola, tratto dalla tragedia francese Zelmire di Dormont de Belloy alias Pierre-Laurent Buyrette, è molto confuso e contraddittorio. A stigmattizzarne la sostanziale incongruità, basti questo feroce epigramma, riferita al librettista stesso:
 
Fu di libretto autor, chiamossi Tottola,
un aquila non fu, anzi fu nottola.
(strasmile)
 
Insomma, diciamo che Tottola fu più convincente, in altre occasioni, anche per lo stesso Rossini.
Per tornare alla protagonista, Zelmira, è vero che la parte della figlia del Re di Lesbo fu scritta per la celeberrima Isabella Colbran,
e questa circostanza giustifica, in qualche modo, l’identificazione tra la futura moglie di Rossini (i due si sposarono un mese dopo il debutto in un paesino vicino a Bologna, sulla via di Vienna) e l’opera stessa. Una Colbran che le cronache dell’epoca definiscono declinante, tra l’altro, ma pur sempre una fuoriclasse.
Questo dramma per musica in due atti, scritto per la stagione di Carnevale, debuttò al San Carlo di Napoli il 16 febbraio 1822 e giova ricordare che fu l’ultima opera scritta da Rossini nello straordinario periodo napoletano, dal 1815 in poi, appunto. Si sarebbe trasferito poi a Vienna e Zelmira avrebbe dovuto fare da trampolino di lancio nelle intenzioni dello stesso Rossini e dell’impresario Barbaja per il famoso compositore (Zelmira poi debuttò a Vienna il 13 aprile).
Nel corso degli anni la critica ha molto dibattuto sul valore intrinseco del lavoro, soffermandosi spesso come sopra accennato, sul libretto che in effetti risulta abbastanza nebuloso, soprattutto perché la vicenda comincia in medias res e presuppone almeno un minimo di conoscenza di ciò che è successo prima che s’alzi il sipario.
Dicevo all’inizio della necessità che oltre a una primadonna l’opera abbia bisogno che anche gli altri cantanti siano di gran livello e basta scorrere il cast del debutto per rendersene conto.
La parte di Antenore fu affidata a Andrea Nozzari, per il quale Rossini ha scritto ruoli pazzeschi come il Pirro dell’Ermione, prototipo di quella figura leggendaria che si chiama baritenore, il Minotauro dei cantanti (smile). Scrittura centrale con escursioni svettanti in acuto.
Ilo all’esordio fu un altro monumento tenorile, cioè Giovanni David,
un artista che fu criticato addirittura perché infiorettava troppo di acuti e sovracuti i suoi ruoli, figuriamoci!
Quindi il trio d’artisti principali è così assortito: una primadonna soprano con marcati tratti quasi mezzosopranili (o viceversa?), un tenore dalla voce scura che svetta negli acuti e un tenore contraltino. Basta vero?
A questi s’aggiunsero il basso Antonio Ambrogi (Polidoro), l’altro basso Michele Benedetti (Leucippo)e il mezzosoprano Teresa Cecconi (Emma).
L’opera, nel corso degli anni e segnatamente come si usava a quei tempi, tenendo conto dei cantanti a disposizione, fu spesso se non rimaneggiata, almeno parzialmente rielaborata in alcuni passi.
La versione che si allestisce al ROF dovrebbe essere quella che debuttò a Parigi nel 1826, con un finale scritto per soddisfare le esigenze di Giuditta Pasta (le cui caratteristiche si differenziavano di molto dalla Colbran) e Giovan Battista Rubini. Se ho capito bene, in questa forma non è mai stata eseguita né incisa, ma se qualcuno più ferrato di me in questo campo può essere più preciso, ben venga. Dovrebbero comparire quindi sia l’aria scritta per il contralto Fanny Eckerlin (Emma, confidente di Zelmira) “Ciel pietoso, ciel clemente” sia l’aria per il soprano Giuditta Pasta (“Da te spero, o ciel clemente”) scritta per l’esordio londinese del 1824.
Il cast proposto al ROF è, sulla carta, molto ben amalgamato. Oltre a Juan Diego Flórez nel ruolo di Ilo, prevede Kate Aldrich (un’artista per la quale stravedo, qui sotto nella trionfale Adalgisa nella Norma bolognese di un anno fa)

Kate Aldrich

quale Zelmira, un altro mio beniamino, il tenore Gregory Kunde nei panni di Antenore e la bravissima Marianna Pizzolato in quelli di Emma. Completano la compagnia di canto Alex Esposito (Polidoro), Mirco Palazzi (Leucippo) e nei ruoli minori Francisco Brito (Eacide) e Savio Sperandio (Gran Sacerdote). Sul podio Roberto Abbado e segnalo la presenza del Coro del Comunale di Bologna, preparato da Paolo Vero.
Prevedo discussioni animatissime tra gli appassionati, io mi limiterò alla solita recensione semiseria, nella quale, lo dico ora, non troverete traccia della trama, assolutamente impossibile da riassumere.
A presto, ciao a tutti.

Recensione sintetica e infastidita della Götterdämmerung al Festival di Bayreuth 2009.

Sabato scorso, al Festival di Bayreuth, è andata in scena l’ultima giornata del Ring wagneriano, e cioè la Götterdämmerung.
Insomma.
Nonostante la prestazione eccellente di Hans Peter König quale Hagen (di gran lunga il migliore del momento in questa parte, e sicuramente degno di essere considerato interprete di riferimento come già sottolineai dopo Firenze) mi tocca scrivere una nuova breve recensione infastidita, perché davvero i suoi compagni di cordata non hanno cantato bene, con l’eccezione di Christa Meyer nei panni della sorella ansiogena di Brünnhilde, Waltraute.
Niente più che accettabile la prova delle Norne, così come sufficiente si può definire il rendimento delle Ondine e positivo, soprattutto perché ha limitato le gigionate, è stato anche Andrew Shore nella sua caratterizzazione del malvagio Alberich.
Anche i due simpaticoni Gunther e Gutrune, rispettivamente Ralf Lukas e Edith Haller, sono sembrati corretti.
Ecco, nel momento in cui si passa alla valutazione delle prove di Siegfried e Brünnhilde, gli aggettivi divengono quasi per magia meno impersonali e più pregnanti.
Christian Franz ha urlato in modo insopportabile per quasi tutta l’opera, poi, evidentemente stremato, si è limitato a cantare male. Sono troppo severo? No, perché non è possibile che oggi, a Bayreuth, non si trovi di meglio che questo tenore impresentabile. Rivaluto in pieno il canto monocorde e muscolare del Siegfried di Venezia, Stefan Vinke, del quale avevo detto male a suo tempo.
Certo, Linda Watson non mi ha fatto rimpiangere l’altra Brünnhilde di Venezia, Jayne Casselman

Brünnhilde1

(qui ritratta nel finale dello splendido allestimento di Robert Carsen), ma non credo possa essere esattamente un reale merito. La Watson è stata soddisfacente solo nel finale, quando ha trovato persino qualche accento pertinente al momento (che è a dir poco grandioso e commovente). Ma nelle quattro ore precedenti il soprano sembrava impegnata nella descrizione del catalogo di ciò che non deve fare un’artista in Wagner: un continuo canto improntato all’isteria, forse scambiato per il nobile declamato, urla varie e note calanti di brutto. Impietoso, a questo proposito, il confronto nel duetto con la brava Waltraute.
Sul direttore Christian Thielemann ho un’idea precisa e cioè che la sua interpretazione in questo Ring, già quasi unanimemente considerata ottima, sarà rivalutata ulteriormente negli anni a venire, quando si sopiranno invidie, gossip e ciarlatanate varie nei suoi confronti.
Per onestà chiudo sottolineando che questa Götterdämmerung l’ho sentita registrata e non in diretta, quindi forse con un’attenzione maggiore, riascoltando di tanto in tanto i passi che mi sembravano più controversi. Di conseguenza, le mie opinioni sono da prendere con le molle più del solito, in quanto inficiate da eccesso colposo di ricerca del pelo nell’uovo (smile).
Auguro a tutti una buona settimana, salto, con ogni probabilità, la recensione del Parsifal di ieri (ho sentito un Daniele Gatti tonico e, soprattutto, un ottimo Christopher Ventris), a presto.
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