Introduzione sintetica e concisa. Qui sono spiegate le ragioni per le quali oggi scrivo questo post, che sarà il primo di una breve serie.

Foto di Fabio Parenzan
Reperire anche le foto sarebbe stata impresa ardua, mi spiace ma proprio non ho tempo.
Di nuovo chiedo scusa io a tutti gli artisti per il comportamento incivile del quotidiano Il Piccolo di Trieste.
Ogni promessa è debito, a casa mia.
A presto.
11 settembre 2015
La stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste, che sembra badare più alla qualità che alla quantità, è iniziata venerdì 11 settembre con un concerto monografico basato sulla musica di Felix Mendelssohn – Bartholdy, compositore tedesco straordinario e poliedrico, dal catalogo ricchissimo e diversificato ma che forse non ha mai raggiunto presso il grande pubblico la popolarità che meriterebbe. E questo nonostante la sua Marcia nuziale, tratta dalle musiche di scena per la commedia scespiriana A Midsummer Night’s Dream (Sogno di una notte di mezza estate), abbia accompagnato all’altare un numero incalcolabile di persone.
Eppure Mendelssohn ha goduto di una fama planetaria e, per fare un esempio, a soli ventisei anni, nel 1835, fu nominato direttore di quella che è tuttora una delle orchestre più famose e migliori del mondo, la Gewandhausorchester Leipzig, l’Orchestra di Lipsia che proprio in questi giorni ha deciso di affidare le proprie sorti artistiche – dopo dieci anni di regno di Riccardo Chailly, ora alla Scala di Milano – al direttore lettone Andris Nelsons.
Restando in argomento grandi direttori, la serata ha visto il ritorno al Verdi di Oleg Caetani assiduo (per nostra fortuna) sul podio dell’orchestra triestina. Di Caetani si apprezza sempre il gesto chiaro e misurato e anche in quest’occasione l’affiatamento con la compagine locale è sembrato sincero ed evidente. Circostanza non scontata, quest’ultima, ma che rappresenta il primo mattone sul quale costruire una buona performance.
La prima parte del programma prevedeva l’esecuzione della Quinta Sinfonia in re maggiore Op. 107 (La Riforma).
Dedicata al 300° anniversario della Confessione di Augusta (Mendelssohn, di origine ebraica, si convertì al protestantesimo) questa composizione ebbe una genesi o meglio una diffusione contrastata per questioni politiche e religiose, e con l’eccezione di una rappresentazione sostanzialmente privata nel 1832, fu ripresa e pubblicata solo vent’anni dopo la morte del compositore.
L’ispirazione religiosa della pagina musicale è evidente e si manifesta in modo palese anche e soprattutto nel cosiddetto Amen di Dresda, una sequenza di sei note – eseguite dagli archi – che sarà poi richiamata anche da Richard Wagner nel Parsifal per il tema del Graal.
Molto buono il rendimento dell’Orchestra del Verdi, guidata anche con lo sguardo da Caetani: gli archi sono stati capaci di un suono morbido e al contempo incisivo e gli ottoni autorevoli e precisi negli attacchi al pari dei legni. Ne è uscita un’esecuzione omogenea che, verrebbe da dire, ha donato un surplus di personalità a una musica che in qualche modo manca d’identità precisa.
Dopo l’intervallo è stata la volta della Seconda Sinfonia in si bemolle maggiore Op. 52 (Canto di lode) per soli, coro e orchestra, brano musicale anche questo celebrativo e improntato a una profonda spiritualità religiosa: i testi sono tratti dalla Bibbia.
La composizione fu commissionata a Mendelssohn nel 1840, in occasione della ricorrenza dei quattro secoli dell’invenzione della stampa da parte di Johann Gutenberg: come fare a meno della Sacra Scrittura?
Anche in questo caso c’entra quel bel tomo (absit iniuria verbis) di Wagner, che non ebbe certo parole gentili per questo brano, definendolo addirittura intriso di “stupido candore”. I Grandi sono spesso tali anche nelle idiozie, si sa, e poi la rivalità (eufemismo) tra Wagner e Mendelssohn meriterebbe ben altri e dolorosi approfondimenti sull’antisemitismo che non è il caso di affrontare in questa sede.
Ora, è palese che questa sinfonia – cantata sia la sorellina minore della Nona di Beethoven, e non tanto per la presenza dei solisti e del coro quanto per l’atmosfera solenne che si percepisce sin dal Maestoso con moto che la principia. Se sul podio non c’è un direttore di personalità e di ampio respiro culturale che faccia coesistere la parte strumentale con quella vocale possono essere dolori. Ma con Caetani non si corrono questi rischi e anzi, col suo accompagnamento attento anche alle esigenze dei cantanti ha di nuovo tratto il meglio dall’orchestra triestina che ha brillato ancora in tutte le sezioni.
Bene si sono comportati anche i solisti: il soprano Margareta Klobučar, dalla voce ben proiettata ed estesa, e il tenore Mark Adler (già ottimo Luzio in Das Liebesverbot di Wagner, che aprì la scorsa stagione lirica) alle prese con una parte difficile, che ha risolto con espressività e voce squillante. Positiva, ma un po’ meno a fuoco è sembrata la prestazione del secondo soprano, Magdalena Renwart, elegante nel fraseggio ma la cui voce in qualche occasione non “passava” l’orchestra.
Note un po’ meno felici per il Coro, che non ha demeritato tout court ma che probabilmente sconta il fatto di essere sottodimensionato nell’organico (Sovrintendente Pace: possiamo fare qualcosa?). In particolare la prestazione della sezione femminile è sembrata disomogenea.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non come si meriterebbe il teatro di una città che può vantare la tradizione culturale di Trieste. Per fortuna gli spettatori hanno applaudito anche per chi non c’era, tributando un calorosissimo successo a tutta la compagnia artistica e un trionfo a Oleg Caetani, più volte chiamato al proscenio.
Resta ancora un dubbio per i futuri sposi: andrete all’altare sulle note della Marcia Nuziale di Mendelssohn o di quella di Wagner?
18 settembre 2015
La scontrosa grazia di Beethoven e il fantasma della Nona.
La seconda tappa della concentrata stagione sinfonica triestina (dopo la serata Mendelssohn link) prevedeva un programma dedicato interamente a Beethoven (sì, proprio quel tale che per il Carneade Giovanni Allevi “non aveva il senso del ritmo”), esplorato in tre composizioni assai diverse per forma musicale: una sinfonia, un concerto e una fantasia corale. Tutte pagine di grande fascino, composte tra il 1800 e il 1808 ed eseguite per la prima volta nel Theater an der Wien di Vienna.
La serata è stata aperta dalla Seconda Sinfonia in re maggiore Op. 36, permeata da una tinta malinconica specchio delle vicende umane del compositore.
Beethoven in quegli anni era duramente provato dalla delusione per l’amore non corrisposto per la contessina Giulietta Guicciardi da un lato (alla quale dedicò la celeberrima sonata Chiaro di luna) e la certezza che “Il demone invidioso della cattiva salute” lo aveva colpito nell’udito, rendendolo quasi del tutto sordo. Eppure, quasi a esorcizzare le disgrazie, la musica esprime attraverso contrasti cromatici anche violenti una specie di grazia latente, quasi sommessa e sottotraccia, manifesta soprattutto nel Larghetto e che diventa poi evidente nell’Allegro molto del quarto movimento.
Certo, non è ancora il Beethoven monumentale delle sinfonie più celebrate ma poiché non è poi così spesso eseguita ascoltarla è stato appagante.
Il direttore Ryusuke Numajiri, dal gesto un po’ troppo coreografico e al debutto a Trieste, ha colto più l’agitata inquietudine che la pacata amarezza insite nel brano. Perciò l’esecuzione, nonostante l’ottimo rendimento dell’Orchestra del Verdi che ha palesato una matura compattezza in tutte le sezioni, è risultata scarsamente differenziata nelle dinamiche. Buono il severo primo movimento, ma poi il seguente Larghetto è sembrato carente di vaporosa garbatezza al pari del successivo Scherzo, energico ma monocorde. Discreto l’Allegro finale, in cui la critica ha riconosciuto anticipazioni della Nona.
Dopo l’intervallo la serata è ripresa con l’imponente Terzo Concerto in do minore per pianoforte e orchestra Op. 37 (eseguito all’esordio del 1803 dallo stesso Beethoven) che segnava il ritorno al Verdi, dopo molti anni, di Michele Campanella.
Artista a tutto tondo – scrittore e saggista, oltre che pianista – Campanella ha dato prova di virtuosismo come ci si aspettava da un lisztiano del suo livello ma anche e soprattutto di espressività in una pagina musicale adrenalinica ed entusiasmante.
Al contrario della più tradizionale Seconda Sinfonia in questo concerto Beethoven è già proiettato nel futuro, all’avanguardia nell’ispirazione e non voglio dire che abbandoni, ma di certo prende le distanze dagli stilemi mozartiani, per esempio.
Dopo l’ampia introduzione orchestrale, Campanella (più che Numajiri) ha tenuto vivo il dialogo con l’orchestra con un’interpretazione energica e vigorosa che però mai è andata a discapito della linea melodica e della cantabilità. E, mi sia consentita la digressione, Michele Campanella elargisce la sua Arte senza quegli isterismi esteriori di cui abusano pianisti anche bravi dell’attuale star system.
In chiusura è stata poi la volta della brillante Fantasia in do minore per pianoforte, soli, coro e orchestra Op. 80, che nasce da un Lied (Gegenliebe) scritto da Beethoven qualche anno prima.
È questa una pagina un po’ atipica della produzione del compositore, probabilmente perché scritta in circostanze quasi avventurose, così descritte da Carl Czerny, allievo di Beethoven:
Il Maestro scelse il motivo di un Lied composto molti anni prima, vi incluse le variazioni e il coro, mentre il poeta Kuffner, con suggerimenti dì Beethoven, dovette rapidamente metterci su nuove parole.
Anche in questo caso hanno brillato Michele Campanella (bellissimo l’Adagio iniziale) e l’orchestra, in un brano in cui, anche per il testo, non si può fare a meno di pensare alla Nona Sinfonia.
Incisivo l’intervento del Coro, preparato da Alberto Macrì, e bravi i solisti Elena Boscarol, Simonetta Cavalli, Silvia Verzier, Roberto Miani, Giuliano Pelizon e Dax Velenich.
Alla fine è stato proprio Michele Campanella, con garbata ironia, ad annunciare il bis “dal coro in poi, perché altrimenti sarebbe stato troppo lungo”.
Il numeroso pubblico, di età media inferiore al solito, ha tributato un grandissimo successo a tutti i protagonisti. Per Michele Campanella è stato un trionfo, meritato e accolto con signorile compostezza.
Si replica oggi alle 18, il mio consiglio è di non perdersi questo bellissimo concerto.
25 settembre 2015
La creazione di Haydn e la ri-creazione di Trieste.
Il terzo appuntamento con la stagione sinfonica del Teatro Verdi di Trieste vedeva protagonista Joseph Haydn, compositore austriaco a dir poco prolifico, che ha dedicato quota parte notevole della sua produzione alla Musica sacra: molte le messe, per esempio.
In tale contesto di composizioni sacre La Creazione (tecnicamente un oratorio) occupa un posto di primissimo piano per valore artistico e per impegno esecutivo.
Ma cos’è un oratorio? Forse in apertura è bene precisarlo, seppure in modo sintetico.
Si definisce così un genere musicale drammatico e di ispirazione religiosa, sorto in Italia – segnatamente a Roma – a metà del XVI secolo e che prevede dialoghi tra personaggi ma non scene e costumi. In origine l’oratorio aveva il compito di divulgare le Sacre Scritture e perciò il testo era in italiano o latino.
Dall’Italia il genere si diffuse in Europa e in particolare in Inghilterra (Händel) e nei paesi di lingua tedesca (Bach, Haydn). Ovviamente tutto ciò in estrema sintesi, ché ci sarebbero mille puntualizzazioni da fare.
Nello specifico il libretto di Die Schöpfung (La Creazione) di Haydn è tratto in gran parte dal monumentale poema Paradise lost (Paradiso perduto) di John Milton, tradotto in tedesco da Gottfried van Swieten. Altre fonti sono il libro della Genesi e quello dei Salmi.
Il debutto avvenne a Vienna, nel 1798, e in qualche modo influenzò anche la produzione operistica degli anni successivi con particolare riferimento a Gioachino Rossini.
Il lavoro, suddiviso in tre sezioni, prevede l’utilizzo di soli, coro e orchestra ed è pervaso da una tinta sorprendentemente cangiante, cupa all’inizio con quella Ouverture intrisa di musica tesa e contratta che poi si scioglie man mano in un vero e proprio, gioioso e sereno, atto di fede caratterizzato da una solare religiosità che si percepisce palpabile nella terza parte.
Del resto lo stesso Haydn si è espresso così:
Non sono mai stato così devoto come negli anni in cui lavoravo su “La Creazione”: mi mettevo in ginocchio ogni giorno per implorare Dio di darmi la forza necessaria per finire la mia opera.
Non è una pagina musicale di frequente esecuzione, soprattutto in Italia, e perciò nonostante il taglio monografico della stagione sinfonica triestina presti il fianco a qualche critica, anche per quanto riguarda ieri sera si può parlare di mission accomplished.
Oggi questo repertorio pone, più di un tempo, questioni interpretative e filologiche non irrilevanti. È musica del Settecento, che guarda avanti, certo, ma sempre immersa nell’humus del Barocco che si percepisce netto nelle pagine corali e nei passaggi in stile fugato. Altrettanto vero è però che Haydn è considerato il compositore che ha traghettato dal Barocco al Classicismo.
La concezione esecutiva di Gianluigi Gelmetti si pone a metà tra le due opzioni privilegiando una rigorosa scansione ritmica e un suono orchestrale corposo ed energico, che guarda al melodramma senza andare a scapito della luminosità della partitura. Gelmetti chiede, e ottiene, con il gesto e con lo sguardo, alleggerimenti dall’orchestra e dal coro, e segue scrupolosamente i solisti con un accompagnamento mai soverchiante.
L’Orchestra del Verdi risponde benissimo e brilla in tutte le sezioni: molto buone le prestazioni delle prime parti, impegnate spesso in passaggi virtuosistici, e in questo senso mi fa piacere segnalare la prova dei legni.
Bene anche il Coro, che è stato capace – non è scontato che sia così – di cantare anche sottovoce.
Sono sembrati all’altezza anche i solisti, sia dal lato vocale sia da quello – importantissimo – della pertinenza stilistica.
Ho apprezzato in particolare il giovane tenore Marco Ciaponi (recente vincitore del concorso Internazionale Voci verdiane “Città di Busseto”), che può contare su un registro centrale rigoglioso e sonoro e una bella espressività e comunicativa.
Bene anche il soprano Angela Nisi, elegante e appropriata anche nel portamento, a proprio agio sia nel canto spiegato sia nelle agilità.
Discreta la prestazione del basso Mirco Palazzi, il quale ha palesato qualche minima difficoltà negli sbalzi richiesti dalla parte, ampiamente compensati da un fraseggio vario e curato.
Da menzionare anche Simonetta Cavalli, mezzosoprano del coro della fondazione, che ha ben cantato la sua piccola parte nel finale (se la cava in…un amen si diceva ieri sera).
Grande successo alla fine per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio, e trionfo per Gianluigi Gelmetti.
Il pubblico a dire il vero era vistosamente meno numeroso della settimana scorsa, ma la circostanza potrebbe anche essere imputata all’abbondante offerta culturale di questi giorni. TriesteNext http://triestenext.veneziepost.it/ per esempio sta calamitando l’attenzione di molte persone, la Barcolana è alle porte e a me pare che Trieste stia vivendo – almeno da questo lato, ché i problemi ci sono in altri comparti – un momento positivo. Il Teatro Verdi può e deve contribuire alla rinascita di una città che per troppi anni è rimasta in letargo.
Mi permetto un suggerimento al management della fondazione: sarebbe opportuno, in serate come questa, l’uso dei sottotitoli.
Si replica questo pomeriggio alle 18. Il consiglio è di non perdere il concerto, la musica dal vivo ha un fascino che va oltre le speculazioni filologiche o i commenti del critico di turno.
2 ottobre 2015
La continuità.
Cosa c’entra la continuità con la stagione sinfonica, potreste chiedervi. C’entra per vie laterali, nel senso che il Teatro Verdi di Trieste ha bisogno di rientrare nel tessuto connettivo – mi si perdoni la metafora ardita – dei triestini e solo proponendo con una certa frequenza serate e spettacoli ciò può avvenire.
Giovedì c’è stato il recital al Ridotto del tenore Stefano Secco (link), ieri sera il concerto sinfonico che sarà replicato oggi pomeriggio e, a seguire, il Teatro Verdi darà il suo contributo per la “Notte blu” dei teatri triestini, un’iniziativa collaterale alla grande kermesse della Barcolana. Avanti tutta, aggiungo da vecchio marinaio.
Nei giorni scorsi stavo pensando a come definire la musica del protagonista del quarto concerto della stagione sinfonica triestina, Anton Bruckner. Scartate varie ipotesi, riferibili più all’uomo che al suo lavoro, ho optato per “ambiguamente mistica” al posto del più consueto aggettivo “monumentale” di solito riferito proprio alla Sinfonia n. 5 in Si bemolle maggiore eseguita questa sera.
Diceva Wilhelm Furtwängler:
Bruckner non operava per l’oggi: nella sua arte pensava solo all’eternità, e per l’eternità ha creato.
Subito dopo non posso fare a meno di pensare a Gustav Mahler, che di Bruckner fu uno dei grandi sostenitori. E, in qualche modo, trovo che ci sia un fil rouge tra l’opinione di quello che considero il più grande direttore d’orchestra di sempre e la “rivalutazione” di uno dei più sublimi compositori mai esistiti. Insomma, a dispetto delle strumentali e perfide opinioni di tanta critica (Hanslick in primis) la musica di Bruckner è viva e lotta con noi.
A dirigere il concerto è stata chiamata Samra Gulamović, direttore dell’Orchestra Filarmonica di Sarajevo e attiva anche in molti altri teatri europei.
Il programma era impegnativo perché Bruckner è compositore difficile e richiede il dominio tecnico di partiture sterminate e orchestre altrettanto ipertrofiche. Il rischio è sempre quello di non controllare i decibel e confondere tutto in un magma sonoro indistinto.
La prima parte – il concerto, opportunamente, non prevedeva intervallo – è stata dedicata ai Tre pezzi per orchestra che, a mio parere, tradiscono la loro origine di saggio quasi sperimentale per mancanza d’identità e incisività. Vi si ravvisa, qua e là, qualche sprazzo melodico ma tutto sommato non lasciano segni indelebili nell’ascoltatore.
Diverso il discorso per quanto riguarda la Sinfonia n.5 in Si bemolle maggiore affrontata a seguire. In questo caso siamo a livelli diversi di Arte nell’ambito del sinfonismo classico.
Vi si ritrovano molti tòpoi della musica di Bruckner: il pizzicato degli archi, le esplosioni degli ottoni, gli improvvisi ripiegamenti in pianissimo, la reiterazione di cellule musicali trasformate e rese irriconoscibili, la “verticalità” dell’architettura musicale. Insomma, sembra di stare sulle montagne russe.
La sinfonia si svolge nei classici quattro movimenti e se è vero che in alcuni momenti – penso all’adrenalinico Finale – il fantasma del magma sonoro indistinto ha fatto capolino, è anche vero che Samra Gulamović ha dato bella evidenza agli squarci melodici del secondo movimento (Adagio) e ha trovato una misura suggestiva nella gestione del rincorrersi dei temi ricorrenti.
Ho trovato molto buona la prestazione dell’Orchestra del Verdi, con gli archi capaci di un suono avvolgente e pastoso in cui i violoncelli (che strumento meraviglioso, il violoncello!) e le viole mi sono sembrati in gran serata. Bene anche i legni, mentre gli ottoni – un po’ rigido il gesto del direttore – hanno sofferto di qualche attacco non pulitissimo.
Pubblico mediamente numeroso e pigramente soddisfatto alla fine, nonostante abbia preteso numerose uscite della brava Samra Gulamović.
Segnalo qualche piccola intemperanza di alcuni spettatori: un chiacchiericcio che è stato percepito anche dalla Gulamović con un certo fastidio e un applauso inopportuno alla fine del primo movimento della sinfonia.
Oggi alle 18 si replica.
8 ottobre 2015
Mozart o della sordità a nostra insaputa.
Recentemente ho letto un libro meraviglioso: Dizionario per oziosi di Joan Fuster. Nel pamphlet l’autore affronta con lucidità impressionante molti argomenti, suddividendoli ordinatamente in ordine alfabetico.
Si parla anche di libertà e l’incipit cita la musica delle sfere e cioè quel concetto filosofico che riteneva che i movimenti dei corpi celesti producessero un rumore di fondo, una musica che l’orecchio umano non può percepire. O, forse, non lo percepisce perché siamo abituati a sentire quella musica e non ci facciamo più caso.
Ecco, quando ci si avvicina al Mozart delle sinfonie 40 e 41, magari non a Trieste dove credo non fossero eseguite da tempo, c’è il pericolo di essere sorpresi da una specie di sordità o insensibilità acustica dovuta all’abitudine o, peggio, alla banalizzazione che di quelle note è stata perpetrata. Il motivo iniziale del primo movimento della KV550 è stato addirittura saccheggiato da chiunque ne avesse voglia, dal barzellettiere d’accatto al presunto creativo venduto al dio della pubblicità (i creativi sono così: si vendono per sbolognare porcherie e poi stigmatizzano il mercato nelle interviste). E perciò ci si ritrova qualche volta a esclamare, per esempio: Ancora Mozart? Come se ascoltare Mozart fosse una mesta consuetudine. Magari tra poco più di un mese ci sarà qualcuno che penserà Ancora il Don Giovanni? Io gli risponderei Pentiti, scellerato con la faccia più da rancoroso Commendatore che mi fosse possibile.
Eppure con le due sinfonie di cui sopra siamo metaforicamente trasportati proprio all’altezza dei pianeti e delle stelle, respiriamo un’aria purissima e incontaminata. E forse, per qualche momento, ci riappropriamo della libertà. Basta ascoltare, ma ascoltare sul serio e non lasciar scorrere la musica come fosse un sottofondo, magari mentre facciamo altro.
Gianluigi Gelmetti, Direttore Onorario del Teatro Verdi – il quale, detto per inciso, sarà sul podio anche per il Don Giovanni – si ritrova a navigare di nuovo alla fine del Settecento, come già è stato per La Creazione di Haydn un paio di settimane fa. Sono acque miste, tra Barocco e (pre)Romanticismo e l’approccio esecutivo è lo stesso, impreziosito, credo, da una particolare predilezione o affinità elettiva dell’artista per la musica di Mozart e per quella circolarità che la caratterizza.
Perciò nella Sinfonia n. 40 in sol minore che ha aperto la serata si sono apprezzate le sonorità robuste e allo stesso tempo contenute del dialogo tra archi e fiati nel primo movimento (Allegro Molto). Nel secondo movimento (Andante) risaltava il lavoro sull’incisività dei fiati. Bandite le leziosità dal Menuetto del terzo movimento, ma non certo la consistente trasparenza del suono dell’orchestra, per poi chiudere con un Allegro Assai decisamente proiettato verso Beethoven nelle sonorità e nel temperamento.
Dopo un breve intervallo è stata la volta della Sinfonia n. 41 in do maggiore (Jupiter).
È questa una pagina musicale di straordinaria intensità e per far tornare i conti è indispensabile trovare equilibrio tra le varie sezioni orchestrali, soprattutto nel lungo ultimo movimento (Molto Allegro) che è stato definito pervaso da “furore contrappuntistico”. Difficile poi mantenere il carattere di raccolta intimità e cantabilità in una sinfonia così maestosa, screziata da contrasti cromatici anche cruenti. Voglio dire che “le sonorità e il temperamento” che avevano chiuso pochi minuti prima la precedente sinfonia, qui si ripresentano rinvigorite. Siamo a un passo da Beethoven, perlomeno per la mia sensibilità. Sembra che si chiuda un cerchio e questo di là di simbolismi massonici, che sappiamo essere presenti nella musica di Mozart: io penso al cerchio di Giotto. La naturalezza della perfezione.
Anche in questo caso, come nella prima parte, Gelmetti ha guidato l’Orchestra del Verdi a una prestazione maiuscola e trovo indispensabile citare – primi inter pares – il rendimento dei contrabbassi e degli archi gravi in generale.
Alla serata era presente un pubblico piuttosto numeroso anche se io, che non sono mai contento, vorrei che l’affluenza al Verdi fosse ancora più massiccia. Ma si sa, a Trieste incombe la Barcolana e se è vero che ho visto qualche regatante in sala (il concerto è stato opportunamente anticipato di un giorno e ben promosso dall’ufficio stampa) è altrettanto vero che trovare un posteggio sulle Rive è impresa disperata.
In ogni caso successone per Gelmetti e per l’eccellente compagine orchestrale triestina.
Si replica stasera, concerto da non perdere assolutamente anche perché la musica, oltre che ben eseguita, è un ottimo viatico al primo appuntamento della stagione lirica e cioè il Don Giovanni.
È aperto a tutti quanti, viva la Libertà.
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