Se la salute mi assiste vedrò una decina di serate di cui darò conto anche qui.
Nei giorni scorsi si è svolta, presso il glorioso Caffè San Marco di Trieste, la conferenza stampa di presentazione del 70°Festival di Lubiana, una manifestazione che OperaClick e questo blog, uniche testate in Italia, segue da anni con continuità. Il Festival, come ha sottolineato con giustificato orgoglio il direttore Darko Brlek, non ha mai subito interruzioni neanche in periodi bui come durante la tragica guerra dei Balcani o, più recentemente, in occasione della pandemia da COVID-19. Il programma, che come noto non prevede solo eventi legati alla musica lirica e classica ma spazia nel campo dell’Arte tout court, mantiene una stretta connotazione popolare che fa della capitale slovena un teatro a cielo aperto. Sono numerosi, infatti, anche eventi collaterali dedicati alla prosa, alla danza sino al musical e molto altro. Anche quest’anno le serate di particolare interesse sono tantissime: solo per restare nell’ambito della musica di cui si occupa il nostro magazine segnalo, tra le altre, il Requiem di Verdi diretto da Karel Mark Chichon che aprirà la manifestazione il 3 luglio e a seguire nei giorni successivi i recital di Juan Diego Flόrez diretto da Oksana Lyniv, La damnation de Faust di Berlioz con Sophie Koch, il concerto della coppia più famosa dell’opera Anna Netrebko e Yusif Ejvazov, il Recital di Placido Domingo sino ad arrivare al concerto conclusivo dei Wiener Philarmoniker diretti da Esa-Pekka Salonen. I trasferimenti da Trieste sono organizzati, come sempre, da Radioattività. Sul sito del Festival potete trovare il programma completo.
Con ogni probabilità i miei happy few si aspettano la recensione del Rigoletto di cui avevo scritto la presentazione pochi giorni fa. Purtroppo un malessere che mi ha colpito come fulmin scagliato da Dio, tanto per restare in tema, mi ha costretto alla ritirata [non scendo in particolari sordidi, ma è il termine appropriato (strasmile)] dopo il primo atto. Vi devo però un’altra notizia, bella per me – per quanto riguarda voi se avrete voglia mi direte – che riguarda un’altra delle mie passioni: la scrittura, che insieme alla fotografia, è uno dei modi in cui esprimo la (piccola) mia parte migliore. Tempo fa ho letto che la benemerita Associazione de Banfieldorganizzava un concorso letterario sul tema dei caregiver e ho deciso di partecipare assieme – ho saputo poi – a un altro centinaio circa di persone. Bene, il mio racconto si è classificato quarto e, soprattutto, ha ricevuto la Menzione Speciale dell’Ordine dei Giornalisti del Friuli Venezia Giulia, che è un riconoscimento che mi onora. Dal momento che in vent’anni di blog ho pubblicato altre volte racconti ed elucubrazioni varie nate dalla mia vecchia ma ancora attiva testolina, lo propongo e mi riprometto – come faccio sempre, peraltro – di rispondere in tempo ragionevole a tutti coloro che avessero domande o curiosità. Si intitola…
La zia quantistica
“Dai, forza, se continui a fare esercizi vedrai che tornerai a camminare di nuovo.” Mentivo sapendo di mentire. Infatti, con un sorriso bonario e stanco, papà mi rispose così: “Sei sempre stato un gran motivatore, ma come bugiardo non valevi un cazzo neanche da piccolo.” Fu l’ultima cosa che mi disse, perché poche ore dopo se ne andò da questa vita, uscendo da casa a testa in giù in una sacca nera. Certo, io per fargli l’ultimo omaggio lo feci accompagnare dalla sua prediletta Terza di Mahler diretta da Bernstein, quasi a volerlo tenere di qua ancora un po’. Un gesto ruffiano che ho fatto più per me che per lui, peraltro, quasi a volermi assolvere dal fatto che sono stato un figlio così così, nella migliore delle ipotesi. Ora bisognava affrontare un’altra questione, ed era terribilmente seria: chi e come avrebbe dato la triste notizia a sua sorella, mia zia? La quale zia aveva un nome antico, gentile, ma l’indole era quella di un pitbull che non mangia da un mese. O meglio, lo era a suo tempo, prima che un ictus ne domasse le esuberanze caratteriali e la dotasse di singolari super poteri. Sorniona, segaligna, incanutita e ormai quasi calva, distesa (sì, distesa) sulla sedia a rotelle riconosceva (forse) solo la badante. Noi nipoti e pronipoti eravamo troppi e ci chiamava con nomi a caso innescando surreali siparietti. “Paolo, senti…” “Zia, sono Franco.” “Ok, Giacomo devi dire a Paolo che…” “Zia, Giacomo non è qui, viene più tardi. E io sono sempre Franco, non Paolo.” “Franco, avverti la moglie di Paolo, Elena, che domani…” “Zia, no, la moglie di Paolo è Betta.” E così via. Nonostante il permanente stato confusionale continuava a fare le parole crociate, una delle passioni della sua vita, e quando leggeva, che ne so: 10 verticale, Padre di Aida, otto lettere, il suo Amonasro usciva subito. Non ne sbagliava una. Negli ultimi anni aveva scritto, in triestino, una specie di albero genealogico della famiglia a partire dal 1850 in poi e se le chiedevi come si chiamasse la moglie di qualche nostro trisavolo non solo lo sapeva, ma snocciolava anche le date di nascita e morte. Era zitella e aveva tutte le caratteristiche che nell’immaginario collettivo si attribuiscono alle donne non sposate e arrivate più o meno felicemente a una certa età. Negli anni era stata fiera e scorbutica oppositrice (eufemismo) di tutte le femmine che entravano – o cercavano di farlo, poverette – a far parte della nostra problematica famiglia. Lo faceva a prescindere, ex ante, la sua era una missione: trovare difetti e lati oscuri anche nelle pretendenti più limpide. Rossini, che amava molto, le aveva scritto il mantra: “Le femmine d’Italia son disinvolte e scaltre, e sanno più dell’altre l’arte di farsi amar.” Quest’atteggiamento aveva creato anche situazioni paradossali, tipo che mio nonno – suo padre, col quale abitava, rimasto vedovo giovanissimo – doveva lottare duramente per portare ogni tanto a casa la donna con cui stava da quasi trent’anni. Il nonno, che era un ragazzo del 99 – quello vero, il 1899 – e aveva fatto la guerra in trincea, diceva – scherzando? – che neanche gli shrapnel gli avevano messo tanta paura. Del resto, dal 1940 in poi circostanze luttuose l’avevano destinata a fare da mamma a stuoli di maschi infoiati, maldestri e testosteronici incapaci d’intendere e di volere e, soprattutto, non in grado di tenerselo nei pantaloni; perciò si era guadagnata sul campo il diritto di eseguire il lavoro sporco di selezione: qualcuno doveva pur farlo e lei era entusiasta dell’incarico. Tutte queste asperità si erano però stemperate in pochi attimi, quando la sua mente uscì da un ictus liscia, levigata, rendendola un’altra persona malgrado l’aspetto fosse sempre lo stesso. E, appunto, aveva perso quasi del tutto la memoria a breve termine. Io e mio fratello, visto che le circostanze ce lo imponevano, ci dividemmo i compiti: a me papà, mentre lui si sarebbe occupato di zia. Ci rivolgemmo a un’agenzia specializzata che trattava l’allocazione di badanti, quasi tutte provenienti dall’Est europeo, che per noi triestini in molti casi è a pochi chilometri da casa. La legge sull’assunzione di queste benedette signore, dopo la giungla dei primi anni, era diventata più severa e più giusta ma imponeva anche costi davvero rimarchevoli. Insomma, si prospettavano sacrifici importanti e rinunce dolorose. Beh, a posteriori posso affermare con certezza che non rimpiango certo i soldi spesi, perché almeno abbiamo garantito una vita dignitosa ai nostri cari. Per poter assumere la badante regolarmente era necessario darle la residenza nell’abitazione della zia e ristrutturare l’appartamento. Ci sembrava un ostacolo insormontabile, perché la vegliarda era vissuta sempre con mio nonno o da sola, quando lui se ne andò perché non era stato capace di uscire da un bicchiere. In realtà le nostre erano preoccupazioni eccessive perché, approfittando di una sua forzata sosta in ospedale, mettemmo tutto a posto in una quindicina di giorni. Quando tornò a casa non si accorse di nulla, credo: neanche che avevamo violato la sacra camera del nonno, che era rimasta chiusa a chiave per quarant’anni. Zia sopravvisse a papà per quasi un decennio e col tempo le sue condizioni fisiche e psicologiche peggiorarono molto. Parlava di rado e spesso i suoi discorsi erano inintelligibili come certi quadri d’avanguardia in cui, a stento, si intuisce qualcosa. Spesso fummo costretti a ricoverarla in ospedale e lei neanche se ne accorgeva, non aveva più orizzonti, era persa in una nebbia persistente e senza tempo in cui lo spazio, il passato, il presente e il futuro erano diventati concetti vuoti. In un certo senso si può dire che abbracciò le teorie di Einstein. Ormai quasi trasparente, respirava piano, con un soffio impercettibile, tanto che qualche volta guardandola non si capiva se fosse viva o morta: la Zia di Schrödinger. Ma torniamo al punto. Il giorno dopo la dipartita di papà io e mio fratello andammo a casa sua per portarle la triste notizia. Eravamo più terrorizzati che addolorati, tanto temevamo di aggravare la sua condizione psicologica. Entrammo e lei, con uno sguardo vuoto, ci fissò. Era palese che non ci avesse riconosciuti. Dissi con tono grave: “Zia…” ma lei mi bloccò e mi chiese subito: “Come sta papà?” Gelo. “Zia – ripresi – stanotte papà è morto.” Silenzio. “Che bel mulo… – disse guardando il soffitto – el iera un bellissimo mulo”. E scoppiò in un pianto dirotto, che strappava l’anima. Siamo stati lì ancora un po’, a chiacchierare con la sua badante, guardando e riguardando l’ultima foto in cui fratello e sorella erano insieme, scattata un paio d’anni prima. Erano entrambi provati dalle malattie e da una vita ingenerosa, ma sembravano felici. Poi ce ne andammo, ognuno a casa propria. Passarono un paio di settimane e tornai da lei a portarle dei biscotti. Appena entrato mi guardò e disse: “Come sta papà?” “Zia, papà è morto, te l’ho detto poco tempo fa.” Silenzio. “Che bel mulo… – disse guardando il soffitto – el iera un bellissimo mulo”. E ricominciò a piangere, forse ancora più violentemente della prima volta. Ero sconcertato e tristissimo perché a queste situazioni nessuno è mai preparato. Me ne andai e tornai a casa, ma dentro di me c’era una burrasca di sentimenti contrastanti. Allora, soprattutto per sincerarmi che stesse bene la chiamai al telefono. Rispose la signora slovena che la accudiva: “C’è Paolo per te, te lo passo?” “Chi?” – sentii dire – “Paolo, tuo nipote.” “Sì, passamelo.” “Ciao zia, come va?” “Ah, solito, papà come sta?” Sorrisi amaro, ma sorrisi. Perché aggiungere dolore a dolore, che diritto avevo? Allora risposi. “Bene zia, papà sta bene e ti saluta.” Che poi, chissà, era anche vero.
A pochi giorni dall’atteso Rigoletto si è svolto al Teatro Verdi di Trieste un “Concerto di primavera” interessante e raffinato, che prevedeva due pagine musicali di rara esecuzione firmate da Igor Stravinskij e Benjamin Britten. I brani sono sostanzialmente coevi – risalgono entrambi a metà Novecento del secolo scorso – e hanno in comune una laica religiosità che si esprime con atmosfere tipiche della musica corale sacra. La Cantata per soli, coro femminile e cinque strumenti di Stravinskij, eseguita in apertura di serata, è stato il primo passo del compositore verso la musica dodecafonica e si basa su testi poetici medievali di autore ignoto. La struttura, che si compone di sette parti, prevede oltre al coro femminile tre interventi molto impegnativi di tenore e soprano affidati a due artisti del coro della fondazione: il soprano Luisella Capoccia e il tenore Francesco Cortese. Entrambi sono usciti bene da una prova difficile, nonostante un piccolo incidente proprio nel finale del Ricercar per il bravissimo Cortese, brillante a destreggiarsi in una parte lunga e soprattutto scomodissima per tessitura vocale. Buona anche la prova del soprano, che ha messo in mostra una voce piccolina ma educata. Eccellente l’apporto del coro femminile e dei professori d’orchestra: Valter Zampiron e Daniele Porcile al flauto, Giovanni Scocchi all’oboe e corno inglese, Matteo Salizzoni al violoncello e Marco Bardi all’oboe, che ha sostituito la prevista Paola Fundarò. A seguire è stata eseguita A ceremony of Carols di Britten – anche in questo caso i testi sono parzialmente anonimi – un lavoro singolare e di grande fascino in cui il coro femminile è protagonista assoluto. Diviso in tre parti (Procession, Carols e Recession) prevede anche un interludio per arpa sola, qui interpretato dalla puntuale Sofia Marzetti, e due brevi interventi solistici di soprano e contralto (brave Vida Matičič Malnaršič e Anna Katarzyna Ir). L’esecuzione è stata emozionante grazie al clima raccolto e al contempo brillante creato dal coro, capace di esprimersi con sentimento e precisione. Paolo Longo, da quest’anno alla testa del coro della fondazione, ha diretto la “sua” compagine con la consueta passione in un repertorio che ama e che gli è particolarmente congeniale. Pubblico scarso ma partecipe e generoso di applausi per una serata gradevole che si è chiusa con il bis di una Carol. Un appunto al management del Verdi: forse sarebbe il caso, a maggior ragione quando si ascoltano brani non troppo noti, di stampare un libretto di sala meno striminzito.
gor Stravinskij
Cantata per soli, coro femminile e cinque strumenti
Premetto che parlare del Rigoletto in maniera non voglio dire esauriente, ma anche solo parzialmente soddisfacente è impossibile. C’è una letteratura sterminata che descrive nei particolari questo lavoro di Giuseppe Verdi, e gli argomenti d’affrontare sono davvero tanti e tutti di estremo interesse. Rigoletto è un lavoro popolarissimo e credo che oggi identifichi la musica di Giuseppe Verdi nell’immaginario collettivo come nessun’altra opera, con la sola eccezione della Traviata. È sempre stato così, basta guardare la cronologia delle rappresentazioni di un qualsiasi teatro italiano: ci sono Rigoletti a centinaia. Alcune melodie o versi – penso alla canzone La donna è mobile ma anche a frasi quali vendetta tremenda vendetta – sono divenute proverbiali. In questa presentazione mi soffermerò un po’ sulla genesi dell’opera sino al debutto che avvenne alla Fenice di Venezia, l’11 marzo 1851. Forse è opportuno cominciare con le parole di Verdi stesso, espunte (non so che voglia dire, ma mi pare ci stia bene) da una lettera a Francesco Maria Piave:
Tentate! Il sogetto è grande, immenso, ed avvi un carattere che è una delle più grandi creazioni che vanti il teatro di tutti i paesi e di tutte le epoche. Il sogetto è Le Roi s’amuse, ed il carattere di cui ti parlo sarebbe Tribolet che se Varese (Felice Varesi) è scritturato nulla di meglio per Lui e per noi. P.S. Appena ricevuta questa lettera mettiti quattro gambe: corri per tutta la città, e cerca una persona influente che possa ottenere il permesso di fare Le Roi s’amuse. Non addormentarti: scuotiti: fa presto. Ti aspetto a Busseto ma non adesso, dopo che avranno scelto il sogetto.
Siamo nel 1850 e Verdi doveva onorare un contratto con la Fenice di Venezia. All’inizio il compositore si era orientato a musicare un altro testo, ma fu folgorato (o quasi, a dire il vero) sulla via di Victor Hugo (smile). E Piave dietro di lui. Il problema principale, al solito, era la stretta censura. In questo senso Piave fu rassicurato anche dal responsabile della Fenice, Carlo Marzari. Indarno indarno, perché pochi mesi dopo sorsero i primi problemi.
Verdi allora scrisse una lettera piuttosto esplicita a Marzari stesso:
Il dubbio che Le Roi s’amuse non si permetta mi mette in grave imbarazzo. Fui assicurato da Piave che non eravi ostacolo per quel sogetto, ed io, fidando nel suo poeta, mi posi a studiarlo, a meditarlo profondamente, e l’idea, la tinta musicale erano nella mia mente trovate. Posso dire che per me il principale lavoro era fatto. Se ora fossi costretto appigliarmi ad altro sogetto, non basterebbe più il tempo di fare tale studio, e non potrei scriver un’opera di cui la mia coscienza fosse contenta.
A questo punto Marzari chiese che gli fosse mandato il libretto, in maniera da poterlo valutare e sottoporre al giudizio delle autorità competenti. Tutte queste precauzioni e reticenze perché il dramma teatrale di Hugo aveva sollevato scandali tremendi in Francia e in Germania. Addirittura, a Parigi, dopo l’esordio del 1832, Le Roi s’amuse non andò più in scena sino al 1882, a causa “della dissolutezza di cui era gonfio”. Il lavoro però fu pubblicato e Hugo stesso nella prefazione spiegò le motivazioni che l’avevano indotto a scrivere un dramma così scandaloso per il tempo. Nelle prime righe di questo scritto c’è un ritratto definitivo del personaggio principale, che non lascia spazio a troppe interpretazioni. Anche a distanza di tanti anni, trovo che sia la descrizione migliore dei tratti distintivi di Rigoletto. Scrive infatti Hugo:
Triboulet è deforme, Triboulet è malato, Triboulet è buffone di corte; triplice infelicità che lo rende cattivo. Triboulet odia il Re perché è il Re, i gentiluomini perché sono gentiluomini, gli uomini perché non hanno tutti una gobba sulla schiena. Il suo passatempo è di mettere continuamente in urto tra di loro i gentiluomini e il Re, facendo spezzare il debole contro il più forte.
Però non era certo questa manifestazione disperata di cattiveria – forse un po’ smorzata nella rielaborazione verdiana – che rendeva il testo pericoloso agli occhi della censura, il problema stava nella fama di rivoluzionario di Hugo e nella trama, che prevedeva un re dai comportamenti assai poco regali, che violenta la moglie di un cortigiano, va a puttane per taverne di dubbia fama e seduce una ragazzina. Il Potere, a qualsiasi tempo e latitudine, non ha mai voluto e mai vorrà essere rappresentato come irrimediabilmente corrotto e, infatti, il governatore militare di Venezia proibì qualsiasi esibizione del dramma, modificato o meno. Non solo, si lamentò che due personalità come Piave e Verdi avessero scelto un soggetto che non faceva onore alla loro arte, zeppo com’era di ributtante immoralità ed oscena trivialità. Dopo interminabili peripezie, patteggiamenti e casini vari che videro coinvolti tutti, da Verdi a Marzari, a funzionari dell’Ordine Pubblico e potentati vari si giunse ad un accordo. L’azione fu spostata nei tempi e nei luoghi, qualche scena fu attutita nelle parti più scabrose, i nomi dei protagonisti cambiati in modo che non echeggiasse, neanche da lontano, a chi si faceva riferimento. Invece di La maledizione l’opera si chiamò Rigoletto, come il protagonista. Furono risolti anche i consueti problemi di cast. Alla fine Felice Varesi fu scelto per la parte di Rigoletto, il tenore Raffaele Mirate (un Moriani giovane – disse Piave -) interpretò il Duca. Per la parte del soprano Verdi pensò alla brava e affidabile Teresa De Giuli (che abbiamo già incontrato come creatrice di Lida nella Battaglia di Legnano), ma la signora rifiutò. Furono scartate anche altre primedonne, quali Sofia Cruvelli, Giulia Sanchioli e Virginia Boccabadati (figlia di Luisa, anche lei soprano attivissimo negli anni precedenti). Alla fine la scelta cadde su Teresina Brambilla.
La prima ottenne un successo notevolissimo di pubblico mentre i critici (vil razza dannata, strasmile) furono più cauti quando non addirittura scettici sul valore dell’opera, esponendosi così al ludibrio e allo scherno dei posteri. Chissà se succederà anche a me, qualche volta ci penso… Qualcuno scrisse che Verdi guardava troppo avanti, altri che guardava indietro, a Mozart. Ci fu chi giudicò l’opera banale e chi invece troppo audace e di gusto dubbio. Si distinsero due critici inglesi, quello del “Times” che definì Rigoletto l’opera più debole di Verdi e tale Chorley, che addirittura si spinse a scrivere di una musica puerile e ridicola, piena di volgarità e di eccentricità e povera d’idee. Non male come bestialità, direi. Eppure questa musica che oggi in molti, specialmente tra i melomani, danno per scontata, ai tempi del debutto è stata considerata rivoluzionaria perché in qualche modo si allontanava dalla tradizione consolidata, che concepiva la lirica esclusivamente come espressione di pura vocalità. Le critiche del tempo, cui ho già accennato, sono lì a testimoniarlo. La rivoluzione verdiana sta proprio nella novità della concezione teatrale, che vede la melodia strettamente legata alla drammaturgia. Una simbiosi perfetta che si esplicita, per esempio, con i duetti che sono addirittura cinque. Michele Girardi nel suo saggio per la Fenice rileva come:
“la figura (di Rigoletto) venga definita all’interno di un sistema di relazioni col mondo intimo dei propri affetti, in aperta dialettica col mondo esterno in cui talora si specchia”
Il che è certamente vero, ma è anche indiscutibile che Rigoletto è costretto a rifugiarsi nel privato perché riconosciuto dal mondo esterno come diverso, in ragione della sua difformità fisica. Verdi è anche il compositore del diverso: si pensi ad Alvaro, a Otello, percepiti dall’esterno con sospetto per il colore della pelle. E alla fine si può ben dire che Rigoletto, nonostante i tanti duetti – che implicano interazione e quindi potenzialmente conoscenza tra i personaggi – sia opera d’incomunicabilità e di claustrofobia dei sentimenti. I dialoghi sono improduttivi con la figlia Gilda, sono assenti col Duca. L’unico personaggio col quale Rigoletto interagisce realmente è Sparafucile, il sicario. Non è un caso perché Sparafucile è necessario a Rigoletto per la sua vendetta e anche perché è un personaggio di rango inferiore, non è un nobile cortigiano. Non è un caso – ma è chiaro solo nella stesura originale del dramma di Hugo – che Rigoletto si rivolga a Marullo senza il consueto disprezzo nella terribile quarta scena del secondo atto (tu c’hai l’alma gentil come il core, dimmi tu dove l’hanno nascosta?). Marullo è sì un cortigiano, ma ha provenienza popolare. Segnalo anche un illuminante intervento di Alberto Moravia, che si riferisce in generale all’opera drammaturgica di Hugo e Verdi, ed è quindi pertinente anche per il Rigoletto e l’opera in genere.
“I personaggi di Hugo sono prima che uomini, uomini del medioevo e del rinascimento e pertanto sono oggi illeggibili o non rappresentabili. Verdi, lui, non credeva affatto nella storia né come evasione né come ricostruzione. I suoi personaggi sono fuori della storia anche se sono in costume. Così ci interessano tutt’oggi appunto perché sono prima di tutto uomini, e poi uomini del medioevo e del rinascimento. Noi spettatori ci possiamo quindi confrontare con loro al di là del tempo e dello spazio. Concludo questa mia pallosissima elucubrazione con un ricordo personale. Come detto in apertura, Rigoletto è stato rappresentato ovunque molto spesso e Trieste non fa eccezione. Tra le tante produzioni ce ne sono tre in particolare di cui ho una testimonianza indiretta, attraverso i ricordi di mio padre che da qualche tempo non c’è più. Si tratta degli allestimenti del 1934, 1940 e 1942, sempre al Politeama Rossetti – a quei tempi la lirica si faceva ovunque, era popolare davvero – con il leggendario Carlo Galeffinella parte del protagonista. Mi diceva papà che il grande baritono percorreva in lungo e in largo il palcoscenico tenendo una corona interminabile su “un vindice avraaaaaaaaaaaaai sììììììììììììì vendetta tremenda vendetta”, mandando in visibilio il pubblico. Questa registrazione sembra confermarlo:
Altri tempi, altri uomini, altri spettatori. Insomma, con un po’ di fatica (mia nel cercare di sintetizzare vicende complesse) e soprattutto vostra nel leggere questa lenzuolata, siamo arrivati alla fine di questa presentazione.
Hanno detto: