Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: novembre 2010

Die Walküre di Richard Wagner apre la stagione alla Scala di Milano: prima incursione semiseria.

Purtroppo, in tema con il post perché è stato il Siegmund di uno dei Ring più memorabili e controversi, ho saputo ora che è morto il tenore Peter Hofmann.
Il Ring al quale mi riferisco è quello celeberrimo diretto da Pierre Boulez per la regia di Patrice Chéreau.
Vi propongo qui la scena dell'agnizione da Die Walküre, nella quale Hofmann è affiancato da Jeannine Altmeyer (Sieglinde) e Gwyneth Jones (Brunnhilde).

Dunque, devo aggiungere un’altra persona alla quale la Forza di Firenze ha portato sfiga: me stesso.

Fatale l’ascolto dell’opera e una contemporanea discussione sul blog di Milady (al quale però accedono solo pochi privilegiati), nella quale si dissertava di ruiòn, cinciùt,ruitòn, scagòt, cagòn e sbrenzòtt.
Vi risparmio i particolari più sordidi e inquietanti e so che me ne sarete grati (smile).
Il fatto è che il 7 dicembre la Scala inaugura la stagione con Die Walküre e io volevo scrivere qualcosa per l’occasione, nonostante non sia propriamente in forma.
Avevo pensato di lanciarmi in un post semiserio per ogni personaggio ma non so se ce la faccio, perciò intanto ripiego con un piccolo bignamino del primo atto e poi vediamo, ché qua la situazione è, come dire, liquidamente confusa.
Nel primo atto agiscono tre personaggi: Siegmund, Sieglinde e Hunding.
Intanto chi è questo Siegmund? Da dove viene? Cosa mi rappresenta?
Siegmund è uno dei figli di Wotan, un dio che, evidentemente, non sapeva tenere his deal nei calzoni, perché ovunque nel Ring ci sono figli e nipoti suoi che combinano casini (smile).

Anche le Valchirie sono figlie sue, per esempio.
Voglio dire, facile che poi la moglie di Wotan, Fricka, sia piuttosto acida e fastidiosa no?
Dunque, dicevo di Siegmund che, trattandosi di giovane ardimentoso e fiero, non può essere che tenore. Una parte di tenore, ancora una volta, estremamente difficile seppure la nota più alta che deve cantare sia un la naturale (la3, scrivono alcuni).
Il fatto è che codesta nota, alla fine del primo atto (scritta sulla ä della grande frase Braut und Schwester bist du dem Bruder so blühe denn, Wälsungen-Blut!*), dopo un lunghissimo duetto con Sieglinde, pesa come un macigno e in molti ci hanno lasciato le penne.
La tessitura della parte di Siegmund è centrale e batte interamente sulla zona di passaggio (fa/fa diesis/sol) che è notoriamente faticosa e impervia, soprattutto se ci devi cantare per un’ora abbondante sopra.
Ma lasciamo da parte i tecnicismi che spesso risultano stucchevoli e torniamo al nostro eroe, che entra in scena subito preceduto da note che comunicano benissimo ansia e concitazione.
Il piccolo Siegmund ha fatto una vitaccia perché il papà l’ha portato in giro per il mondo, l’ha temprato e poi l’ha mollato da solo nel mezzo di un grosso casino. Il lato positivo è che il paparino gli ha promesso una spada invincibile al momento giusto.
E qui, volendo, si può far entrare in gioco la sorella di Siegmund, Sieglinde. Una sorella gemella che non vede da tanto tempo.
Perché, chiederete voi? Perché proprio a casa di Sieglinde c’è un frassino nel quale uno strano tipo (sempre il paparino, sotto mentite spoglie) ha piantato una spada, che è proprio quella promessa a Siegmund.
Solo che Sieglinde, soprano, è suo malgrado sposata con un tipaccio, Hunding (basso), che è proprio uno dei nemici di Siegmund. Facile prevedere complicazioni, no?
Insomma, Siegmund fuggitivo capita in casa di Sieglinde che decide d’aiutare il giovane baldanzoso, anche drogando il marito.
E insomma da cosa nasce cosa, i due un po’ alla volta si riconoscono e pensano bene di andare a letto insieme, dopo che Siegmund ha estratto dal frassino la spada (e vi prego di lasciar perdere i doppi sensi…).
Una genialata, vero? E contemporaneamente una mossa che sarà gravida di conseguenze.
E così finisce il primo atto.
Come ho scritto spesso Die Walküre  è la mia coperta di Linus e questo primo atto è davvero adrenalinico, entusiasmante.
La musica di Wagner è sublime, non ci sono cali di tensione e raramente, a mio umilissimo parere, sono state scritte note che riescano a comunicare meglio i sentimenti dei protagonisti.
La tempesta iniziale, il teso colloquio tra Hunding e Siegmund, la faticosa agnizione tra i due gemelli, la speranza (che delude sempre) di un avvenire più sereno, il fuoco dell’amore carnale: tutti momenti ai quali Wagner dona la sua ispirazione migliore.
Spero di poter scrivere ancora un paio di post prima della prima del 7 dicembre, nel frattempo chi vuole si goda questo finale atto primo, che risale a qualche annetto fa.

Buona settimana a tutti.
P.S.
Post scritto in fretta e quasi senza riguardare: se ho sbagliato mi corriggerete (smile).
 
*Sposa e sorella sei tu al fratello, così fiorisca dunque il sangue dei Walsidi.
 

 

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Recensione abortita della Forza del destino di Giuseppe Verdi al Comunale di Firenze.

Vi segnalo inoltre, a proposito di nefandezze, questo editoriale su Operaclick.

Opera di grandi suggestioni e contraddizioni, non è questa la sede per ripercorrere la travagliata genesi dell’opera, La forza del destino di Giuseppe Verdi è stata trasmessa questa sera su RADIO3, in diretta da Firenze.

Come sempre, prima d’inoltrarmi nella recensione semiseria, segnalo che solo in teatro si può apprezzare un’opera pienamente, però alcuni pareri si possono dare anche dopo l’ascolto radiofonico.
Opera di difficile esecuzione, la Forza, perché richiede l’impiego di 6 prime parti, circostanza che non si può definire certo frequente in Verdi.
I melomani che mi leggono lo sanno già, ma per i meno ferrati sull’argomento ricordo che questo lavoro verdiano gode di pessima fama, in quanto sembra che porti sfiga (smile).
Sfiga che sicuramente attanaglia il protagonista, Don Alvaro, al quale davvero vanno tutte storte: gli cade la pistola e uccide il padre dell’amata Leonora, tanto per ricordarne una, ma non è certo la sola.
Alvaro è un po’ il Paperino dell’opera lirica, insomma, e a me sta pure simpatico. Ovviamente è una parte tenorile, perché quando i personaggi sono sfigati, incasinati, rissosi e romanticoni non c’è nulla da fare, c’è sempre un tenore pronto (smile).

Ecco, la parte che avete letto in corsivo me l’ero scritta in anticipo, come cappello per la recensione semiseria.
In realtà, dopo aver sentito l’opera, mi sono reso conto che qualche volta le leggende hanno un fondamento di verità.
E la verità è che La forza del destino porta davvero sfortuna: per esempio ai cantanti che sono stati tutti al di sotto della sufficienza e in qualche caso anche della decenza (mi riferisco ai 5 protagonisti, con l'unica eccezione di De Candia).
Molto sfortunato è sembrato anche il direttore, Zubin Mehta. 
Il più sfortunato sono stato io, che sono rimasto alzato sino a tardi: spero di non riuscire a dormire, perché se m'appisolo farò certamente sogni orribili.
Questa la locandina:

Leonora Violeta Urmana
Don Carlo di Vargas Roberto Frontali
Don Alvaro Salvatore Licitra
Preziosilla Elena Maximova
Fra' Melitone Roberto De Candia
Padre guardiano Roberto Scandiuzzi
Il Marchese di Calatrava Enrico Iori
Curra Antonella Trevisan
Un alcade Filippo Polinelli
Mastro Trabuco Carlo Bosi

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
direttore Zubin Mehta
regia Nicolas Joël
scene Ezio Frigerio
costumi Franca Squarciapino
video e proiezioni Sergio Metalli per Ideogamma Rimini
coreografia Sabine Mouscardès
luci Jürgen Hoffmann

 
 

Recensione semiseria della Traviata al Teatro Verdi di Trieste. Risolto il mistero del torero Piquillo.

Nel leggere le mie recensioni semiserie, dovete tenere presente che la lirica è un mondo in cui invece di dire “apri la finestra”, Violetta Valery Traviata, rivolta alla sua ancella Annina, si esprime così: dà accesso a un po’ di luce.

Quindi, è un mondo inverosimile, che non esiste e non è mai esistito nel quale si muovono personaggi improbabili.
In questo mondo è quindi normale che sua Mariellestà Mariella Devia interpreti l’amante peccaminosa di Stefan Pop Alfredo Germont, che nella realtà potrebbe essere benissimo quasi suo nipote (smile).
Stefan Pop (Alfredo) e Mariella Devia (Violetta)
In questo mondo il nuovo sovrintendente Antonio Calenda, alla sua prima conferenza stampa, parla per tre quarti d’ora senza significare nulla se non concetti vaghi conditi di una retorica strappalacrime e, non contento, ne fa un bignamino alla sera per gli spettatori della prima che, commossi, applaudono.
E applaudono tutti, anche quei politici in sala che sono i primi responsabili del disastro dei teatri e quei potentati economici, pure loro presenti in sala, ai quali non passa neanche per la testa di sponsorizzare il teatro della loro (mano sul cuore e sguardo fiero) città.
Applaudono, con attenzione perché altrimenti si sfaldano, anche le damazze vetuste vestite in un modo che sarebbe ridicolo anche per una diciottenne.
Andare a teatro oggi, non voglio dire sempre ma spesso, è anche sentire il pubblico applaudire cantanti che andrebbero protestati e che escono intimoriti al proscenio e, siccome sono stonati ma non scemi, si stupiscono degli applausi che ricevono.
Non si bruciano sul rogo i registini del quartiere, che costringono le primedonne a porre l’attenzione non al canto ma piuttosto allo strascico ingombrante del costume, perché altrimenti inciampano sulle scale che devono salire, inspiegabilmente, ogni tre minuti.
Insomma, non siamo ai confini della realtà ma ben oltre.
E quindi le mie recensioni semiserie sono la cosa più normale, scritte da un ormai cinquantacinquenne in evidente disarmo fisico e ancora più acclarato disagio mentale che però conserva, o almeno s’illude di conservare, un minimo di lucidità (smile).
E che non può fare a meno di ricordare che il torero Piquillo, che viene evocato nella Traviata, doveva essere un trisavolo del più noto torero Camomillo, scusate.
Allora.
Si è aperta la stagione operistica triestina con un allestimento bruttissimo della Traviata di Giuseppe Verdi, di cui dobbiamo ringraziare per la non regia Stefano Trespidi, per le orride scenografie Giuseppe De Felice Venezia, per i costumi orripilanti Filippo Guggia, per le tristissime luci Paolo Mazzon e per le insignificanti coreografie Maria Luisa Rimonti.
La mestizia, lo scoramento, la costernazione regnavano sovrani in questo spettacolo sul quale non aggiungerò altro neanche sotto tortura. O meglio, aggiungo solo che Mariella Devia alla fine diventa calva (non sto scherzando, dico davvero) per motivi imperscrutabili. Non so, forse il regista avrà visto il DVD del Roberto Devereux con la Gruberova, e avrà pensato cazzo che figata, non trovo altra spiegazione.
Solo che in quel contesto aveva un senso, qui no.
Devia
Mariella Devia interpreta Violetta da par suo, cioè da grande vocalista, ma non nuota nel suo mare e non è neanche in serata straordinaria.
Intendiamoci, sua Mariellestà è un’artista magnifica ma questa parte non le si confà particolarmente: la voce nella prima ottava risulta fioca, quando non sorda, mentre se la cava bene nel registro centrale e svetta in quello acuto, nonostante il mi bemolle di tradizione che chiude il primo atto non sia propriamente una folgore.
Però ha una gestione della respirazione che le consente un legato perfetto e soprattutto d’accentare con proprietà in ogni circostanza. Inoltre nei concertati la voce passa l’orchestra con facilità, perché la corretta emissione favorisce una proiezione del suono eccellente. Ma non è Violetta, le manca un po’ di brio, un po’ di giovanile sfrontatezza, e non sto parlando d’età anagrafica, sia chiaro.
Il momento migliore, com’era ampiamente prevedibile, è risultato lo splendido Addio del passato, alla fine del quale, peraltro, si è sentita la suoneria di un telefonino (non sono riuscito ad individuare il colpevole, ma è meglio così…). Bello anche il duetto con Germont padre, segnatamente dite alla giovine in cui il soprano trova accenti davvero commoventi.
Pieno di buone intenzioni il tenore Stefan Pop, però a dispetto di una voce adatta alla parte e anche abbastanza gradevole, le buone intenzioni bisogna realizzarle e il giovane artista ci riesce solo parzialmente. Si fida troppo dei suoi discreti mezzi e si strozza sull’acuto della cabaletta O mio rimorso, quando avrebbe potuto senza scandalo scegliere l’ottava inferiore. Trova qualche discreta mezzavoce in qualche occasione ma complessivamente il suo Alfredo non lascia traccia significativa. Sicuramente Pop è un cantante che ha buon gusto nel porgere ed è già una cosa, perché, ad esempio, nella famosa scena della borsa (nella quale spesso si sentono cose inenarrabili) riesce a risultare efficace senza ricorrere ad eccessi interpretativi.
Pessima la prova di Gianfranco Montresor nei panni di Giorgio Germont. Il baritono ha cercato di risolvere di forza il personaggio, forte di una voce di discreto volume, ma con risultati anche imbarazzanti.
Come segnalato da un mio lettore è sembrata insopportabile la dizione artefatta che avrebbe voluto favorire la salita agli acuti, e inoltre si sono sentiti, evidentissimi, problemi d’intonazione. Ovvio che l’aria del secondo atto sia uscita piattissima, priva di sentimento. Per non parlare poi della cabaletta, spesso tagliata e che invece ci è stata inflitta (sto parlando di no non udrai rimproveri, in cui il cantante sembrava impiccato).
Di routine la prestazione di Asude Karayavuz nei panni di Flora.
Tra i personaggi di secondo piano, segnalo la bella prova di Lucia Premerl (Annina) e le interpretazioni convincenti di Alessandro Svab (Marchese D’Obigny) e Manrico Signorini (Dottor Grenvil).
Sufficienti tutti gli altri comprimari, Iorio Zennaro (Gastone), Gianluca Margheri (Barone Douphol), Alessandro De Angelis (Giuseppe), Giuliano Pelizon (Domestico) e Ivo Federico (Commissionario).
Il Coro non si è comportato male, ma la compagine triestina può fare sicuramente meglio.
Il giovanissimo Andrea Battistoni, dopo un Preludio davvero promettente in cui l’Orchestra del Verdi ha sfoderato un suono bellissimo, si è perso in una direzione arruffata ed evanescente che se è stata quasi sempre rispettosa delle esigenze dei cantanti, è parsa più volte clangorosa nelle strette e superficiale nel fraseggio. In particolare è mancato, e molto, il calore e l’abbandono nei momenti più drammatici, che sono passati senza che ci fosse traccia delle grande emozioni di cui è piena la partitura.
Traviata Trieste.
Il pubblico ha applaudito lo spettacolo e timidamente anche a scena aperta i cantanti, ma senza entusiasmi eccessivi, che sarebbero stati decisamente fuori luogo.
Mariella Devia ha raccolto i maggiori consensi e se li è meritati, tutto sommato. Resta il rammarico per averla sentita appena ieri a Trieste, in una parte che non gli si addice e comunque nella fase discendente della sua carriera, anche se, lo dico sottovoce, nonostante tutto la sua Violetta è più plausibile oggi di quando debuttò, qualche anno fa, il personaggio. Avercene, comunque, di cantanti così.
Insomma un’apertura di stagione in tono minore, ma bisogna accontentarsi.
Forse.
Un saluto a tutti.
 

La Traviata di Giuseppe Verdi apre la stagione lirica al Teatro Verdi di Trieste: esordio di Mariella Devia.

S'intende che per Mariella Devia è l'esordio sì, ma sul palcoscenico triestino.
Ed è già una notizia che ha quasi dell'incredibile, che una delle cantanti migliori degli ultimi trent'anni arrivi solo in questi giorni nella mia città. Nel caso di sua Mariellestà, non è mai troppo tardi, davvero.

Ancora una Traviata? Certo, perché nonostante questo titolo sia in qualche modo inflazionato, rappresenta sempre un'ottima scelta per l'apertura di una stagione. La Traviata è rassicurante per gli appassionati più tradizionalisti e, allo stesso tempo, è un tale capolavoro che diventa comunque interessante anche per chi, come me, magari gradirebbe qualche scelta più coraggiosa
L'opera debuttò alla Fenice il 6 marzo 1853, con risultati almeno controversi (La Traviata ha fatto un fiascone e peggio, hanno riso – scrisse Verdi).
Giuseppe Verdi voleva un soggetto semplice e affettuoso e pare strano forse, che la breve parabola terrena di Margherita Gautier potesse essere definita in questi termini.
fanny_salvini_donatelli
Il Maestro, per l’eroina, voleva una donna di prima forza e, senza stare troppo ad annoiarvi sulle vicende, non la trovò di suo gusto per la prima, perché Fanny Salvini Donatelli (nell'immagine qui sopra) non corrispondeva in pieno alle sue esigenze.
Ci teneva molto al progetto Traviata il vecchio brontolone, tanto da scrivere così a Francesco Maria Piave, una delle vittime preferite e librettista designato:
 
“Tu lo devi fare, caschi il mondo, certamente ti sei messo all’impresa un po’ tardi ma non importa: bisogna fare!
 
Insomma, nonostante pochi anni prima avesse affermato coram populo che l’idea di rappresentare in scena la vita di una prostituta non lo solleticasse, la storia della Dame aux camelias lo intrigava assai.
Forse non tutti sanno che la protagonista del dramma di Dumas figlio, Margherita Gautier appunto, era realmente esistita e si chiamava Alphonsine Duplessis, di professione mantenuta.
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“Era alta, esilissima, i capelli scuri e la carnagione rosea e bianca. Aveva la testa piccola e gli occhi lunghi e obliqui come quelli di una giapponese, ma vivaci e attenti.”
 

Così la descrive appunto Dumas, che ebbe modo di conoscerla biblicamente bene.
La Duplessis morì nel 1847, a soli 23 anni.
Dopo il “fiascone” della prima Verdi rimaneggiò qualche passo, e il 6 maggio 1854, ancora a Venezia, il soprano Maria Spezia, anche grazie ad una presenza scenica più credibile, donò alla creatura verdiana l’immortalità.
Cosa attira il pubblico, dopo due secoli e mezzo e infinite rappresentazioni, in quest’opera?
Io la penso come Julian Budden, uno dei più prestigiosi studiosi del compositore di Busseto: la semplicità, la capacità di suscitare emozioni che la partitura ci elargisce a piene mani a partire dal Preludio.
Aggiungerei anche la propensiome che ha questa sfortunata ragazza di elevarsi dal mondo piuttosto arido in cui vive. Violetta non è mai volgare, sembra quasi galleggiare con grazia sopra la melma, anche quando si “diverte”.
C'è da sottolineare che nei vari passaggi dal libro, al dramma teatrale sino all'opera, la protagonista perde molti dei suoi tratti più sordidi , per diventare quasi un archetipo se non positivo, almeno non del tutto negativo.
Gli altri personaggi, da Alfredo a papà Germont, sono sotterrati dal punto di vista psicologico dalla protagonista, anche se non si può negare loro una certa nobiltà di sentimenti.
E allora quando Violetta esplode nel suo “Amami Alfredo” anche lo spettatore più cinico e incarognito si commuove e si scioglie in lacrime.
Oggi ci viene da piangere per altri motivi, direi, sui quali glisso elegantemente.
Amfortas piangerà? Boh, mi sa di sì e comunque ve ne darò conto in sede di recensione, al solito, semiseria.
A proposito di questioni semiserie, va da sé che la censura dell’epoca (ma ‘sta censura quando è nata e, soprattutto, quando morirà?) si scatenò in tutti i modi sul testo di Piave, con la Chiesa a fare da ridicolo apripista, ovviamente.
Il celeberrimo e ormai proverbiale “croce e delizia” diventò “pena e delizia” a Napoli, per esempio. Oppure la convinzione di Violetta che “la vita è ne tripudio” si trasformò in un meno categorico “Mia vita è nel tripudio”. I compassati critici inglesi scrissero [a conferma che ha ragione Berlusconi, quelli ce l’hanno con noi da una vita (strasmile)] di “un orrore indecente e esecrabile”, nonostante i trionfi londinesi.
La storia e così commovente e la musica così emozionante che la Traviata è forse una delle pochissime opere che sopportano anche un’esecuzione vocale non straordinaria.
La prima è martedì 16 e, oltre a Mariella Devia nella parte della protagonista, ci sono il tenore Stefan Pop nei panni di Alfredo e Gianfranco Montresor, baritono, quale Germont padre. Dirige il giovane Andrea Battistoni, del quale si dice un gran bene. Vedremo.
Lo stesso giorno, alle 11.30 del mattino, avrò luogo la prima conferenza stampa del nuovo sovrintendente Antonio Calenda.
Approfitto dell'occasione per segnalare che l'amica Marion ha aperto un nuovo sito su Giuseppe Verdi, lo potete trovare qui.
Complimenti a lei e un saluto a tutti voi.

 
 

Melomania, portami via: meglio essere melomani o minzolini?

Tempo fa, Beppe Severgnini, sul Corriere della Sera, ha scritto un editoriale intitolato L’ossessione del nemico, riferendosi ai tristi meccanismi che regolano le dinamiche dialettiche nei dibattiti politici in televisione.

Mentre leggevo l’articolo, mi sono sorpreso a rilevare come molte considerazioni potessero essere estrapolate, rielaborate e risultassero calzanti anche per il dibattito tra critici musicali o, se preferite, tra appassionati melomani.
Succede sempre più di frequente, infatti, che anche nei blog e nei forum dedicati all’opera la rissa sostituisca la discussione.
Il disprezzo per le opinioni altrui, l’aggressività verbale esibita come qualità dialettica, ormai non solo sono la regola ma motivo di autoreferenziale vanto.
Il rispetto è artatamente confuso con la pavidità, la cieca arroganza spacciata per coraggio, l’insolenza e la maleducazione sventolate quali vessilli di libertà di pensiero e parola.
La prevenzione, un'idra fosca, livida, cieca, col suo veleno se stessa attosca, è sottilmente propagandata per coerenza.
La scelta di non avere nemici o amici per default non è più vista come onestà intellettuale, ma lordata dal sospetto dell’ipocrisia.
La pseudocultura televisiva del chi grida più forte vince, l’idolatria dell’audience a tutti i costi sono modelli vincenti che pagano e soddisfano l’ego di molte persone.
Anche noi che parliamo di Arte stiamo facendo l’errore di scambiare per fisiologico ciò che è invece una grave forma patologica.
Alla fine, il citizen journalism, quel movimento e fermento culturale che è nato grazie alla Rete, sta partorendo una nidiata di nuovi mostri sempre più simili a quelli che ci propinano i media tradizionali.
Se uno spettatore televisivo guarda il telegiornale di Emilio Fede o di Augusto Minzolini, già sa come le notizie (ammesso che le diano) saranno divulgate. Vale anche per altre testate di opposto orientamento politico.
Ecco, così, mestamente, stanno diventando alcune delle piazze virtuali che si occupano di musica lirica: si sa già prima come saranno valutati cantanti e allestimenti, nel bene e nel male.
Io rivendico invece il diritto alla coerenza incoerente o, se preferite, all’incoerenza coerente, che è una “linea editoriale” che presuppone la buonafede e mi dà la libertà di parlare bene oggi di un artista e male la volta successiva, se mi pare che non sia stato all’altezza del compito.
Per scrivere di musica, io, non ho bisogno di un nemico, mi basta una serata in teatro.
 
Qui l’articolo di Severgnini.
 
 

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