Ora, abbiamo acquistato il nostro compact disc e ne siamo soddisfatti, ma cosa abbiamo comprato?
Acquistando una registrazione ufficiale in studio, nella stragrande maggioranza dei casi (ma anche qui ci sono eccezioni) avremo un prodotto finito di buona qualità, che soddisfa almeno tre degli elementi principali: il rispetto della musica del Compositore e dei versi del librettista, e spesso (non sempre!) una prestazione immacolata dei cantanti; non ci preoccupiamo della recitazione scenica, e lasciamo correre la fantasia in merito all’ambientazione (ed è questa circostanza che mi fa preferire, in linea generale, che il primo approccio alla lirica sia veicolato dal compact, invece che dal DVD, la sensazione di sentirsi, in qualche modo, protagonisti dell’opera).
Attenzione però, perché abbiamo speso i nostri soldi per un oggetto che ci soddisfa, ma che è preconfezionato, mondato da difetti, da incertezze dei cantanti, da improvvisi ed incontrollati clangori dell’orchestra e così via. La perfezione in teatro non esiste né mai esisterà.
Se leggiamo con attenzione la copertina del compact notiamo che in caratteri piccoli, come nelle avvertenze per l’uso dei farmaci, c’è scritto che la registrazione è durata, ad esempio, sei mesi (ma possono essere anni!). Quindi, per restare all’Otello, le due ore d’opera hanno richiesto sei mesi di lavoro.
Perché?
Perché i cantanti nel frattempo devono mantenere i loro impegni nei teatri, e così i direttori d’orchestra; non è raro inoltre che tra i protagonisti ci sia rivalità professionale, perciò il soprano registra la sua parte di un duetto d’amore, mentre il tenore dà il suo contributo basandosi sulla prestazione della compagna e magari cercando di tenere un acuto quel secondo di più che soddisfa il suo ego smisurato.
Una specie di karaoke ai massimi livelli.
Un caso tra i tanti: nella registrazione di una delle più belle “Turandot”, quella della EMI, i protagonisti Birgitt Nilsson e Franco Corelli erano fieri nemici, o se preferite, tendevano a cercare di prevalere l’uno sull’altra, quindi registrarono i duetti a mesi di distanza.
Nulla a che fare con una recita dal vivo, in teatro.
Oggi, la tecnologia digitale potrebbe trasformare la mia voce roca da tabagista in quella di un soprano di coloratura e lo star system operistico ne approfitta.
Faccio alcuni esempi legati a nomi molto noti, e cioè i famosi “tre tenori”.
Spegniamo gli entusiasmi anche sui dischi ufficiali live, che magari sono comunemente ritenuti specchio fedele di una recita in teatro. Anche in questo caso è pura illusione e uno dei casi più classici è l’Otello della Decca interpretato da Luciano Pavarotti, risultato di un collage di alcune recite negli Stati Uniti.
Qualche tempo fa un lettore che lavora per la Dynamic confermò proprio qui, tra i commenti, che dopo aver registrato una o più serate si passa ad un attento editing in sala d’incisione. Il lettore, tra l’altro, parlava per le recite registrate su DVD.
Un altro divo celeberrimo, Placido Domingo, ha inciso per la Deutsche Grammophon
un disco di famose Arie d’Opera che è clamorosamente taroccato, tanto che un ascoltatore smaliziato s’accorge immediatamente di come, ad esempio, il SI bemolle che chiude “Celeste Aida” è prolungato al limite del ridicolo [ed anche oltre, per chi sa quanto siano sempre stati problematici gli acuti per il Topone, così lo chiamano i suoi fan (strasmile)]. Eccolo qui sotto a destra, in versione Simpsons.

Anche Josè Carreras registrò una “Tosca” lasciando in sospeso gli acuti, e riprendendoli poi in momenti di forma migliore, complice un perfetto lavoro di copia e incolla effettuato nello studio di registrazione.
Addirittura, e questo è un caso frequentissimo, specie tra i tenori, molte opere sono state sì registrate in disco, ma mai affrontate in Teatro!
Arriviamo anche al caso limite in cui un cantante, ormai allo stremo delle forze, si fa prestare gli acuti da qualche collega emergente meno famoso e compiacente.
Il caso più eclatante, forse, fu quello di una celeberrima cantante wagneriana, (Kirsten Flagstadt, che si fece prestare gli acuti da Elisabeth Schwarzkopf, nel 1956), ma ha sollevato scalpore anche la pretesa di Riccardo Muti (o della moglie, vera Lady Macbeth, non si è mai saputo con certezza ) di costringere il tenore Alfredo Kraus ad accomodare con l’aiuto della tecnologia un FA sovracuto, nota che l’ottimo tenore non aveva nelle sue corde, nei Puritani di Bellini: Kraus si rifiutò, molto onestamente, ma i due artisti, dopo quell’episodio spiacevole non collaborarono mai più. Che sia leggenda? Boh, così si mormora, almeno.
Tornando ai DVD, che soddisfano anche la vista, e quindi ci consentono d’apprezzare l’ambientazione e la recitazione, il discorso è molto simile: il prodotto messo in commercio è il risultato di un sapiente lavoro di editing in recite diverse, una specie di highlights di serate in cui si andava in scena.
Prova ne sono i frequenti stacchi da primissimi piani a campi lunghi, che hanno come unico scopo l’inserimento non troppo traumatico delle scene soddisfacenti e il contemporaneo e definitivo accantonamento dei momenti meno riusciti. Certo, centra anche la cosiddetta regia televisiva, di cui abbiamo già parlato nei commenti al post precedente.
Anche qui un esempio: la Scala di Milano aprì la stagione 1992/93 con il Don Carlo di Verdi, con Luciano Pavarotti nel ruolo del titolo,
in una serata che rimarrà famosa per la famigerata
goccia di muco che sporcò il SI naturale di Lucianone nella scena dell’autodafé; ebbene, se comprate il DVD in commercio, di quella stecca (ma io la considero una sbavatura, più che una stecca vera e propria) non c’è più traccia. Al di là di quest’incidente, quella produzione, con l’unica eccezione di una discreta
Daniela Dessì, fu davvero pessima
in toto e questo il DVD non può nasconderlo!
Allora, il mio consiglio è questo: scegliete uno di questi media solo se siete impossibilitati a frequentare un teatro, perché nulla può sostituire il momento magico, emozionante, carico di tensione, che va dall’ascoltare i professori d’orchestra che ripassano alcune frasi della propria partitura, al silenzio rotto dai colpi di tosse soffocati del pubblico, che precede l’alzarsi del sipario.
“Il luogo comune: un interprete deve «incidere», perché il disco resta. Ripeto: che cosa resta? Il prodotto di un frammentarismo tecnico, che i discomani e i discocriptomani, o i filodiscologi passeranno alla microlente per giudicare, prima, i concetti interpretativi, il clima, lo stile, la lettura — nuova o stantìa –, poi i capillorganismi esecutivi: la singola nota, il microfraseggio, i rapporti sonori, la coloratura neobelcantistica, tentando ogni volta l’assurdo metodo critico centrato sulla mezza battuta, la semiminima, la croma, ecc. Minuziose storture pseudo-estetiche, dove il senso di una storia e di un linguaggio di un’opera viene frantumato mercé lo sbriciolamento discorsivo […] perfezionismo asettico, dunque; campioni nei vetrini.”
Chiaro no? Beh, se poi trasferiamo questa perversione all’ascolto in teatro, allora siamo da manicomio e quindi pronti ad aprire un blog che si occupa di recensioni operistiche (strasmile).
Ciao a tutti.
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