Oggi è una giornata importante perché finalmente posso dare testimonianza indiscutibile della situazione terribile dei gabbiani assassini nell’orrida Venezia.
Questa mattina ho scaricato un paio di foto che ho scattato ieri e…guardate un po’! Credo che le parole non servano. L’orrore (strasmile).
Ma passiamo alle cose meno serie.
Su Stiffelio grava, in qualche modo, l’ombra di Re Lear, chimera rincorsa per quasi tutta la vita da Giuseppe Verdi, che dopo Macbeth cercava soggetti nuovi e forme nuove. Il compositore trovò ciò che cercava in un dramma teatrale francese contemporaneo, Le Pasteur ou L’Evangile et le foyer di Émile Souvestre ed Eugène Bourgeois.
Ci furono, ovviamente, i consueti problemi con la censura austriaca – siamo nel 1850! – e l’altrettanto consueta necessità di rendere snello e adatto all’opera il libretto, la cui stesura fu affidata a Francesco Maria Piave. Lo scoglio più insidioso fu il rispetto di una regola censoria che diceva letteralmente che era vietata la rappresentazione di pratiche sacre e servizi religiosi di religioni conosciute, né l’uso che i ministri delle stesse fanno di caratteristici paramenti sacri sono permessi sul palcoscenico. E siccome la trama parla delle vicende private del ministro di un culto, potete immaginare che imbroglio sia successo.
Questa e altre norme idiote – la censura non è mai intelligente – sono il motivo per cui la trama dell’opera risulta un po’ farraginosa e il passo teatrale non sempre è fluido.
In realtà se c’è un’opera di Verdi che merita una rivalutazione questa è proprio Stiffelio (molto di più della sorellina Aroldo o di altre), che presenta molti elementi d’innovazione di cui il più evidente, netta rottura con il passato, è proprio affidare la parte tenorile a un personaggio titubante e fragile, sfaccettato, incline addirittura al perdono; il contrario di ciò che erano stati sino allora i vari Ernani & Co in perenne riconoscimento dello status di maschio alfa.
Interessanti poi le idee in nuce che paiono evidenti: le anticipazioni del Ballo in Maschera, per esempio, e lontani echi della Forza del destino e Otello.
L’opera debuttò a Trieste, nell’allora Teatro Grande, il 16 novembre 1850. L’accoglienza fu modesta, anche se parlare di insuccesso sarebbe esagerato. Fatto sta che poi, tra cambi di titolo (Guglielmo Wellingrode) e rimaneggiamenti (Aroldo) il lavoro non fu particolarmente fortunato anche perché travolto dalla straordinaria sequenza Rigoletto, Trovatore, Traviata che Verdi sfornò negli anni successivi.
Inutile parlare di regia, perché Johannes Weigand ha allestito uno spettacolo del tutto incomprensibile ai più, ma sicuramente brutto da vedere per chiunque.
Un pannello rettangolare intarsiato di figure geometriche fa da scena quasi fissa. Al centro incombe una specie di torre (o antenna radiotelevisiva, non lo sapremo mai) che si illumina in random.
Lo scenografo, che firma anche le luci, è Guido Petzold. Immagino abbia ubbidito agli ordini, come la costumista Judith Fischer. Tutti i protagonisti sono fermi, sempre, di là delle solite mosse stereotipate da cantante lirico d’antan. L’unico personaggio un po’ dinamico, si fa per dire, è Stiffelio: ogni tanto deve salire le scale della torre/antenna. Spettacolo che non lascerà traccia nella storia teatrale delle interpretazioni verdiane.
Daniele Rustioni, alla testa di una buona Orchestra della Fenice, cerca di coniugare l’impeto degli anni di galera al tramonto con la scrittura musicale in alcuni tratti più riflessiva di un Verdi che va maturando idee diverse dal passato per i suoi personaggi. Il giovane direttore ci riesce, seppure in alcuni momenti le sonorità sembrino troppo corpose soprattutto nel primo atto. La narrazione però scorre grintosa e se ne giovano i tesi duetti tra i protagonisti.
Stefano Secco era Stiffelio, che ha confermato di essere uno dei tenori più affidabili del momento.
La scrittura centrale della parte gli si addice e perciò si può felicemente concentrare sul fraseggio e la parola scenica. Ne esce un personaggio risolto nella sua nevroticità, lacerato dalle contraddizioni di marito tradito e uomo di culto e potere.
Julianna Di Giacomo (Lina) ha uno strumento importante per volume, ma non riesce mai a piegarlo a quell’espressività che necessita il teatro verdiano. Inoltre troppo spesso gli acuti risuonano bradi e aperti, al limite del grido e qualche volta anche oltre. Tanta voce, certo, ma l’interpretazione rimane epidermica, superficiale e raggelante per mancanza di emotiva comunicatività.
Lo stesso discorso vale per il muscolare Stankar di Dimitri Platanias, che si limita a cantare le note previste e inoltre soffre di una marmorea staticità scenica. I “padri verdiani”, nel cui novero rientra il personaggio, meriterebbero altra consapevolezza interpretativa e incisività.
Accettabile la prestazione di Simon Lim nei panni di Jorg, alla cui voce però manca quella morbidezza pastosa che caratterizza il basso verdiano.
Bene, invece, si disimpegna il tenore Francesco Marsiglia, che restituisce un Raffaello convincente nella sua remissiva debolezza.
Buono il contributo delle parti minori affidate a Cristiano Olivieri (Federico di Frengel) e Sofia Koberidze (Dorotea). Bene anche il Coro preparato da Claudio Marino Moretti.
Alla fine il pubblico, numeroso ma non straripante, ha tributato applausi a tutta la compagnia artistica e decretato un franco successo a Stefano Secco.
In chiusura segnalo una piccola rivoluzione e cioè la lodevole, per certi versi, iniziativa di rendere disponibile il libretto dell’opera tramite codice QR. Dal lato sentimentale i vecchi programmi di sala della Fenice mi mancheranno, certo, ma la qualità degli interventi resta sempre alta e perciò va bene così.
A seguire la locandina dello spettacolo.
Stiffelio |
Stefano Secco |
Lina |
Julianna Di Giacomo |
Stankar |
Dimitri Platanias |
Raffaele |
Francesco Marsiglia |
Jorg |
Simon Lim |
Federico di Frengel |
Cristiano Olivieri |
Dorotea |
Sofia Koberidze |
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Direttore |
Daniele Rustioni |
Regia |
Johannes Weigand |
Scene e luci |
Guido Petzold |
Costumi |
Judith Fischer |
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Orchestra e Coro del Teatro La Fenice |
Maestro del Coro |
Claudio Marino Moretti |
L’ha ribloggato su Musicandosite.
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Salvatore, grazie, molto gentile da parte tua. Ciao!
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Di nulla …..dovere!!! 🙂 🙂 🙂 🙂
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Una delle poche opere di Verdi che non conosco . Grazie.
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Marina, ciao, grazie a te che mi segui sempre 😉
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Anche io non ho mai ascoltato quest’opera ma è difficile anche trovare dei brani almeno per avere un’idea…..
Sono d’accordissimo su Stefano Sacco, voce bellissima…
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Fausta, ciao. È un’opera tra le meno note di Verdi, ma vale un ascolto. Grazie al Teatro La Fenice e Culturebox puoi vedere una recita qui (credo sia quella di domenica pomeriggio). Scusa se ti correggo, ma il tenore si chiama Stefano Secco, non Sacco 😄
Ciao e grazie.
http://www.teatrolafenice.it/site/index.php?pag=57&id_com=24730
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GRAZIE, LO GUARDO VOLENTIERI!
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Fausta, di nulla, ciao!
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