È impossibile cominciare la recensione del Don Carlo di Giuseppe Verdi allestito alla Fenice di Venezia prescindendo dal clima, nel senso più ampio del termine, in cui si è svolto.
Tutti sanno degli effetti della spaventosa ondata di marea di qualche giorno fa, che ha ostacolato – ma non è certo il danno maggiore – le prove dello spettacolo e messo tutti in condizioni psicologiche che definire difficili è pallido eufemismo.
Perciò, come ha sottolineato – forse dilungandosi un po’ troppo – il Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, un ringraziamento va a tutti coloro che sono riusciti a far sì che la prima prevista per ieri, 24 novembre, si svolgesse regolarmente.
Per sdrammatizzare un po’, dicevo ieri che La Fenice è l’unico teatro al mondo che non solo è risorto dalle proprie ceneri ma che si è pure scrollato di dosso le alghe (strasmile).
Robert Carsen, regista di questa produzione nata a Strasburgo nel 2016, amplifica le contraddizioni che sono insite nell’opera e trova motivazioni e scenari alternativi – questo è il teatro di regia – per spiegare i conflitti privati e pubblici che dilaniano la vita dei protagonisti. Condizioni di incompatibilità che sono ricorrenti nella drammaturgia verdiana, non sto neanche a fare esempi.
Carsen lavora per sottrazione e immerge i protagonisti in un incubo cupo in cui tutto è nero, buio, quasi impermeabile alla luce in senso metaforico. Gli spazi sono claustrofobici, limitati da geometrie e simmetrie che ne accrescono il potere ansiogeno e riducono Carlo – novello Amleto – quasi alla stregua di un uccellino che sbatte sulle pareti di una gabbia. Le luci radenti, violente, conferiscono all’allestimento una straordinaria complessità tridimensionale.
I costumi, ispirati all’iconografia ecclesiastica, sono senza tempo e solo qualche accessorio – la corona, il mantello di Filippo II – ci ricorda che la trama si svolge all’ombra di una corte regale. La Chiesa diventa una metafora del Potere e ne assume i connotati più tragici, che rimandano a episodi funesti e purtroppo di tragica attualità: roghi di libri, esecuzioni sommarie, annientamento del dissenso a qualsiasi costo.
Nulla è come appare. E proprio la considerazione che niente è come sembra contiene, in nuce, lo snodo creativo della visione del regista. 
Rodrigo, il leale marchese di Posa è in realtà un manipolatore che in accordo con l’Inquisitore trama per salire al Potere.
È una scelta forte, straniante e anche un po’ incongrua: ha fatto e farà discutere. Per certo l’allestimento è curatissimo, prezioso nel suo minimalismo e realizzato in modo eccellente dal lato scenotecnico.
Myung-Whun Chung, alla testa di una splendida Orchestra della Fenice che ha dato il meglio in tutte le sezioni, ha il grande merito di scegliere una via interpretativa coerente con la regia. Perciò i contrasti dinamici sono marcati, le agogiche stringenti e assolutamente congrue con la scelta di dare continuità alla narrazione teatrale che prevede un solo intervallo dopo la scena dell’autodafé. 
Formidabile la prestazione del Coro che, nella mia non proprio esigua esperienza, è una delle poche compagini capaci di mantenere compattezza anche quando deve cantare piano o pianissimo.
Omogenea è l’aggettivo più adatto per definire l’importante compagnia di canto, che prevede ben sei prime parti, tutte impegnate in arie solistiche o duetti famosi quando non celeberrimi e perciò facilmente esposti a confronti anche ingenerosi.
Alex Esposito ha tratteggiato un Filippo II ruvido e violento, appena screziato da una sottile malinconia espressa nel famoso monologo Ella giammai m’amò.
Piero Pretti si è ben disimpegnato nei panni del tormentato Don Carlo, dimostrando che la parte gli calza bene dal lato vocale. Forse un fraseggio più incisivo avrebbe dato un ulteriore valore aggiunto a una prova più che positiva.
Julian Kim è stato un Rodrigo di grande esuberanza vocale, magari non rifinitissimo nelle sfumature, ma il cui ostentato ardore calzava a pennello con la visione del regista.
Veronica Simeoni ha invece la capacità di fraseggiare con varietà d’accenti, ma gli acuti – segnatamente nel O don fatale – sono parsi sonori ma ghermiti.
Brava Maria Agresta nel delineare l’unico personaggio privo di ambiguità dell’opera: la sua Elisabetta commuove e convince, soprattutto nell’ultimo atto (Tu che le vanità) e nel duetto finale.
Monolitico e feroce il Grande Inquisitore di Marco Spotti, eccellente nel duetto fondamentale con Filippo.
Inoltre, le numerose scene d’insieme (duetti, terzetti, concertati) sono state risolte alla perfezione sia come amalgama vocale sia dal lato attoriale e la circostanza, in un teatro moderno, è assolutamente indispensabile.
Rendimento più che sufficiente per tutti gli altri artisti impegnati nelle parti minori, che trovate in locandina. Alla Fenice c’è sempre molta cura nella scelta delle parti di contorno e anche in questo caso è stato così e vale anche per il sestetto dei deputati fiamminghi.
Teatro esaurito e alla fine successo imperioso per tutta la compagnia artistica; do conto, per dovere di cronaca, di qualche sporadica contestazione alla regia.
Chi può vada a vedere questo spettacolo che per le ragioni espresse all’inizio non può che migliorare nelle prossime recite.
Direttore Myung-Whun Chung
Regia Robert Carsen
Assistente alla regia e movimenti coreografici Marco Berriel
Scene Radu Boruzescu
Assistente alle scene Serena Rocco
Costumi Petra Reinhardt
Luci Robert Carsen e Peter Van Praet
CAST
Filippo II Alex Esposito
Don Carlo Piero Pretti
Rodrigo marchese di Posa Julian Kim
Il grande inquisitore Marco Spotti
Elisabetta di Valois Maria Agresta
La principessa Eboli Veronica Simeoni
Tebaldo Barbara Massaro
Il conte di Lerma Luca Casalin
Un araldo reale Matteo Roma
Una voce dal cielo Gilda Fiume
Deputati fiamminghi
Szymon Chojnaki, William Corrò, Matteo Ferrara, Armando Gabba, Claudio Levantino, Andrea Patucelli
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
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Scusa, non ho capito se è la versione in 4 o in 5 atti.
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Roberto, ciao. È la versione in 4 atti (io preferisco quella in 5, ma pazienza).
Ciao e grazie!
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Anch’io preferisco la versione in 5 atti, ma negli ultimi anni in quasi tutti i teatri viene allestita la versione in 4 atti. Grazie a te. Ciao.
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Ciao, Paolo. Mi sembra di capire che la direzione di Chung non ti abbia entusiasmato. Ti è parsa un poco meccanica?
Ma che bello il duetto finale!
U
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Ulisse, che piacere, ciao! Diciamo che ho ascoltato Chung più ispirato in altre occasioni. Però, e non lo dico così per dire, credo che gli affanni dei giorni precedenti alla prima abbiano inciso non poco sul risultato finale. Almeno credo sia così, perché l’allestimneto di Carsen è tale da azzerare ogni retorica di speranza. La coerenza con la regia è fondamentale per a buona riuscita di uno spettacolo. Magari con un altro allestimento, meno claustrofobico, Chung avrebbe sottolineato in modo diverso alcuni momenti dell’opera; siamo nel campo delle fantasticherie, però.
Sicuramente nel Boccanegra di qualche anno fa l’afflato orchestrale era più ampio, meno tetro. Boh?
Ciao e grazie, è sempre un piacere leggerti. Paolo
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Ciao Amfortas! Leggo solo adesso la tua impeccabile – come sempre – recensione. Ho ascoltato alla radio e concordo con te sulla parte musicale: Chung non proprio al massimo, Esposito forse troppo “leggero” per il ruolo, Sulla regìa, non fatico ad immaginare che Carsen abbia messo in piedi uno spettacolo di alto livello. Però, accidenti, come si può accettare che la “musica” della morte di Posa supporti in realtà una perfida simulazione?
Ancora ciao!
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Daland, ciao, è un piacere rileggerti. Le tue perplessità sono le mie per la parte di Posa, però mi dai l’occasione per precisare una circostanza. Io mi considero un umile recensore di spettacoli lirici e non un critico nel vero senso della parola (quelli, a parer mio, non esistono quasi più). Perciò, quasi sempre mi astengo da considerazioni che non siano strettamente inerenti allo spettacolo nel complesso: quelle le lascio alle conversazioni private. Questo blog ha sempre avuto un’impronta divulgativa, snella – a suo tempo, come sai, anche più scanzonata – e preferisco mantenere codesta rotta.
Resta il fatto che hai perfettamente ragione, la musica scritta per Posa non suggerisce nulla di quanto poi succede sul palco. Nelle note di sala, Carsen sostiene che il suo compito e quello della regia in genere non sia solo la mera rappresentazione del libretto, ma anche e soprattutto immaginare scenari nuovi, sondare vie laterali alla vicenda. Io sono d’accordo con lui, soprattutto perché insieme al suo team allestisce spesso spettacoli memorabili.
In generale preferisco un teatro con qualche contraddizione che certe serate da straccioni “rispettosi” del libretto in cui incappo ogni tanto.
Ciao e grazie!
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