L’orrida Venezia è sempre bella, solo la città lagunare può offrire scorci malinconici come questo qui sotto.
Sono bei momenti, perché i sensi si risvegliano in simili occasioni, ti pare quasi di percepire l’effluvio di centinaia di anni di pensiero, di Arte, di raccoglimento.
Capisci in un attimo che il cerchio sta per chiudersi e che non può che arrivare Brunetta come sindaco (strasmile).
Ma veniamo all’esito della recita pomeridiana di domenica.

L’offesa più grave che può fare un regista a un compositore non è ideare un allestimento strampalato o incongruente col libretto, ma contraddire l’essenza della musica scritta, mortificare la creatività del musicista.
Sulla genesi della Manon Lescaut di Puccini si sono scritti fiumi di parole e io non starò certo qui a far tracimare gli argini di questi corsi di liquido ingegno (scusate, non so che m’abbia preso oggi).
Non credo sia un caso peraltro che tutti gli studiosi seri, chi più chi meno, considerino la terza opera del lucchese come affine al Wagner del Tristan e alla musica di Richard in generale.
I leitmotiv, il tentativo di superare la gabbia dorata del pezzo chiuso, la fluidità sinfonica dell’ispirazione musicale ne sono testimonianza. Insomma, continuità nell’azione drammaturgica.
E quindi, per default, mi verrebbe da scrivere, una concezione registica che preveda cambi scena di dieci minuti e un intervallo di tre quarti d’ora (e mi dicono che è un risultato ottenuto grazie alla bravura delle maestranze della Fenice, perché alla prima la sosta era di oltre 50 minuti) è già sbagliata dal punto di vista intellettuale.
Se poi il regista,
Graham Vick,

di cui ho spesso apprezzato il lavoro, dà i numeri, allora siamo alla baracconata di regime, all’ostentazione del nulla, alla masturbazione intellettuale. Insomma, la citazione della cagata pazzesca di fantozziana memoria è inevitabile, soprattutto per chi come me ha una cultura limitata e una mentalità gretta, meschina, codina e reazionaria.
Non mi pare che il teatro lirico oggi abbia bisogno di queste alzate d’ingegno che, tra l’altro, sono pure costosissime. Non sono questi i momenti per scialare i soldini delle fondazioni liriche (che poi sono i nostri eh?).
C’è di buono che le scenografie e i costumi, firmate rispettivamente da Andrew Hays e Kimm Kovac, fanno scompisciare dalle risate, specialmente nel primo e nel terzo atto.
L’inizio assomigliava a un film soft porno, non per nudità esibite, ma per ambientazione.
Gli studenti scemi (in calzoni corti i maschietti e gonnellina, calzettoni e ciuccetti le femminucce) scrivono “amore” sulla lavagna; poi entra lo studente ripetente (il cavaliere Des Grieux) e subito dopo la bellona (Manon Lescaut). Il fratello ruffiano (Lescaut) e il vecchio porco (Geronte) ci sono già anche nel libretto originale.
“La liceale nella classe dei ripetenti”, appunto. C’è pure una citazione di Cicciolina, con l’orsacchiotto di pelouche rosa (insomma, si fa per dire, sarà stato alto tre metri) e l’omaggio alla cultura psichedelica fine anni 60 (volano cigni di dimensioni spropositate, che per fortuna non sono diarroici o incontinenti, è già una cosa).
Vabbè.
Nel secondo atto la nostra Manon vive nel lusso e, ideona che forse vorrebbe evidenziare la modernità dell’opera, si fa i tatuaggi e il suo tatuatore sniffa cocaina. Minchia, averci pensato io.
Nella scena del minuetto il maestro di ballo è trasformato in fotografo di moda: banale e scontato, per non parlare delle contraddizioni con il testo.

Nel terzo atto le prostitute stanno appese ingabbiate come lampadari e man mano che sono nominate (sono undici, Manon compresa: Rosetta, Madelon, Ninetta, Caton, Regina, Claretta, Violetta, Nerina, Elisa, Ninon e Giorgetta) vengono calate sul ponte e alcuni loschi figuri con il giubbotto dell’Anas le disimpegnano dai lucchetti. Una non ci riesce, povera, e resta ingabbiata, speriamo che l’abbiano liberata in serata.
Il quarto atto, che si svolge nel deserto, è quasi normale. Bella forza, siamo nel deserto, che doveva inventarsi il regista?
Inoltre, senza che ci sia alcuna motivazione, ogni tanto qualcuno del Coro doveva lanciare stelle filanti sul palcoscenico. Forse perché siamo a Carnevale?
Cosa si scrive quando le luci sono infamia e senza lode? Che sono suggestive. Ecco. Le luci di Giuseppe Di Iorio erano suggestive.
La coreografia di Ron Howell? Boh, io non l’ho notata, ma magari c’era e ho rimosso.
In tutto questo c’era un direttore, Renato Palumbo, alla guida di un’ottima Orchestra della Fenice.
Direzione così così. Magniloquente e retorica, fredda e metallica, gelida nello splendido Intermezzo. Clangorosa, anche, in qualche occasione.
L’attrazione della serata era il soprano Martina Serafin, che ascoltavo dal vivo per la prima volta e della quale mi era stato detto un gran bene.
Beh, non le manca il volume, questo è certo, è una voce importante. Però ha cantato tutto forte o mezzoforte perciò non ho sentito né una ragazzina innamorata né una tentatrice capricciosa né tantomeno una donna disperata, ma solo una ragazzona ansiosa. Una lettura troppo superficiale, parzialmente riscattata da una buona esecuzione dell’aria dei gioielli.
Gli acuti inoltre non mi sono sembrati facilissimi e un paio erano pure calanti. La voce non ha particolari attrattive timbriche e spesso suona aspra e segaligna.
Insomma, non mi è parsa un portento ma, almeno ieri, solo un’onesta cantante con una buona propensione ai ruoli drammatici, più per tonnellaggio vocale che altro.
Dal punto di vista scenico non saprei che dire, anche perché conciata da ragazzina con i calzettoni, lei che è una signora bella grande, non credo si sentisse a proprio agio.
Voglio dire, una Manon Lescaut che non seduce né con la voce né con la recitazione, il fraseggio, non può considerarsi riuscita.
Walter Fraccaro era Des Grieux e si sa che da questo tenore non ci si possono aspettare troppe nuances interpretative, visto che punta sempre ad un approccio muscolare e monolitico al personaggio, sia che impersoni Radames sia che affronti un Cavaradossi.
Ieri però mi è sembrato in cattiva giornata, perché la voce, di per sé abbastanza voluminosa, usciva come ovattata e gli acuti parevano forzatissimi. Molta fatica si è percepita già nella prima aria, Tra voi belle, brune e bionde, in cui la gestione pessima dei fiati ha compromesso la buona riuscita della sortita. La parte ruota tutta sulla cosiddetta “zona di passaggio” ed è molto impegnativa, bisogna sottolinearlo, per cui anche un si bemolle pesa parecchio, un po’ come nell’Otello verdiano che sembra che il tenore canti qui al Verdi di Trieste tra un paio di mesi (non voglio fare la Cassandra, ma insomma…speriamo bene).
È mancato l’approccio amoroso, il turbamento dei sensi e della mente che porta alla perdizione e alla fine alla rovina.
Il baritono Dimitris Tiliakos, in una parte sfuggente e di difficile lettura psicologica, si è limitato al compitino appalesando una voce esile, secca e poverissima di armonici. Gli riconosco una buona presenza scenica e una generica correttezza vocale.
Alessandro Guerzoni era Geronte di Ravoir e non mi è dispiaciuto almeno perché era abbastanza sonoro e non ha accentuato il lato volgare di un personaggio già fastidioso di suo.
Il tenore Saverio Fiore, impegnato sia come Edmondo sia come Lampionaio non ha demeritato.
Bene il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti e dignitosi tutti i comprimari: Gionata Marton (Oste), Anna Malavasi (Musico), Stefano Consolini (Maestro di ballo), Carlo Agostini (Sergente), Salvatore Giacalone (Comandante) e i quattro Musici (Nicoletta Andeliero, Emanuela Conti, Gabriella Pellos, Francesca Poropat).
Il pubblico ha accolto bene tutta la compagnia di canto, regalando ovazioni a Martina Serafin e Walter Fraccaro.
Non ci sono state contestazioni al regista, com’è successo alla prima di venerdì scorso, ma comunque Graham Vick o non c’era o se c’era dormiva, come avrebbe fatto bene a fare anche quando gli proposero di allestire questa Manon Lescaut.
Cena leggera e un bel sonno ristoratore e sereno, così magari il riposo non è disturbato da incubi popolati da cigni rosa giganti e orsacchiotti grandi come Tirannosauri (stramile).
Buona settimana a tutti e un saluto a Adalberto e Ilaria.
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