Questa incisione dei Pagliacci è del 1954, quindi solo di un anno successiva alla Cavalleria della quale ho parlato
nel post precedente. Eppure, in un certo senso, sembra che di anni ne siano passati molti di più.
Dov’è il problema, vi chiederete (me le faccio e me le dico, mi rendo conto)?
In questa registrazione il problema ha un nome e un cognome: Giuseppe Di Stefano.
Il tenore firma una delle sue peggiori incisioni (purtroppo ce ne sono altre ancora più fastidiose), e qui non posso che concordare con Celletti e Giudici.
Di Stefano sostanzialmente urla dall’inizio alla fine, e canta mai o quasi mai, preso da un furore incontenibile che può soddisfare, oggi come allora, solo chi concepisce la lirica come un esercizio muscolare fine se stesso.
Gli acuti sono veementi ma forzatissimi e vetrosi, e in molte occasioni anche la dizione, da sempre una qualità indiscutibile del tenore, diventa un optional: le consonanti si trasformano nella rampa di lancio dalla quale sparare gli acuti, per cui anche le esigenze del fraseggio e della musicalità ne rimangono intaccate.
Resta solo la pertinenza di un accento genericamente vigoroso che comunica solo rabbia anche nei momenti in cui non è necessario.
Un Canio da dimenticare, assolutamente, soprattutto perché lo stesso Di Stefano, in altre occasioni, fu molto più convincente o addirittura magistrale.
Maria Callas, invece, scolpisce un personaggio memorabile, a mio parere. E tenete presente che questa parte (Nedda) non fu mai affrontata a teatro.

Il momento più esaltante è proprio la Ballata, perché il soprano riesce a farci sentire quella fanciulla ancora piena di speranze che c’è dietro alla sfortunata compagna di un guitto ubriacone e violento.
Qui, in questo ruolo difficilissimo e sottovalutato (come troppo spesso accade per il verismo, considerato una musica diversamente lirica) , la Callas ci lascia un’interpretazione che è una vera e propria pietra miliare del Belcanto.
Al top anche Rolando Panerai (Silvio), baritono, che canta con dolcezza mozartiana il suo ruolo d’innamorato sfortunatissimo.
C’è poi
Tito Gobbi, un altro cantante mitico che non mi ha mai convinto troppo, ma che qui canta davvero bene, senza eccedere in gigionate come spesso gli succedeva, e facendo valere un accento e un fraseggio da fuoriclasse. Il suo Prologo è eccellente, anche se io non riesco a togliermi dalla mente le mirabilie

che in questo pezzo farà Giuseppe Taddei con Herbert von Karajan sul podio, una decina d’anni più tardi.
La concertazione di Tullio Serafin è sulla falsariga di quella della Cavalleria Rusticana: maestosa e teatralissima, attenta ai particolari. L’introduzione al Prologo, l’Intermezzo, l’accompagnamento alla celebre aria di Canio sono momenti magici.
Anche in questa registrazione, come nella precedente di Cavalleria, Serafin dirige l’Orchestra e il Coro della Scala: semplicemente straordinari per bellezza di suono e compattezza.
Comunque, al di là di tutto, questo è un altro disco che non può mancare nella collezione di un melomane, questo è poco ma sicuro.
Per chi ha voglia d’ascoltare, ecco qui Maria Callas nella Ballata di Nedda: sentite come con la voce illumina di gioia e speranza tutto il pezzo, come si percepisce il desiderio di una vita diversa.
NEDDA
(pensierosa)
Qual fiamma avea nel guardo!
Gli occhi abbassai per tema ch'ei leggesse
il mio pensier segreto!
Oh! s'ei mi sorprendesse…
bruttale come egli è!
Ma basti, orvia.
Son questi sogni paurosi e fole!
O che bel sole di mezz'agosto!
Io son piena di vita,
e, tutta illanguidita per arcano desìo,
non so che bramo!
guardando in cielo
Oh! che volo d'augelli,
e quante strida!
Che chiedon? dove van? chissà!
La mamma mia, che la buona ventura annunziava,
comprendeva il lor canto
e a me bambina così cantava:
Hui! Hui!
Stridono lassù, liberamente
lanciati a vol, a vol come frecce, gli augel.
Disfidano le nubi e'l sol cocente,
e vanno, e vanno per le vie del ciel.
Lasciateli vagar per l'atmosfera,
questi assetati d'azzurro e di splendor:
seguono anch'essi un sogno, una chimera,
e vanno, e vanno fra le nubi d'or!
Che incalzi il vento e latri la tempesta,
con l'ali aperte san tutto sfidar;
la pioggia i lampi, nulla mai li arresta,
e vanno, e vanno sugli abissi e i mar.
Vanno laggiù verso un paese strano
che sognan forse e che cercano in van.
Ma i boèmi del ciel, seguon l'arcano poter
che li sospinge… e van! e van! e van! e van!
Un saluto a tutti.
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