Era il 1973, se ben ricordo, e appena diciottenne bazzicavo il Politeama Rossetti di Trieste dove Giorgio Gaber (che ci manca tantissimo) presentava in anteprima nazionale i suoi spettacoli. In questo caso si trattava di “Far finta di essere sani” e da quelle serate fu tratto un doppio Long Playing che conservo gelosamente. All’interno, tra le tante perle, c’era una canzone che s’intitola “L’uomo che perde i pezzi”. Gaber, che era un lucidissimo visionario, nel suo campo era un testimone del tempo come lo sono gli street photographer in ambito fotografico. Cogliere l’attimo, anticipare una tendenza e testimoniare per i posteri. Zeitgeist, dicono i tedeschi, cioè cogliere lo spirito del tempo e consegnare al futuro una temperie culturale. Ora, cosa c’entra Gaber con la Street Photography? Forse niente, però durante il primo lockdown, quello primaverile, mi sono impegnato anch’io – come tanti, con risultati inferiori a molti – a dare testimonianza della tempesta della pandemia provocata dal Covid-19 e ho trovato ispirazione proprio nella canzone di Gaber. Attraverso il mirino della macchina fotografica ho voluto rappresentare un’umanità a pezzi e l’ho fatto in modo letterale, come potete vedere dalla serie di foto che allego. Certo, manca quella punta di ironia abrasiva del pezzo di Gaber ma io, appunto, non sono Gaber e soprattutto il mezzo impiegato è diverso. Sono andato sugli autobus, il mezzo di trasporto più popolare, e ho cercato di essere anch’io un testimone del tempo. Per dare uniformità di narrazione tutte le foto sono state scattate con un grandangolo, obbiettivo che in spazi ristretti mi ha consentito di “vedere” un ampio angolo di campo e che ha la caratteristica di distorcere i soggetti ritratti. Poi ho fatto un viraggio in bianco e nero volutamente cupo delle mie foto, usando varie tecniche di post produzione. Non sono certo “belle” foto secondo i comuni canoni estetici ma, a mia discolpa, devo dire che l’ho fatto apposta. Alla fine, quest’umanità a pezzi mi ha soddisfatto perché lo smembramento mi è sembrata una metafora efficace di ciò che stiamo vivendo da un anno: siamo interrotti, a brandelli, e lo siamo soprattutto mentalmente. Vi lascio con le mie foto e le parole e il video di Gaber.
Il polpaccio nella mia vita non è determinante Ne posso benissimo fare a meno Quando m’è caduto non me ne sono neanche accorto
Ahi!
Perdo i pezzi ma non è per colpa mia Se una cosa non la usi non funziona Ma che vuoto se un ginocchio ti va via Che tristezza se un’ascella ti abbandona
Che rimpianto per quel femore stupendo Ero lì che lo cercavo mogio mogio Poi dal treno ho perso un braccio salutando Mi dispiace che c’avevo l’orologio
Che distratto, perdo sempre tutto!
Passeggiavo senza stinchi col mio amore Ho intravisto nei suoi occhi un po’ d’angoscia Io l’amavo tanto e c’ho lasciato il cuore C’ho lasciato già che c’ero anche una coscia
A una festa con gli amici ho perso un dito “Ve l’ho detto di non stringermi la mano!” Son rimasto un po’ confuso e amareggiato Quando ho visto le mie chiappe sul divano
Che routine Che poi uno si smonta Guarda quello lì, c’ha ancora una tibia Che invidia
C’è qualcuno che comincia a lamentarsi “Che disordine in città”, io lo capisco Tutto pieno di malleoli e metatarsi A momenti scivolavo su un menisco
Come tutti perdo i pezzi piano piano C’è di buono che ragiono molto bene Ora c’ho praticamente un gran testone E un testicolo per la riproduzione
Ahi! Che disagio che umiliazione Va beh, vorrà dire che non farò sport Ahi!
La canzone di Gaber non la conoscevo. Mi ha molto colpita…sembra mi rappresenti, ogni giorno ho l’impressione di perdere qualcosa di me. Questa situazione mi sta facendo a pezzi.
Il tuo scritto è bello, articolato come solo tu sai fare. Con poche parole ci trasporti in situazioni e luoghi diversi. Le foto… raccontano di un mondo misterioso. Sei davvero bravo a trasmettere immagini e sensazioni!
Ciao Vitty, grazie per i complimenti, troppo buona. La fotografia è comunicazione, e dal momento che comunicare diventa sempre più problematico, cerco di usare tutte le risorse che ho a disposizione.
Non sei la sola a sentirsi smarrita, poco ma sicuro.
Ciao, Paolo
Concordo purtroppo con te, Amfortas: “siamo interrotti, a brandelli, e lo siamo soprattutto mentalmente”.
E lo sai bene, e mi onoro del fatto, che tante volte ci siamo trovati sulla stessa “linea del Piave”, ma come allora (sono passati appena 100 anni), prima o poi ne usciremo vittoriosi, pure se malconci.
E chi non rimpiange Gaber sul palco, solo, illuminato dall’occhio di bue, con la chitarra in braccio e una semplice sedia per appoggiarsi!
Le tue foto, Amfortas, che colpiscono per la loro sintetica immagine — volta a catturare situazioni di vita cittadina — piena di luci ed ombre, con carattere di metafora, quasi “anima dei luoghi”, spingono sempre più a pensare quanto sia costruttivo essere testimoni di questo “tempo senza tempo”.
Se posso azzardare un giudizio – e ti prego di scusarmi se sbaglio – mi appaiono “oppressive”, rilevando appunto il clima di oppressione che sta sulle nostre teste, nell’aria che ci circonda: i vari freddi manubri di appoggio e i verticali mancorrenti per sostenersi sugli autobus ci fanno sentire per come effettivamente siamo: in gabbia. La seconda e la sesta, secondo me molto inquietanti, un tempo potrebbero essere riportate, e forse studiate e commentate con un commiserante “così eravate ridotti?”
Rispondendo a Vitty — nel cui blog ho indicato la mia scherzosa, pur se valida, ricetta per un “vaccino anticovid”, volto a farci uscire da questa penosa situazione — hai scritto che “la fotografia è comunicazione” In effetti, se non sbaglio, i primi indicatori della crescita dell’uomo primitivo sono state le immagini delle mani che, circa 10.000 anni fa, compaiono riflesse, mutatis mutandis, in negativo sulle pareti di grotte rupestri (Cueva de las manos).
Anch’io quando andavo sugli autobus o in metropolitana, (oggi meglio, se possibile, andare pedibus calcantibus) cercavo di cogliere le immagini che mi si presentavano per rielaborarle in senso realistico, con un pizzico di ironia — che rileggo con nostalgia — per strappare un sorriso, ed oggi per smitizzare, qualora fosse possibile, la trista situazione che stiamo vivendo.
E così, se non disturbo, ripensando che mentre Gaber, nella maniera che hai ben sintetizzato nel post, evidenziava l’incapacità di far convergere gli ideali con il vivere quotidiano, cercavo io di evidenziare scherzosamente l’impossibilità di fare convergere desideri e realtà.
S A N T I B I R B A N T I
Un vecchio ieri in metropolitana
guardava una ragazza in décolleté,
fasciata in un vestito . . . una sottana,
direi piuttosto! . . . di maglina blé
. . . blé scuro, quasi nero, con bretelle
sottili come spaghi, che metteva
— sempre il vestito — in evidenza quelle
rotondità lievissime . . . Leggeva,
la poveretta, seduta con davanti
quel vecchio dallo sguardo un po’ invadente,
che invocava tutti quanti i Santi
perchè la sua età corrispondente
fosse all’età di quella . . . Ed i birbanti
vecchia resero quella, in tempo niente.
° ° °
Pelle di topo quel décolleté si fa . . .
schifato il vecchio scende e se ne va,
traendone l’amara conclusione:
non sbirci in donna giovane il vecchione.
La storia a dire il vero non finisce
chè quella, sceso il vecchio, rifiorisce,
il decolleté più splendido si fa,
guardare non si sa se qua o là,
chè dolce esplode infatti il ben di Dio
. . . O K, meglio che scendo pure io,
se no i Santi birbanti . . . et voilà,
rifanno quella vecchia e non mi va.
Lo faccio anche per lei, a ben pensare
che male ha fatto per dover cambiare
ad ogni sguardo di vecchiaccio età?
. . . lei che regala “aggratis” beltà!?
. . . che sparge con la massima eleganza,
e nonchalance, estatica fragranza!?
. . . che ciò che la Natura le ha dato
dona perchè da tutti apprezzato,
gustato a pieno sia, e goduto
dagli occhi almeno!? . . . Scendo e vi saluto.
Non prima di augurarle che di botto
dinanzi le si pari un giovanotto,
bello, adatto a lei, senza codino,
tatuaggi zero e senza orecchino
Ciao Sergio, hai letto nel modo corretto il mood delle foto, che appunto vogliono essere angosciose. Tu citi due della serie, in altri luoghi sono state citate altre. Questa diversità è tipica della valutazione – non nel senso di giudizio di valore, ma di trasmissione di un sentimento – di immagini altrui: tot capita tot sententiae, si potrebbe azzardare. Io, che ovviamente ho ben chiaro ciò che volevo esprimere, trovo che la più centrata sia l’ultima, incui si scorge “un pezzo” di un bambino. Sono loro, infatti, come in tutte le guerre, i più colpiti dalla pandemia: anche se non direttamente, perché il morbo infuria per gli adulti, i bambini e gli adolescenti sono costretti a una vita dimezzata. Non vanno o vanno poco a scuola, non socializzano, non sviluppano l’idea di comunità.
Grazie per le tue rime, che portano sempre un po’ di intelligente ironia su queste pagine!
Ciao, Paolo
Eh grande Gaberscik, secondo cugino di mia moglie, ma allora quando ai tempi del liceo siamo andati a vederlo, ovviamente non lo sapevo. Allora “La libertà” è stato un must per tutti noi.
La sua canzone e le tue foto mi ricordano la più recente “Pezzi” di De Gregori, tratta dalla dylaniana “Everything is broken”, decisamente più incalzante ma non così ironica e surreale.
Per apprezzare le tue immagini mi viene più in soccorso la psicoanalisi che l’estetica: pezzi di umanità, pezzi di corpi, stimolano tutti e cinque i sensi, si sente quasi l’odore. Prevalentemente donne, vorrà pur dir qualcosa.. pezzi di desiderio o desiderio a pezzi?
Un abbraccio
Pier
Ciao Pier 😀
Comincio con una puntualizzazione, forse inutile, per i viandanti: il vero cognome di Gaber era, appunto, Gaberščik.
Pier, le foto, in generale, possono essere lette in vari modi, dipende anche dal bagaglio culturale di chi guarda. Detto questo la psicanalisi è una chiave di lettura interessante proprio perché è lecita al pari di altre. Tu ci vedi donne, ma non era nelle mie intenzioni, anzi, perché l’idea era proprio quella della totale spersonalizzazione dell’essere umano. Poi che io possa avere pulsioni sessuali inibite alla meta di freudiana memoria questo è un altro discorso 😂
Le foto sono state scelte tra alcune centinaia, scattate tra aprile e maggio dell’anno scorso; alcune mi sono venute utili anche per altri progetti, ma non le ho riportate qui.
Bei tempi quelli del liceo, tu classico e io scientifico, ma comunque nell’ambito di una comunità studentesca cittadina in cui Gaber con La libertà spopolava. Ci sono altri Gaber, oggi? Non lo so, ma spero di sì.
Ciao, Paolo
La canzone di Gaber non la conoscevo. Mi ha molto colpita…sembra mi rappresenti, ogni giorno ho l’impressione di perdere qualcosa di me. Questa situazione mi sta facendo a pezzi.
Il tuo scritto è bello, articolato come solo tu sai fare. Con poche parole ci trasporti in situazioni e luoghi diversi. Le foto… raccontano di un mondo misterioso. Sei davvero bravo a trasmettere immagini e sensazioni!
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Ciao Vitty, grazie per i complimenti, troppo buona. La fotografia è comunicazione, e dal momento che comunicare diventa sempre più problematico, cerco di usare tutte le risorse che ho a disposizione.
Non sei la sola a sentirsi smarrita, poco ma sicuro.
Ciao, Paolo
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Concordo purtroppo con te, Amfortas: “siamo interrotti, a brandelli, e lo siamo soprattutto mentalmente”.
E lo sai bene, e mi onoro del fatto, che tante volte ci siamo trovati sulla stessa “linea del Piave”, ma come allora (sono passati appena 100 anni), prima o poi ne usciremo vittoriosi, pure se malconci.
E chi non rimpiange Gaber sul palco, solo, illuminato dall’occhio di bue, con la chitarra in braccio e una semplice sedia per appoggiarsi!
Le tue foto, Amfortas, che colpiscono per la loro sintetica immagine — volta a catturare situazioni di vita cittadina — piena di luci ed ombre, con carattere di metafora, quasi “anima dei luoghi”, spingono sempre più a pensare quanto sia costruttivo essere testimoni di questo “tempo senza tempo”.
Se posso azzardare un giudizio – e ti prego di scusarmi se sbaglio – mi appaiono “oppressive”, rilevando appunto il clima di oppressione che sta sulle nostre teste, nell’aria che ci circonda: i vari freddi manubri di appoggio e i verticali mancorrenti per sostenersi sugli autobus ci fanno sentire per come effettivamente siamo: in gabbia. La seconda e la sesta, secondo me molto inquietanti, un tempo potrebbero essere riportate, e forse studiate e commentate con un commiserante “così eravate ridotti?”
Rispondendo a Vitty — nel cui blog ho indicato la mia scherzosa, pur se valida, ricetta per un “vaccino anticovid”, volto a farci uscire da questa penosa situazione — hai scritto che “la fotografia è comunicazione” In effetti, se non sbaglio, i primi indicatori della crescita dell’uomo primitivo sono state le immagini delle mani che, circa 10.000 anni fa, compaiono riflesse, mutatis mutandis, in negativo sulle pareti di grotte rupestri (Cueva de las manos).
Anch’io quando andavo sugli autobus o in metropolitana, (oggi meglio, se possibile, andare pedibus calcantibus) cercavo di cogliere le immagini che mi si presentavano per rielaborarle in senso realistico, con un pizzico di ironia — che rileggo con nostalgia — per strappare un sorriso, ed oggi per smitizzare, qualora fosse possibile, la trista situazione che stiamo vivendo.
E così, se non disturbo, ripensando che mentre Gaber, nella maniera che hai ben sintetizzato nel post, evidenziava l’incapacità di far convergere gli ideali con il vivere quotidiano, cercavo io di evidenziare scherzosamente l’impossibilità di fare convergere desideri e realtà.
S A N T I B I R B A N T I
Un vecchio ieri in metropolitana
guardava una ragazza in décolleté,
fasciata in un vestito . . . una sottana,
direi piuttosto! . . . di maglina blé
. . . blé scuro, quasi nero, con bretelle
sottili come spaghi, che metteva
— sempre il vestito — in evidenza quelle
rotondità lievissime . . . Leggeva,
la poveretta, seduta con davanti
quel vecchio dallo sguardo un po’ invadente,
che invocava tutti quanti i Santi
perchè la sua età corrispondente
fosse all’età di quella . . . Ed i birbanti
vecchia resero quella, in tempo niente.
° ° °
Pelle di topo quel décolleté si fa . . .
schifato il vecchio scende e se ne va,
traendone l’amara conclusione:
non sbirci in donna giovane il vecchione.
La storia a dire il vero non finisce
chè quella, sceso il vecchio, rifiorisce,
il decolleté più splendido si fa,
guardare non si sa se qua o là,
chè dolce esplode infatti il ben di Dio
. . . O K, meglio che scendo pure io,
se no i Santi birbanti . . . et voilà,
rifanno quella vecchia e non mi va.
Lo faccio anche per lei, a ben pensare
che male ha fatto per dover cambiare
ad ogni sguardo di vecchiaccio età?
. . . lei che regala “aggratis” beltà!?
. . . che sparge con la massima eleganza,
e nonchalance, estatica fragranza!?
. . . che ciò che la Natura le ha dato
dona perchè da tutti apprezzato,
gustato a pieno sia, e goduto
dagli occhi almeno!? . . . Scendo e vi saluto.
Non prima di augurarle che di botto
dinanzi le si pari un giovanotto,
bello, adatto a lei, senza codino,
tatuaggi zero e senza orecchino
. . . e senza fiato che puzzi di vino.
(Sergio Sestolla)
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Grazie per le tue rime, che portano sempre un po’ di intelligente ironia su queste pagine!
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Eh grande Gaberscik, secondo cugino di mia moglie, ma allora quando ai tempi del liceo siamo andati a vederlo, ovviamente non lo sapevo. Allora “La libertà” è stato un must per tutti noi.
La sua canzone e le tue foto mi ricordano la più recente “Pezzi” di De Gregori, tratta dalla dylaniana “Everything is broken”, decisamente più incalzante ma non così ironica e surreale.
Per apprezzare le tue immagini mi viene più in soccorso la psicoanalisi che l’estetica: pezzi di umanità, pezzi di corpi, stimolano tutti e cinque i sensi, si sente quasi l’odore. Prevalentemente donne, vorrà pur dir qualcosa.. pezzi di desiderio o desiderio a pezzi?
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Pier
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Ciao Pier 😀
Comincio con una puntualizzazione, forse inutile, per i viandanti: il vero cognome di Gaber era, appunto, Gaberščik.
Pier, le foto, in generale, possono essere lette in vari modi, dipende anche dal bagaglio culturale di chi guarda. Detto questo la psicanalisi è una chiave di lettura interessante proprio perché è lecita al pari di altre. Tu ci vedi donne, ma non era nelle mie intenzioni, anzi, perché l’idea era proprio quella della totale spersonalizzazione dell’essere umano. Poi che io possa avere pulsioni sessuali inibite alla meta di freudiana memoria questo è un altro discorso 😂
Le foto sono state scelte tra alcune centinaia, scattate tra aprile e maggio dell’anno scorso; alcune mi sono venute utili anche per altri progetti, ma non le ho riportate qui.
Bei tempi quelli del liceo, tu classico e io scientifico, ma comunque nell’ambito di una comunità studentesca cittadina in cui Gaber con La libertà spopolava. Ci sono altri Gaber, oggi? Non lo so, ma spero di sì.
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