Insomma, ritorno nell’esercizio delle mie finzioni e mi ritrovo abbastanza arrugginito (eufemismo).
Ai miei happy few, quindi, raccomando più pazienza del solito e soprattutto…clemenza (smile).
La Clemenza di Tito a Trieste non si era mai vista e, meritoriamente, è stata proposta per la prima volta al pubblico con un cast adeguato e un allestimento intelligente. In questo modo si è colmato un vuoto culturale che aveva dell’incredibile, trattandosi dell’estrema e più matura produzione operistica di Mozart.
Sarebbe interessante sapere, ma è una curiosità che resterà inappagata, quanto abbia influito sull’assenza del capolavoro mozartiano proprio il titolo, soprattutto dal secondo dopoguerra in poi, quando solo qualche temerario (eufemismo, smile) avrebbe potuto parlare a Trieste di un Tito clemente. Oggi, per fortuna, i tempi sono diversi e con ogni probabilità questo tipo di speculazioni sono una pruderie esclusiva degli over 50, categoria alla quale appartengo (e pure per poco tempo ancora, perché poi sarò promosso alla serie superiore, mannaggia!).
Come già osservato, nella programmazione triestina questa Clemenza s’inseriva in una sorta di trittico sul Potere, di cui le prime tappe erano state il Macbeth e The Rape of Lucretia.
Contrariamente alla tristissima realtà, in questo caso vediamo un politico che fa una scelta giusta, circostanza che ormai sembra relegata, appunto, al regno della fantasia e dell’Arte in generale, come la visione di una Chimera o di un Unicorno.
Il regista Jean Louis Grinda ha un’idea chiara e precisa: l’opera di Mozart è un monumento e come tale va vissuta e vista. Perciò l’ambientazione è settecentesca, a ricordare che il lavoro fu commissionato al compositore in occasione dell’incoronazione di Leopoldo II a Re di Boemia nel 1791 e la vicenda è inserita in un contesto scenografico nobile che riproduce il Teatro olimpico di Vicenza del Palladio.
Ovviamente, come spesso ho segnalato, in queste circostanze artistiche Pier Paolo Bisleri, che firma la scenografia, si trova perfettamente a proprio agio. Ne esce un allestimento imponente ma agile, scabro ed elegante allo stesso tempo, in cui il minimalismo che tanto ama Bisleri è supportato felicemente dal magnifico impianto luci di Claudio Schmid e dai bellissimi costumi d’epoca di Françoise Raybaud-Pace. Un monumento appunto, al classicismo, che i pochi oggetti in scena non devono neanche scalfire. Non ho capito il senso di due pannelli, tipo lavagne per capirci, su cui c’erano scritte due frasi (Chi era il Re, Chi erano i mendicanti): forse un richiamo al testo da un recitativo di Tito nel secondo atto, boh. In ogni caso mi è sembrato un inserimento inopportuno.
Certo, siamo lontani anni luce dal cosiddetto teatro di regia, detestato da molti, ma è bene ricordare che comunque – a rigore – siamo davanti a una trasposizione temporale clamorosa, poiché le vicende di Tito Vespasiano storicamente appartengono agli albori del primo secolo dopo Cristo.
Il limite dell’operazione del regista è che per celebrare la sua – legittima e anche condivisibile – visione dell’opera è in qualche modo costretto a sottolineare la staticità della vicenda e quindi lo spettacolo, bello a vedersi, risulta in alcuni momenti gloriosamente noioso e comunica una certa sensazione di stanchezza che ieri sera, tra molti spettatori, era palpabile e non solo tra i tanti giovanissimi presenti.
Gianluigi Gelmetti era sul podio dell’Orchestra del Verdi (sugli scudi i legni, magnifici nell’accompagnamento delle arie obbligate) che, va detto, ha risposto benissimo alle sollecitazioni del direttore. Gelmetti propone il Mozart che io preferisco, mille miglia lontano da certe svenevolezze di tradizione inglese e, anzi, rileva con vigore i passi più drammatici dell’opera. In questo modo il finale del primo atto, che è una delle pagine in cui ci si deve inchinare umilmente al compositore e benedire il giorno della sua nascita, esce in tutta la sua straordinaria dimensione tragica. Allo stesso tempo il direttore accompagna e segue i cantanti con attenzione e stacca tempi adeguati che consentono agli artisti di lavorare sulla parola senza ansie dovute all’apnea. Non è merito da poco, attenzione, trovare un direttore che serve la musica e non il suo ego.

Giuseppe Filianoti
Giuseppe Filianoti, al debutto a Trieste, era nei panni del protagonista. Il tenore è da sempre ammirato per lo splendido timbro e, a parer mio, è il prototipo ideale del tenore mozartiano anche perché la voce è bella corposa (anche qui, che noia i tenorini sbiancati, efebici e anodini in Mozart!). La scrittura vocale di Tito è però traditrice, tutta sul passaggio con qualche escursione verso i primi acuti e in questo senso si è percepita qualche durezza, peraltro bilanciata dalla capacità non comune di tecnica di respirazione che ha consentito all’artista di legare frasi lunghissime, come pretende la parte. Anche grazie all’ottima presenza scenica e alla recitazione composta il suo Tito, nobilissimo, convince pienamente.

Giuseppe Filianoti e Laura Polverelli
Laura Polverelli aveva il compito difficile di interpretare Sesto, personaggio tormentato a dire poco che è il vero motore della vicenda. Ora, per “portare a casa” un Sesto se non sei una grande fraseggiatrice non vai da nessuna parte, perché davvero ogni parola, ogni nota, è lì a sottolineare uno stato d’animo diverso, la sfaccettatura di un sentimento contrastato. La Polverelli (grande nell’aria Parto, parto), pur palesando un po’ di stanchezza nel secondo atto, tratteggia un Sesto davvero commovente, vivo, che ci parla del groviglio delle contraddizioni che governano la vita di tutti noi. L’accoglienza che le ha riservato il pubblico alla fine vale di più di ogni mia parola.

Eva Mei
Molto brava è stata anche Eva Mei nella parte di Vitellia, altro ruolo molto difficile che prevede una delle arie più belle scritte da Mozart – il Rondò “Non più di fiori” –, in cui oltre alla coloratura si devono affrontare discese sul pentagramma che sono assai pericolose per un soprano leggero che però la Mei si è bevuta con facilità e senza ricorrere a quelle brutte note orchesche che si sentono persino in alcune registrazioni famose di quest’opera. Convincente anche nell’accento, ora viperino ora regalmente languido, Eva Mei conferma una volta di più il suo valore.
Annunziata Vestri (mi sia consentito: un’artista a tutto tondo, sempre) è stata brillante nella caratterizzazione di Annio e hanno convinto anche il solido Publio di Marco Vinco e la delicata e liliale (anche troppo, forse) Irina Dubrovskaja quale Servilia.
Molto bene il Coro, ancora una volta.
Il pubblico triestino, piuttosto numeroso ma come sempre freddo e distaccato, ha accolto bene tutta la compagnia artistica e in particolare Laura Polverelli. Io credo che un po’ di entusiasmo in più non avrebbe guastato ma si sa, i triestini sono fatti così e del resto all’intervallo ho sentito con le mie orecchie questa frase: “I cantanti non saprei, ma la musica non è male”.
Vabbè.
Un saluto a tutti, alla prossima!
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Bentornato!
Sono contenta della buona prova di Filianoti (come Ottavio alla Scala mi aveva fatto penare mica male), pienamente d’accordo con te sui tenori mozartiani e felice che tra il pubblico qualcuno si sia lanciato in apprezzamenti tanto arditi sulla musica. Grazie!
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Laura, io spero che Filianoti riacquisti pienamente fiducia in se stesso, perché è tuttora una delle voci tenorili più belle che si possano sentire in teatro. Il pubblico è così, ovunque, e Trieste non fa eccezione. Per fortuna c’è anche chi apprezza e sa distinguere senza abbandonarsi a dissertazioni idiote.
Ciao e grazie ancora.
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Din-don-dan! E’ tornato Amfortas! Risorto grazie al tocco della Sacra Lancia. Bene, viva, complimenti, gaudio e giubilo!
AM
PS. dalle foto, lo spettacolo parmi una strapalla…
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Alberto, dai che forse ci vediamo in quel di Venezia per la trilogia Michieletto (ah ah ah). Lo spettacolo era molto bello da vedere ma, effettivamente, noiosetto. In generale però faceva la sua porca figura.
Ciao, a presto.
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Per me uno spettacolo bello da vedere ma noioso è un controsenso… A Venezia sarò il 17, 18 e 19 maggio. L’importante è che tu sia tornato in piena forma. Ciao ciao
AM
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Alberto, in generale la penso come te, ma qui almeno era appagata la vista e, cosa ben più importante, era piuttosto soddisfatto l’udito 🙂
Mi sa che ci becchiamo nell’orrida, ti farò sapere, ciao!
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“finzioni”, è una citazione da Borges?
🙂
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Giuliano, ma che vuoi che citi? 🙂 Ormai posso citare solo qualche medico o qualche antidolorifico!
Ciao e grazie!
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bello rileggerti, anche “un c’ho ‘nteso nulla”.
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lapo, lo spettacolo, credo, ti sarebbe garbato e magari l’avresti definito “bellino”.
Ciao e grazie!
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E domani Tatiana Netrebko alla radio? Speriamo che sia in forma, soprattutto in termini di intonazione.
Ulisse
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Ulisse, speriamo, ma mi sa che non riesco a sentirla in diretta. Spero che qualche anima buona mi mandi il link della registrazione 🙂
Ciao e grazie!
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Della Clemenza, che per me è il vero capolavoro dell’ultimo Mozart, ricordo una bellissima regia di Federico Tiezzi alla Pergola una decina d’anni fa. Anche lì c’era il Settecento ma stilizzato e alluso, e soprattutto colto nel passaggio ai primi sentori del preromanticismo. Fenomenale.
E comunque bentornato, non è male riprendere ad andare a teatro con un’opera così, no?
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Winckelmann, ciao. Non vidi quella produzione di Tiezzi, però me ne hanno parlato bene in molti. Peraltro di Tiezzi sono un ammiratore, soprattutto quando è in coppia con Pier Paolo Bisleri.
In effetti sono tornato a teatro prima del previsto, ma ci vuole ancora tanta pazienza, virtù che non è propriamente il mio cavallo di battaglia 🙂
Ciao e grazie.
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Bentornato!!!
Concordo con la recensione, soprattutto sull’inutilità dei pannelli coi teschi… 🙂
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Alu, ciao! La bandiera dei pirati in effetti era abbastanza fuori posto, ma immagino che avrà avuto un senso che a me sfortunatamente è sfuggito…
A presto 🙂
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Che piacere ritrovarti! A questo punto ci si rivede per Tosca, o trilogia (martedì al Don Giovanni se ci sei, per Nozze e CFT devo ancora fissare un data). Sulla Clemenza di Tito sono d’accordo quasi su tutto, fatta eccezione per Filianoti che non mi ha molto convinto. A presto!
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Paolo, ciao :-). Per Tosca devo ancora pensarci, nel senso che non sono ancora sicuro di esserci alla prima, vedremo. Per la trilogia vedremo più avanti, martedì non ci sono, è ancora prestino per affrontare una decina di ore in piedi.
Ciao, a presto 🙂
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Che contento sono di poter rileggere i tuoi commenti!
Mozart è sacro e punto.
Se poi nei momenti più drammatici ci mette non dico una cavatina ma addirittura un “minuetto” vuol dire che avrà i suoi motivi scenici che io post-dodecafonico devo sviscerare: ascolterò, riascolterò e mediterò.
Stammi bene!, con affetto
Furio P.
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Furio, grazie molte 🙂
Mozart punto e basta è sintetico e quantomai efficace!
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CASSANDRO
Goditi pure, Amfortas, i tuoi “over 50, categoria alla quale appartieni, e non preoccuparti se ciò durerà, per come scrivi, “per poco tempo ancora, perché poi sarai promosso alla serie superiore, mannaggia!”
Anche se sessanta sono sessanta . . . e non potrebbe essere diversamente, vero? . . . (nelle opere liriche poi non credo che siano pochi i personaggi aventi all’incirca tale età che fanno la loro bella figura sotto un profilo canoro, anche se rivestenti ruoli non sempre invidiabili: a te catalogarli), l’importante è gestirli bene, come sicuramente saprai fare tu.
SESSANT’ANNI
Difficile è avere sessant’anni
… no che sia difficile arrivarci,
difficile è gestirli senza affanni
ad evitare che dei fichi marci
ti vengano scagliati contro o che
calci diano a te siccome allora
l’asino li appioppò forte al suo Re,
il leone morente alla buonora.
Così si tira avanti in difesa,
accortamente a non pestare i calli
a chi di te è più giovane e la resa
di te si aspetta e vuole che tu sballi,
che si spazientisce se ben tesa
la testa tieni ancor come i cavalli.
E tu, tignoso, a fare ancora “ihhhììì…!
ed a toccarti di nascosto lì.
(Cassandro)
Come al solito intervengo su questioni non proprio attinenti alle tue pregevolissime recensioni, ma sulla Clemenza di Tito voglio raccontarti quanto mi capitò or sono circa trent’anni fa.
Avevo ricevuto in omaggio un biglietto per la sala della Scala di Milano, dove appunto davano tale opera. Come ben sai, essendo io, ahimè, non un intenditore ma un osservatore, nell’intervallo dopo il primo atto mi misi a girovagare per il teatro e finì alla prima galleria, accanto al palco reale, che avevo notato essere occupato da alcune persone (credo che fossero i tempi della Milano di Pillitteri). Mentre stava per iniziare il secondo atto vidi arrivare tre o quattro persone, dalle facce non tanto regali, che sono entrati in detto palco, per cui con non chalance, e con atteggiamento severo da avente diritto, ne approfittai per entrarvi pure io, che così ascoltai il secondo atto da detto palco.
La sensazione provata fu eccezionale — ancora una volta no, purtroppo, sotto il profilo musicale — in quanto mi fece effettivamente capire cosa vuol dire dominare dall’alto e da dietro una sala, dove ognuno degli occupanti se vuole guardarti deve storcere la testa, in atto di deferenza quasi, mentre tu da lassù, con un solo colpo d’occhio controlli tutto e tutti.
Situazione irripetibile, che mi poi riportai in una mia scherzosa composizione nel verso conclusivo “Perché, mi chiedo, non son nato Re?”
Ciao, e scusa dell’intromissione.
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CASSANDRO, come sempre ti ringrazio per la spassosa poesiola 🙂
I “vecchi” nella lirica sono – come bene dici tu – tanti e non sempre esempio di virtù: spesso, poi, sono incazzati neri. Cavolo, se mi ci ritrovo! E poi, per carattere, mi sento assai vicino ai personaggi malmostosi.
Bello il tuo aneddoto sul palco reale, immagino le facce patibolari negli anni della Milano da bere. Un orrore!
A Roma, e ne scrissi anche qui in occasione dell’Otello del 2008, la contemporanea visione di centinaia di potentati, nani, ballerine et similia mi divertì molto. Fu una serata davvero memorabile, soprattutto per l’apparizione della Pampanini e di un incredibile Renato Balestra.
Dove sono i bei momenti, per restare in ambito mozartiano…
Ciao e grazie!
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