Federico Maria Sardelli è senza alcun dubbio uno dei principali direttori di musica barocca; lo è per capacità tecniche in primis, ma soprattutto per l’amore che ha dimostrato nei confronti del Barocco da sempre. Modo Antiquo, l’ensemble che ha fondato nell’ormai lontano 1984, è un punto di riferimento per la divulgazione e l’esecuzione della musica medievale e barocca.
Persona di grande cultura e arguzia, Sardelli è un artista a tutto tondo che conserva sempre quel tratto luciferino tipico degli spiriti liberi.
Alla testa dell’Orchestra del Teatro Verdi di Trieste, Sardelli sarà protagonista del prossimo concerto della rassegna “Giovani talenti”, che si potrà vedere sull’emittente regionale Telequattro sabato prossimo alle 21.00 e, in replica, domenica alle 23.30.
Potevo evitare di rivolgergli qualche domanda? Probabilmente sì, ma purtroppo sono curioso, perciò a seguire l’intervista che gentilmente mi ha concesso.
Maestro Sardelli, lei ha dedicato la sua vita artistica al Barocco. Come le è nata questa passione?
Da bambino ero circondato da musica, che risuonava in continuazione nella mia casa: era Beethoven, Haydn, Mozart, di cui mio padre era fervente appassionato. Per me la musica s’identificava con il classicismo e il romanticismo, non esisteva altro. Poi, un giorno, a undici anni, la folgorazione: in casa d’un pittore che abitava vicino a noi sentii un brano che mi colpì profondamente e m’innamorò: seppi che era il Tempo impetuoso d’Estate di Vivaldi. Avevo 11 anni e scoprii la musica barocca, che diventò una passione dominante: ogni ‘paghetta’ settimanale fu da allora destinata a comprare dischi e partiture di questo nuovo ed entusiasmante stile.
Cosa può insegnare, oggi, la musica barocca?
Molto, moltissimo. È, anzitutto, uno stile ricco, pieno d’immaginazione e d’idee. È uno stile che ha una forte componente ritmica, direi trascinante, una caratteristica che nei nostri tempi calamitosi piace molto: fate ascoltare a dei bambini un qualunque concerto di Vivaldi e inizieranno a muoversi e ballare. Inoltre, è lo stile dei contrasti coloristici, del chiaroscuro, delle passioni: dubito che ci sia qualcuno, ai nostri giorni, che non si commuova all’ascolto della ciaccona finale del Dido and Æneas di Purcell «When I am laid in earth», o non provi entusiasmo all’esordio del Gloria di Vivaldi. È un linguaggio – per quanto vario e mutevole nel corso del secolo e mezzo abbracciato impropriamente dalla definizione di «barocco» – che conosce oggi una diffusione straordinaria e continua a essere attraente. Ci insegna l’ordine, la simmetria, la geometria delle forme; e, al contempo, come violare intelligentemente questa simmetria mantenendo un equilibrio perfetto fra consonanze e dissonanze. Ci insegna che le regole son lì per essere osservate e anche un po’ disattese, ma sempre con grazia ed equilibrio.
Perché in Italia il Barocco è ai margini della programmazione dei teatri, al contrario di ciò che succede all’estero e in Francia in particolare?
Perché l’Italia è arrivata tardi, rispetto ad altre nazioni europee. Quando negli anni Settanta del secolo scorso nei Paesi Bassi, in Inghilterra e poi in Francia e in Germania si iniziava a far musica su strumenti d’epoca, eseguendo la musica pre-classica alla luce dei trattati e delle informazioni storiche, qui da noi si continuava a far Vivaldi o Bach alla maniera di sempre. Siamo arrivati in ritardo e scontiamo ancora questo ritardo. Oggi l’Italia annovera molti e ottimi gruppi specializzati nella musica barocca, ma il sistema di produzione teatrale è ancora legato alla tradizione belcantistica e se ne scolla raramente. Alcuni teatri italiani, secondo che siano retti da direttori artistici illuminati, programmano opere barocche, ma ancora non vi è quella consuetudine che ammiriamo in Francia o in Germania. Io sarò felice quando vedrò che Vivaldi e Händel saranno considerati operisti da mettere in cartellone al pari di Mozart, Rossini e Verdi.
L’ho chiesto anche al suo giovane collega Michele Spotti: cosa pensa dello streaming, avrà giocoforza un futuro o sarebbe meglio farne un uso diverso?
Come tutte le risorse tecnologiche e gli strumenti d’ogni tipo, possono essere buoni o cattivi secondo l’uso o l’abuso che se ne fa. Il cellulare è una benedizione, purché uno non vi stia incollato tutto il giorno a ciattare, Youtube offre un repertorio monumentale e utilissimo, purché non si creda che la musica debba essere ascoltata là sopra, etc. Lo strìming – me lo lasci deformare in italiano – è un modo utilissimo e benedetto per ascoltare o vedere spettacoli quando uno si è rotto una gamba e non può andare in teatro, oppure in caso di pandemia mondiale o invasione delle cavallette. La musica, il teatro, sono ovviamente un’altra cosa e, appena potremo tornare a vedere gli spettacoli dal vivo, saranno in pochi a rimpiangere l’ascolto e la visione sui tablet o i computer, funestati da zap zip e interruzioni di linea o da suoni scatolari. Ben venga dunque lo strìming, benedetto in questi giorni difficili, ma non crediamo che lo spettacolo e la musica possano esser da esso surrogati.
Il programma del suo concerto è davvero impegnativo. Qual è il criterio col quale è stato pensato?
Se mi avessero chiesto un titolo per sintetizzarne il senso, avrei detto: «Potere e musica in antico regime». Si parte dal Vespro di Monteverdi – i primi due salmi, Dominum ad adiuvandum me e Dixit Dominus – si passa all’ouverture del Malade imaginaire di Charpentier, la Passacaille d’Armide di Lully, un concerto per violino di Bach e si termina con la grande sinfonia Militare di Haydn. È la rappresentazione plastica del potere d’antico regime: il potere di Dio e della religione, dipinto dal saettante esordio dei salmi guerrieri di Monteverdi, il potere dei re, descritto nella glorificazione di Re Sole da parte dei suoi sudditi Charpentier e Lully, il potere della musica, di cui Bach è espressione, e infine il potere militare, immortalato dalla sinfonia di Haydn che ci descrive la fine d’un mondo dissolto di lì a poco dalla Rivoluzione.
Un bel cimento.
Ok, buio in sala e pronti all’ascolto!
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