Come ho titolato, spero efficacemente, su OperaClick, ieri sera al Teatro Verdi aleggiava uno spirito ed era, indovinate un po’, quello di Jimi Hendrix!
Ora invece, mentre mi sto stendendo questa piccola introduzione alla cronaca di ieri sera, è il momento di ricordare che oggi 14 ottobre, nel 1990, ci lasciava per sempre Lenny Bernstein, che di Gustav Mahler è stato uno dei più grandi intrepreti di cui ci sia traccia.
Io continuo ad adorare entrambi questi due giganti, e spero che l’accostamento non suoni irrispettoso per nessuno dei miei happy few. Sono due delle tante facce di questo blogger che si chiama Amfortas aka Notung aka Paolo Bullo.
So che mi amate (?) anche per questo.
Un saluto a tutti!

Dopo la sosta della settimana scorsa, dovuta alla furiosa sarabanda della regata Barcolana che monopolizza la città fagocitando l’interesse per qualsiasi altro evento, al Teatro Verdi è ripresa la stagione sinfonica. E, lo sottolineo subito, teatro finalmente affollato come dovrebbe essere sempre.
Gli Angeli e demoni – tema conduttore di quest’anno – avevano per l’occasione l’aspetto sulfureo di Niccolò Paganini e quello soave di Gustav Mahler colto in una delle opere più morbide, anche se io definirei più realisticamente ambigua la sua Quarta sinfonia.
Di Paganini mi piace ricordare un’istantanea del grande Heinrich Heine il quale, nelle Florentinische Nächte, descrive così il musicista durante un’esibizione:
Dietro a lui s’agitava uno spettro, la fisionomia del quale rivelava una beffarda natura di caprone e talvolta vedevo due lunghe mani pelose (le sue, pareva) toccare le corde dello strumento suonato da Paganini. Talvolta esse gli guidavano pure la mano onde reggeva l’arco e risate belanti d’applauso accompagnavano i suoni che sgorgavano dal violino sempre più dolorosi e cruenti.
Si aggiunga che il violinista è stato descritto come alto, allampanato, con l’espressione un po’assente, le mani affusolate e le dita lunghissime che ghermiscono il violino come artigli. Suonava il suo strumento in modo inconsueto, strappando le corde o tenendolo capovolto (un Jimi Hendrix ante litteram, diciamo).
Insomma, un vero e proprio demone, questo Paganini, che probabilmente fu anche un grande comunicatore e promotore di se stesso oltre che un formidabile artista.
Del compositore e musicista genovese è stato scelto il Quinto concerto in La minore per violino e orchestra, lavoro eseguito con una certa parsimonia e affidato alla perizia di un grande violinista dei nostri tempi, Sergej Krylov.
La pagina musicale mi ha metaforicamente ricordato il titolo di un celeberrimo film: Trappola di cristallo. Voglio dire che il brano genera un’atmosfera che è in precario equilibrio tra veri e propri trabocchetti per l’esecutore e l’attenzione immobile, quasi stupefatta, che il pubblico è quasi costretto a mantenere. Un bilanciamento instabile e sottile, appunto, che sembra potersi sbriciolare in ogni momento.
Definire bravo o bravissimo Krylov mi pare davvero un eufemismo; portentoso mi pare più appropriato.
Non è, Krylov, uno di quei solisti algidi e alteri che sul palco sembrano meccanismi perfetti, inalienabili e quasi freddi, distanti. Al contrario l’artista è caldo, dinamico e temperamentoso; vedere come s’ingobbisce sullo strumento, come lo maltratta quasi, emana una specie di ipnotica attrazione.
Difficili da descrivere le acrobazie tecniche e interpretative che il solista ha sciorinato, con apparente facilità, sul palco. Credo che solo chi era presente in teatro possa testimoniare con proprietà le emozioni destate dal turbinio vorticoso delle agilità e dei virtuosismi e al contempo le catartiche e rasserenanti oasi liriche del secondo movimento, Andante un poco sostenuto.
L’Orchestra del Verdi, in un brano che di là della corposa introduzione era confinata a un nobile comprimariato, e guidata da un Kahchun Wong concentrato più sulla tenuta ritmica complessiva della pagina che sull’interpretazione, è stata eccellente a conferma della duttilità di una compagine che, lo ribadisco, è patrimonio culturale da salvaguardare e coccolare con affetto smisurato.
Trionfo per Sergej Krylov, che dopo ripetute chiamate al proscenio ha concesso due bis, Paganini e Bach, di grande impatto.
Che dire poi della Quarta sinfonia in sol maggiore – mi maggiore di Mahler, eseguita dopo l’intervallo?
Per chi scrive Mahler è una specie di coperta di Linus, se non un salvavita.
Perciò, chiarisco subito che a mio parere – ma non sono certo isolato in questo senso – la Quarta ha un significato intrinseco di percorso interiore che va oltre l’apparente purezza infantile che ha il suo culmine nel Lied Das himmlische Leben che la chiude; siamo di fronte a uno dei monumenti dell’Arte tout court.
Mahler va interpretato quasi più da chi ascolta che da chi esegue la sua musica, ho sempre pensato così e di questa idea rimango anche dopo l’esecuzione di ieri sera.
Quindi, se si colgono la nevrosi carsica e la tensione delle numerose mobili atmosfere cangianti del brano – dagli spunti folclorici alle citazioni schubertiane – è impossibile non capire che c’è una specie di sottotesto musicale dal retrogusto tutt’altro che distensivo e consolatorio e che quel violino stonato (absit iniuria verbis: quello del Konzertmeister Stefano Furini) ci ammonisce in questo senso.
Se, invece, l’attenzione è destata più dalla melodia avvolgente e dai cromatismi rarefatti del celestiale Terzo Movimento – ideale prosecuzione della Terza Sinfonia – probabilmente si arriva a una fruizione più addolcita e serena.
O viceversa, chissà.
Resta l’ottima prova dell’Orchestra del Verdi, brillante in tutte le sezioni ma addirittura sfavillante negli archi, e guidata con proprietà da un Kahchun Wong lodevolmente attento alle dinamiche e spedito, senza essere superficiale, nelle agogiche.
Come abbiamo anticipato un paio di giorni fa, il Lied finale è stato interpretato da una voce bianca e non da un soprano. Il miglior complimento che posso fare al giovanissimo Riccardo Masseni è che Mahler sarebbe stato contento di lui.
Non credo molto a una vita celeste, ma penso che ascoltare Mahler dal vivo sia un’esperienza celestiale.
Come me ha pensato il pubblico che, divertito anche dal siparietto improvvisato da Kahchun Wong – che si è fatto un selfie con Riccardo Masseni – ha sommerso di applausi i protagonisti.
Si replica questo pomeriggio alle 18, da non perdere.
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un bambino nel finale della Quarta lo aveva scelto proprio Bernstein alla Scala, se non ricordo male. Bisogna trovarne uno che canti bene, però 🙂
Detto che la mia preferita per questa Sinfonia è Frederica von Stade (in disco soltanto, purtroppo per me), concordo su quello che scrivi. Ho impiegato dieci anni per arrivare a capire Mahler, poi però ho recuperato, partendo dai Lieder tratti da Des Knaben Wunderhorn e prima ancora dalla meravigliosa registrazione di Furtwaengler con DFK da giovane (una voce splendida e ancora senza l’autocompiacimento che sarebbe venuto dopo), (Lieder eines fahrendes gesellen)
Spero di aver scritto giusto tutto ciò che è in todesco 🙂
PS: ieri su Repubblica hanno scritto che ieri c’era Hendrix oggi c’è il rap. Ehm. No, il paragone con Paganini è quello giusto. (alle volte il tifo fa stravedere, come quelli e quelle che dicono “ieri c’era Mozart oggi c’è xxxxx – e così facendo dimostrano tutta la loro ignoranza – non mi sono ancora abituato, perdonami)
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Giuliano, ciao.
Ricordi bene e leggendo la documentazione che ho in merito alla Quarta credo sia una scelta azzardata, ma filologicamente corretta. Il ragazzo qui a Trieste è stato bravo, emozionatissimo – 5 min prima del Lied ha cominciato a deglutire, bere e agitarsi 🙂 – ma bravo.
Credo profondamente a ciò che ho scritto sulla musica di Mahler, che davvero deve essere interpretata in primis da chi ascolta, perché non a tutti parla allo stesso modo. E, aggiungo, per capire, o almeno cercare di farlo, una singola sinfonia di Mahler bisogna conoscere piuttosto bene il suo percorso umano e artistico. Non è musica facile, per niente. Gli esempi che fai sono di livello straordinario e condivido anche la tua idea su DFD (anzi, sono piuttosto perplesso sulla sua figura: posizione che mi è costata qualche critica, pazienza).
Mai abituarsi perché il relativismo, di cui sono sostenitore, non vuol dire libertà di parlare alla membro di segugio 🙂
Ciao e grazie, Paolo
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caspita, sono stato attento a tutto e poi ho sbagliato il nome di Dietrich Fiescher-Dieskau… son proprio un mona 🙂
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