Il vascello dell’Olandese volante affonda a Budapest e io non ho potuto fare nulla per salvarlo. Peccato (strasmile).
In realtà una messa in scena non troppo ardita, ma incongrua, ha procurato una falla alla nave.
Wagner è sopravvissuto a ben altro!
Dopo il superbo Tristan di apertura, al Festival Müpa è stata la volta di Der fliegende Holländer.
Considerata spesso come l’opera entry level di Wagner soprattutto perché più breve degli altri lavori del compositore tedesco e anche per una certa linearità della trama, l’Holländer fu pensata in un solo atto e così, senza intervalli, è stata proposta in questa sede in una produzione tipica da Regietheater firmata dal regista ungherese Balász Kovalik il quale, peraltro, ha lunga esperienza di regie operistiche ma non di Wagner.
Ora, se è vero – e sono d’accordo – che il teatro o è di regia o semplicemente non è come insegna Elvio Giudici, è anche vero che bisogna fare delle precisazioni in merito.
Recentemente, a Lubiana, ho visto una messa in scena tradizionale della Cenerentola di Rossini che era irrimediabilmente brutta e lo era non per i fondali dipinti ma perché nonostante seguisse le indicazioni del libretto non faceva un buon servizio alla musica di Rossini.
Allo stesso modo questa regia di Der fliegende Holländer, moderna e trasgressiva, fuori dagli schemi, risulta inopportuna e fastidiosa perché con la musica di Wagner non c’entra nulla e, soprattutto, distrae dall’ascolto.
Un po’ di metateatro, qualche gioco di prestigio farlocco tra significato e significante, la trasposizione temporale e la citazione di temi attuali come la violenza del potere economico e della globalizzazione, lo stupro di bambine relegate a merce di scambio, le lavatrici come simboli di un consumismo perverso e autodistruttivo sembrano solo espedienti per stupire in modo esteriore che si rifà a uno stucchevole épater le bourgeois ampiamente fuori tempo massimo. Il lato positivo c’è, ed è quello di una buona resa scenotecnica, ma niente di più.
Sarebbe buona cosa, quindi, non prendere posizioni acritiche sulla vexata quaestio delle regie e mantenere un’obiettività di fondo e valutare di volta in volta gli spettacoli, senza pregiudizi.
La scena di Péter Horgas è fissa, tutto ruota e si aggroviglia (in senso letterale: cantanti e coro si arrampicano spesso) sulla carena stilizzata di una nave. Senta è una sorta di minus habens idealista in un mondo in cui i perfidi norvegesi pensano solo al danaro nei sancta sanctorum dei consigli di amministrazione. Per essere felici le donne si accontentano di fare ginnastica in palestre super attrezzate e dell’ultima diavoleria informatica. Papà Daland gestisce la famiglia senza scrupoli di alcun tipo, Erik col tempo si uniforma all’andazzo generale, Mary è ambigua, e l’Olandese un famoso cantante del quale la minus habens di cui sopra s’invaghisce. Per finire il marinaio è un tipetto che stupra le ragazzine e fa il ruffiano. I costumi di Mari Benedek sono congrui allo spettacolo e cioè gridati e invadenti, allo stesso modo delle coreografie bombastiche di Dániel Ódor.
Per fortuna dal lato musicale le cose sono andate meglio.
Il direttore Michael Boder trova qualche momento suggestivo nell’Ouverture e in un passo teatrale incalzante, anche se qualche volta l’ottima Hungarian Radio Symphony Orchestra mostra un carattere piuttosto aggressivo, soprattutto negli ottoni e, a volte, nelle percussioni. Morbido e compatto, invece, il suono degli archi. Una maggior attenzione alle dinamiche avrebbe giovato al risultato complessivo.
Espressiva nel fraseggio, coinvolta nell’ingrata parte di una dropout, Elisabet Strid si fa apprezzare per una caratterizzazione di Senta tutto sommato accettabile grazie a una voce di timbro non proprio accattivante ma di buon volume e acuti sicuri. L’interpretazione però riesce fredda, priva di quella disperata sensualità allucinata che il personaggio pretenderebbe.
John Lundgren convince nonostante debba indossare i panni di un Höllander sradicato dal suo ruolo archetipo di maledetto privo di redenzione. La voce è timbrata, scura, sonora e facile agli acuti mentre perde corpo nei gravi. Il fraseggio però è mobile e vario e imponente la presenza scenica.
Liang Li se la cava discretamente ma il suo rendimento non esce dalla routine perché, almeno in quest’occasione, mi è parso privo di una personalità artistica ben definita.
Bravo Ric Furman nei panni di Erik, personaggio insidioso perché la scrittura della parte gravita sul passaggio, notoriamente una zona scomoda per la voce. Il tenore si fa apprezzare anche per il dispendioso impegno scenico.
Adeguata la prestazione di Bernadett Wiedemann, Mary, concreta e austera nel portamento. Molto bravo Franz Gürtelschmied, Steersmann dalla voce argentina e brillante.
Eccellente il rendimento del Hungarian National Choir e del Coro della Radio Symphony Orchestra.
Il pubblico ha apprezzato lo spettacolo ma mi è sembrato che l’accoglienza fosse sì positiva ma di circostanza, priva di quell’entusiasmo vibrante che aveva caratterizzato la serata precedente.
Holländer |
John Lundgren |
Senta |
Elisabet Strid |
Daland |
Liang Li |
Mary |
Bernadette Wiedemann |
Erik |
Ric Furman |
Steersman |
Franz Gurtelschmied |
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Direttore |
Michael Boder |
Regia |
Balázs Kovalik |
Scene |
Peter Horgas |
Costumi |
Mari Benedek |
Coreografie |
Daniel Odor |
Maestri del coro |
Zoltan Pad, Csaba Somos |
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Hungarian Radio Symphony Orchestra |
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Hungarian Radio Symphony Choir |
Hungarian National Choir |
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..e le lavatrici come hanno cantato?
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Ciao Marina, le lavatrici non erano neanche male, ciao!
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Ho recentemente visto un “Così fan tutte” su arte.tv ( https://www.arte.tv/fr/videos/065866-001-F/w-a-mozart-cosi-fan-tutte/ ) visibile fino al 16/6/18 ambientato in Africa orientale durante l’occupazione italiana. L’opera inizia in uno squallido bordello frequentato dai soldati italiani, affiancato da un oppositore locale torturato e donne nere tristemente disponibili. Le fidanzate italiane pian piano sono attratte dall’alternativa esotica, impersonata dai soldati ora mascherati da mezzi beduini della resistenza. Il finale porta una a un malinconico riavvicinamento, l’altra – ormai schifata – a un annunciato suicidio. Regia assolutamente inadatta, tuttavia inquietante e non del tutto banale. Ovviamente il teatro di Aix-en-Provence non se la prende con i francesi in Algeria, ma con gli italiani… ora come allora. Se uno vuole divertirsi, però, mangia bocconi amari.
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Furio, ciao. Anch’io in tanti anni ne ho viste di cotte e di crude e sono fortemente attratto da regie non banali. Non credo che riuscirà a vedere il Così che mi suggerisci ma quello che m’interessa sottolineare è che i pregiudizi, anche in questo campo, sono stupidi. C’è gente che valuta uno spettacolo da una foto e non ha senso. Bisogna mantenere un’indipendenza di giudizio che consenta di valutare con calma. Molti non lo fanno e si comportano come in politica, ragionando per schemi precostituiti. Boh una volta non si faceva così.
Ciao e grazie!
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