Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Archivi Mensili: novembre 2022

Recensione seria dell’ultimo concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi: Gianna Fracca e Alessandro Traversa trionfano con Zemlinky, Rachmaninov e Stravinskij

L’ultimo appuntamento della stagione sinfonica triestina si è rivelato un gran successo, sia per gli indiscutibili esiti artistici sia per l’ottima affluenza di pubblico, con larga partecipazione di giovani.
C’erano svariati motivi di interesse ieri sera: il programma, stimolante, la partecipazione del coro e la presenza sul podio dell’orchestra della fondazione di Gianna Fratta oltre che l’intervento come solista di Alessandro Taverna, eccellente pianista che ha emozionato col suono bellissimo del Fazioli gran coda.
Unico neo – ché la critica questo deve fare, dare suggerimenti onesti – la mancanza di due paginette di presentazione del concerto, a maggior ragione nel momento in cui in scaletta sono proposte pagine musicali non frequentatissime come Petruška di Stravinskij e il Salmo 83 per Coro e orchestra di Alexander von Zemlinsky, di cui si poteva proporre almeno il testo.
Appunto il Salmo ha aperto la serata, con l’emozionante incipit degli archi gravi che ha creato un’atmosfera tesa, presto stemperata dagli interventi del Coro in gran forma e dagli echi prettamente mahleriani – penso soprattutto all’uso degli ottoni e degli archi – del proseguo.
Il Coro, preparato da Paolo Longo, si è ben disimpegnato cantando con potenza e dolcezza allo stesso tempo, in un brano che presenta comunque un ordito orchestrale importante. Bravissima Gianna Fratta sul podio che con gesto deciso ha guidato l’Orchestra del Verdi a una brillante esecuzione. Buono il contributo dei quattro solisti, professori del coro, che trovate in locandina.
Sul Concerto per pianoforte n. 3 in re minore, op. 30 di Sergej Rachmaninov c’è tanta letteratura e credo sia una delle pagine per pianoforte e orchestra più note e apprezzate, anche grazie all’enorme successo mediatico del film Shine della metà degli anni 90 del secolo scorso, che ne ha amplificato – con non poche forzature, peraltro – la popolarità.
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, di là del virtuosismo, il concerto richiede un notevole dispendio di energie fisiche, perché il solista non ha un attimo di pace.
L’interpretazione di Taverna è stata veramente eccitante e artisticamente straordinaria, perché in una partitura infuocata e geniale ma spesso ridondante, opima, a tratti anche effettistica, ha trovato il modo di ammorbidire un certo retrogusto declamatorio con la dolcezza e la leggerezza del tocco, un uso del pedale controllato e una varietà di dinamiche che hanno ingentilito e sfumato la narrazione creando atmosfere quasi oniriche.
In questa maniera si sono evidenziate sia l’anima romantica tardo ottocentesca sia quella, meno epidermica, che si scrolla di dosso la tradizione e guarda al presente, a certe oasi liriche di Ravel e all’impressionismo di Debussy.
Gianna Fratta ha ben diretto l’orchestra, gestendone con precisione la ritmica, le agogiche e valorizzando gli interventi dell’oboe, del clarinetto e del flauto.
Alessandro Taverna ha raccolto un trionfo personale e ha premiato il pubblico con un delizioso bis bachiano – l’arrangiamento dell’aria per soprano Schafe können sicher weiden – che ha fatto riflettere sulla grandezza incomparabile di questo compositore, che con “quattro note” otteneva risultati stratosferici.
Dopo l’intervallo è stata la volta di Petruška di Stravinskij, nella versione del 1911.
In questo caso Gianna Fratta ha tratto il meglio dall’Orchestra del Verdi, che in tutta la serata ha dato una preclara dimostrazione di maturità e classe.
Con Stravinskij non si può scherzare: l’atmosfera tesa e al contempo grottesca, fortemente drammatica ma screziata di continuo da un’ironia che spesso sfocia in un sarcasmo crudele non consente distrazioni.
L’uso sistematico delle percussioni, le dissonanze, la varietà di temi anche divergenti devono convivere in modo armonico e unitario che rievoca la follia del carnevale in tutte le sue sfaccettature.
La folla, l’ubriacatura della festa, le contraddizioni dell’anima e della mente si aggrovigliano in un viaggio interiore che procede parallelo e forse anticipa con un linguaggio diverso certe pagine di un romanzo come La montagna incantata di Mann, in cui i dialoghi sembrano perdersi nell’infinito ma alla fine ritrovano equilibrio e armonia chiudendo alla perfezione un cerchio tracciato con mano incerta.
Gianna Fratta è stata capace di un’ottima interpretazione, aggressiva, intensa ma anche poetica; soprattutto attraverso il gesto e la mimica ha comunicato all’orchestra e ai presenti la sua gioia di fare musica. Anche per lei il pubblico triestino ha riservato applausi e acclamazioni, più che meritate.

La locandina

Alexander von ZemlinskySalmo 83 per soli, coro e orchestra
Sergej Vasil’evič RachmaninovConcerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re min. op. 30
Igor’ Fëdorovič StravinskijPetruška, scene burlesche in quattro quadri
  
DirettoreGianna Fratta
PianoforteAlessandro Taverna
  
SopranoFrancesca Palmentieri
ContraltoElena Boscarol
TenoreFrancesco Paccorini
BassoGiuliano Pelizon
  
Maestro del CoroPaolo Longo
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  



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Il violoncellista Ettore Pagano incanta il pubblico del Teatro Verdi di Trieste.

Il penultimo appuntamento con la stagione sinfonica triestina prevedeva lavori di due compositori che più diversi non si può, non tanto per l’ovvia distanza temporale delle due pagine musicali quanto per i caratteri dei personaggi coinvolti. In sintesi: una vita piuttosto grigia e monotona per Franck e un’esistenza scoppiettante e tormentata per Shostakovich, caratteristiche che mi pare risultino evidenti anche nei brani proposti.
Al cospetto di un pubblico numeroso, la serata ha avuto inizio con il Concerto per violoncello n. 1 in mi bemolle maggiore op. 107 di Shostakovich.
Dedicato a Rostropovich, che ne fu anche il primo interprete nel 1959, il concerto è strutturato in quattro movimenti e ha trovato nel giovanissimo (19 anni!) Ettore Pagano un interprete formidabile.
L’orchestra in toto, in formazione poco più che cameristica e guidata per l’occasione con precisione da Frédéric Chaslin, è nel complesso davvero ancella del solista, con la parziale eccezione dell’Allegretto iniziale in cui si percepiscono nettamente echi della Leningrado.
Ma Ettore Pagano ha rubato la scena in modo brutale a tutti sin dalla prima nota, aggredendo lo strumento quasi con ferocia e soprattutto con una maturità espressiva sorprendente per un artista così giovane. Il suo è un virtuosismo stellare e al contempo viscerale, quasi selvaggio – certo, la scrittura si presta a un’interpretazione infuocata – che ha sprigionato vigore e sensualità non solo nella Cadenza ma anche nell’oasi lirica più meditata del secondo movimento (Moderato).
Pagano, che ha raccolto un trionfo personale più che meritato, ha confermato la mia idea di un rapporto simbiotico col suo violoncello scegliendo come bis un emozionante pezzo di Giovanni Sollima: Lamentatio per voce e violoncello.

Nella seconda parte le note sono state meno liete perché la Sinfonia in re minore di César Franck ha patito di un’esecuzione di routine, a voler essere generosi, da parte di Frédérich Chaslin, nonostante la buona prova dell’Orchestra del Verdi e in particolare degli archi. Chaslin a fronte di dinamiche anche troppo generose ha scelto agogiche quasi slentate, stiracchiate e allo stesso tempo frettolose. In questo modo i diversi caratteri della pagina e i numerosi cromatismi sono affogati in un magma sonoro senza nerbo che mi ha ricordato certi piatti da All you can eat, di sapore forse non sgradevole ma sicuramente sciapo.
In ogni caso – probabilmente è quello che conta davvero – il pubblico alla fine ha applaudito e chiamato al proscenio il direttore, che ha più volte ringraziato la compagine triestina.

Dmitri ShostacovichConcerto per violoncello n. 1 in mi bemolle maggiore op. 107
César FranckSinfonia in re minore
  
DirettoreFrédéric Chaslin
VioloncelloEttore Pagano
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

Recensione seria di Falstaff al Teatro La Fenice di Venezia: il vecchio John convince anche in laguna con la sua eterna giovinezza

Mancavo dal Teatro La Fenice da un anno e il caso ha voluto che dopo aver visto qualche settimana fa a Trieste la penultima opera di Verdi mi imbattessi nel Falstaff, che del Compositore è il lavoro estremo e forse il testamento spirituale.
Entrambe le opere, Otello e Falstaff, sono tratte da Shakespeare e il librettista è il grande, grandissimo, Arrigo Boito.
Alberto Moravia, nella sua attività di critico cinematografico, ha scritto che “quando si parla di un film tratto da un libro è indispensabile questionare sul film e non sul libro”: mi pare che, mutatis mutandis, sia una considerazione che valga anche per il complesso rapporto testo teatrale/libretto d’opera. Sono linguaggi differenti che esprimono discipline artistiche che a tratti si compenetrano attraverso una grammatica diversa.
Verdi nelle sue lettere a proposito di Falstaff scrive:
Scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio e per conto mio! Forse la più vera definizione di creatività che sia mai stata pronunciata, quella ispirazione geniale che ha consentito a Verdi di passare dalle fosche tinte di Otello all’atmosfera surreale e leggera di Falstaff, opera comica, che non frequentava dai remoti esordi.
Da sempre gli appassionati si pongono una domanda: qual è il vero Verdi? Quello delle cabalette infuocate degli anni di galera o quello artisticamente più sfumato e raffinato del Falstaff?
Evidentemente si tratta di una domanda oziosa, forse solo un escamotage per discorrere una volta di più di un compositore straordinario, amatissimo ovunque e i cui lavori sono da sempre tra i più rappresentati. L’Arte di Verdi è ben simboleggiata sia dalla Battaglia di Legnano sia da Falstaff, ultimo lavoro operistico del Maestro, proprio perché ne rispecchiano la parabola artistica e umana.
Adrian Noble, regista, ha le idee chiare: nessun volo pindarico, il suo Falstaff è scespiriano nei luoghi – un’accurata ricostruzione del Globe Theatre – e nello spirito. Le scene (Dick Bird) sono ricche, forse qua e là l’horror vacui fa capolino – il finale è davvero sovraffollato – ma lo spettacolo funziona. I tempi della garbata comicità della vicenda sono perfetti, le controscene meditate e mai soverchianti e si intuisce che Noble ha lavorato parecchio con i cantanti per ottenere un amalgama non solo artistico ma anche spirituale. Anche i movimenti coreografici, di Jeanne Pearce, contribuiscono – pur con qualche ingenuità – alla riuscita dello spettacolo.
I costumi d’epoca (Clancy) sono saporiti, anche se in qualche occasione il kitsch è a un passo, mentre è splendido tout court il lavoro dei light designer Jean Kalman e Fabio Barettin che alternando luci diffuse e fortemente direzionali creano il mood – ora comicamente misterioso ora sereno – dei sei quadri della trama.
Myung-Whun Chung, presenza fissa alle prime della Fenice, è stato come sempre artefice di una direzione di ottimo livello. Grazie a un’Orchestra della Fenice spumeggiante e brillante in tutte le sezioni è riuscito a ottenere quel suono leggero e vaporoso, civettuolo e intrigante, delle numerose scene in cui le donne sono protagoniste. Allo stesso tempo – Verdi è sempre Verdi, dichiara nel libretto di sala – le dinamiche si sono fatte più corpose quando gli uomini esternano i loro istinti pateticamente predatori. Come dico spesso, quando regia e direzione musicale vanno a braccetto, il risultato è garantito e la narrazione teatrale scorre nonostante qualche cambio di scena di troppo.
La compagnia di canto è stata tutta all’altezza della situazione, ma un Falstaff privo di un protagonista carismatico non reggerebbe e in questo caso Nicola Alaimo assolve pienamente al suo compito di catalizzatore di emozioni. La sua è stata un’interpretazione del tutto convincente sia dal lato squisitamente vocale sia da quello, parimenti importante, della caratterizzazione di un personaggio tutt’altro che facile. Alaimo ha recitato per sottrazione, affidandosi a una mimica studiata e al contempo spontanea. Un quieto dinamismo e pochi gesti gli sono bastati per impersonare un protagonista emozionante, nobile e dalle mille sfaccettature.
Vladimir Stoyanov ha risolto con buon gusto il suo Ford, anche se la voce mi è sembrata un po’ meno ricca di armonici di quanto la ricordassi.
Molto brava mi è sembrata anche Selene Zanetti, Alice viperina, maliziosa – “quella che mena la polenta” scrive Verdi – e dinamica in scena quanto convincente nel canto.
Bene anche la Meg ipercinetica di Veronica Simeoni e la spassosa Sara Mingardo, Miss Quickly d’alta scuola per voce e presenza scenica.
Eccellente il rendimento di Caterina Sala, intonatissima e fresca Nannetta e convincente anche René Barbera (Fenton), un amoroso forse un po’ statico ma dalla voce adatta alla parte.
Ottimi i coprotagonisti, intelligenti a non trasformare i loro personaggi in forzate macchiette: Christian Collia (Dr. Cajus), Cristiano Olivero (Bardolfo) e Francesco Milanese (Pistola). Buona la prova del Coro, preparato da Alfonso Caiani.

Insomma la stagione teatrale della Fenice è cominciata benissimo e il pubblico ha premiato tutta la compagnia artistica con grandi applausi; trionfi, meritatissimi, per Nicola Alaimo e Myung-Whun Chung.
Falstaff, testamento spirituale di Verdi, ci ha parlato con il garbo e la profondità di spirito che contraddistinguono Shakespeare e il suo immortale teatro.

DirettoreMyung-Whun Chung
RegiaAdrian Noble
SceneDick Bird
CostumiClancy
Light designerJean Kalman e Fabio Barettin
Regista associato e movimenti coreograficiJoanne Pearce
Sir John FalstaffNicola Alaimo
FordVladimir Stoyanov
FentonRené Barbera
Dr. CajusChristian Collia
BardolfoCristiano Olivieri
PistolaFrancesco Milanese
Mrs. Alice FordSelene Zanetti
NannettaCaterina Sala
Mrs. QuicklySara Mingardo
Mrs. Meg PageVeronica Simeoni
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del CoroAlfonso Caiani

Otello di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: buona inaugurazione della stagione lirica triestina.

Otello di Giuseppe Verdi mancava dal teatro triestino dal 2010, quando a dirigere l’orchestra fu Nello Santi. L’atmosfera era tesa perché c’erano state proteste contro l’allora famigerato Decreto Bondi e la prima prevista per il 27 maggio saltò per sciopero.
Sembrano notizie di un paio di secoli fa, ma in questi dodici anni il mondo è cambiato sotto ogni punto di vista e il teatro, che non vive avulso dalla realtà ma anzi ne è parte propulsiva, non fa eccezione. Ieri, dal punto di vista psicologico, credo che tutti gli spettatori celebrassero il ritorno ufficiale alla tanto agognata libertà post pandemia in una specie di rito liberatorio collettivo.
Perciò questa produzione di Otello, firmata come la precedente da Giulio Ciabatti, si è svolta in un clima diverso e più disteso. Il ritorno di Daniel Oren a Trieste, città in cui principiò la carriera artistica, ha catalizzato l’attenzione di molti e scatenato parecchi entusiasmi nonostante la lunga collaborazione abbia potuto contare sì su grandi trionfi di pubblico ma anche su alcune vicende non propriamente limpide. Di là delle prefate considerazioni resta il fatto, inequivocabile, che ieri il Teatro Verdi di Trieste era non esaurito ma molto affollato, ed è una notizia eccellente per chiunque ami la cultura.
George Bernard Shaw affermò paradossalmente che Otello non è un’opera italiana in stile scespiriano ma che Othello è un dramma teatrale affine alla lirica italiana e trovo che sia un’intuizione geniale.
Il libretto di Arrigo Boito, meraviglioso, arricchisce di suggestioni la vicenda anche se, per ovvie questioni di linguaggi artistici diversi, immola sull’altare della brevità e del fuoco personaggi e situazioni della tragedia originale.
La regia di Giulio Ciabatti è gradevole, di impronta minimalista e non si scosta molto dal punto di vista concettuale a quella di dodici anni fa, concentrandosi più sui personaggi che sul contesto storico della vicenda. La scena è fissa, un ampio spazio delimitato da colonne con una pedana al centro sulla quale si svolge l’azione, e nel proseguo dell’opera cambia solo la disposizione, ma direi meglio la prospettiva, dei protagonisti.
Ciabatti cura con attenzione le interazioni tra i personaggi con particolare riguardo, mi è sembrato, per quanto concerne il rapporto Otello/Jago e le scene corali come la settima del terzo atto, quando all’esplodere dell’ira di Otello nei confronti di Desdemona tutti distolgono lo sguardo a eccezione di Jago e Roderigo. Il “fuoco di gioia” trova una corrispondenza visiva con delle figuranti vestite di rosso che metaforicamente simboleggiano il guizzare delle fiamme. Nel grande duetto che chiude il primo atto Otello e Desdemona sono forse un po’ troppo distanti e, a parer mio, ne risente la temperatura emotiva del momento.
Le luci, spesso livide, di Fiammetta Baldiserri e i sobri costumi (Margherita Platè) contribuiscono alla riuscita dell’allestimento che, come sto per dire, si inserisce nel solco di quella mai troppo indagata prassi registica ed esecutiva che si definisce di tradizione.

La direzione di Oren – che si alternerà sul podio con Francesco Ivan Ciampa – mi è sembrata appunto andare di pari passo con la regia, e non è certo un male. Il passo teatrale è sicuro, omogeneo, favorito da dinamiche controllate e agogiche anche sin troppo meditate con l’eccezione di una chiusura un po’ frettolosa del secondo atto. L’accompagnamento ai cantanti è paterno nel gesto e anche nella gestione volumetrica del suono orchestrale che rimane sempre limpido ma screziato da un fraseggio mobile ed eloquente.
Al netto di qualche veniale imprecisione – eravamo dal vivo, non stavamo ascoltando un disco – eccellente in tutte le sezioni l’Orchestra del Verdi, capace di suoni morbidi e avvolgenti come di fiammate corrusche e presaghe di infelici avvenimenti. Il Coro ha cantato bene, come sempre peraltro, nonostante sia sottodimensionato. Efficace anche la prestazione dei ragazzini del coro di voci bianche.
Arsen Soghomonyan ha interpretato con grande sensibilità una parte notoriamente ostica. Il timbro scuro e una recitazione pertinente, scevra da eccessi, lo aiutano a disegnare un Otello tormentato e autorevole ma non sguaiato che personalmente mi ha convinto. Qualche sfumatura in più non avrebbe guastato ma ragionevolmente credo che il rendimento del tenore possa salire con le prossime recite.
Nessun distinguo per Roman Burdenko, uno Jago già tra i migliori dell’attuale panorama artistico del quale ho apprezzato la caratterizzazione a tutto tondo del personaggio, supportata certo da una disinvolta presenza scenica ma soprattutto da un’interpretazione vocale di rilievo. Interessante come Burdenko abbia centrato la doppiezza di Jago, differenziandone i comportamenti istituzionali e quelli, diciamo così, privati.
Lianna Haroutounian ha interpretato una Desdemona giovane, per nulla manierata, spontanea e aristocratica con gusto scenico controllato e al contempo espressivo. La voce è gradevole, ampia nei centri, timbrata nel registro grave e qualche piccola imperfezione (l’acuto finale dell’Ave Maria è risultato un po’sporco) non inficia una prova di buon livello.
Bravo Mario Bagh nei panni di un Cassio dalla voce chiara e brillante.
Giovanni Battista Parodi è stato un Lodovico autorevole e accorato al contempo.
Buone anche le prestazioni dei coprotagonisti: la sensibile Marina Ogii (Emilia), il ruspante Roderigo (Enzo Peroni), il dolente Montano (Fulvio Valenti) e il sempre solido Giuliano Pelizon (Araldo).
Alla fine successo pieno per tutta la compagnia artistica più volte chiamata al proscenio. Trionfo, meritatissimo, per Roman Burdenko e Daniel Oren del quale, onestamente, contesto solo gli eccessi emotivi sul podio, tra pittoreschi cachinni e un’ipercinesi incontrollabile.

La locandina

OtelloArsen Soghomonyan
JagoRoman Burdenko
DesdemonaLianna Haroutounian
CassioMario Bahg
EmiliaMarina Ogii
LodovicoGiovanni Battista Parodi
RoderigoEnzo Peroni
MontanoFulvio Valenti
Un AraldoGiuliano Pelizon
  
DirettoreDaniel Oren
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaGiulio Ciabatti
CostumiMargherita Platè
LuciFiammetta Baldiserri
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Otello di Giuseppe Verdi: seconda e ultima puntata divulgativa per un ascolto consapevole.

Un fragore impressionante, un violento tornado di suono si abbatte sul pubblico all’inizio di Otello. Sembra quasi che la tempesta che alimenta i marosi intorno a Cipro ci voglia ghermire e trascinare a fondo, nell’oscurità del mare più profondo, negli abissi dell’animo umano. Principia così, in modo devastante, la discesa agli inferi del Moro.


Il 4 novembre si riallestisce al Teatro Verdi di Trieste l’Otello di Giuseppe Verdi, uno dei titoli più ineseguibili, di questi tempi, dell’intero panorama operistico. 
Già ieri ho scritto qualche piccola curiosità su questo lavoro pazzesco.
Ho definito all’inizio ineseguibile quest’opera: intendo dire che sono anni che non si sente un Otello di livello molto buono, non che l’opera non si esegua. Il problema è il tenore, che ha una parte di rara difficoltà.
Degli altri personaggi principali, Jago e Desdemona, abbiamo potuto apprezzare anche recentemente buone interpretazioni.
A questo punto è interessante leggere cosa scriveva sulla vocalità di Otello Victor Maurel, creatore del ruolo di Jago nel 1887: il baritono francese oltre a essere stato un cantante di fama straordinaria, era anche uno studioso della vocalità e del teatro.

“L’ideale della potenza vocale di cui il personaggio necessita è stato dato dal creatore del ruolo, Sig. Francesco Tamagno, con un’intensità stupefacente, ma ci sembra pericoloso permettere che in tutti i futuri interpreti di Otello si formi l’idea che questa straordinaria potenza vocale sia una condizione sine qua non per una buona interpretazione.
Quei tenori che hanno l’ambizione d’interpretare Otello non si lascino intimidire dai racconti, del resto reali, a proposito dello strumento unico che il creatore del ruolo possiede. Devono convincersi di questa importante osservazione: dopo dieci minuti un pubblico si è abituato a qualunque tonalità per quanto potente possa essere, ciò che lo stupisce e lo conquista sempre è l’esattezza, l’energia e la varietà degli accenti.”

È uno scritto chiaro, che ogni artista che ha in progetto d’interpretare questo ruolo dovrebbe imparare a memoria.
La gestazione dell’Otello fu piuttosto lunga.
Giuseppe Verdi e Arrigo Boito lavorarono a stretto contatto, anche con qualche incomprensione.
Giulio Ricordi spesso fece da tramite e pungolo tra i due artisti.
Queste tre eminenti personalità della cultura della fine dell’Ottocento, quando si riferivano al lavoro tratto dal dramma di Shakespeare, adoperavano una specie di codice:

“Dirai a Giulio che sto fabbricando il cioccolatte…”

Che non è bello da dire, ma erano altri tempi ed è sempre meglio di abbronzato, secondo me.
Giuseppina Strepponi, moglie di Verdi,esercitava il suo consueto dovere di pompiere nei rapporti abbastanza tesi tra Verdi e Boito, anche inventandosi metafore ardite (smile):

“Lasciamo che la corrente se ne vada diretta per la sua via al mare. È negli ampi spazi che certi uomini sono destinati ad incontrarsi ed intendersi”

Due parole su Jago, che è personaggio fondamentale sia nell’opera verdiana sia nel dramma teatrale originale di Shakespeare. Anche il librettista Arrigo Boito aveva le idee chiare sulla connotazione psicologica di Jago. Aggiungo che l’opera, per lungo tempo, ha “rischiato” d’intitolarsi Jago e non Otello.
Allora, forse vale la pena conoscere, almeno in sintesi, le opinioni di questi illustri personaggi.
Cominciamo da Boito, scrivendo di Jago.

“Jago è l’invidia. Jago è uno scellerato. Jago è un critico. Nella lista dei Personaggi lo caratterizza così: Jago è uno scellerato, e non aggiunge una parola di più. Jago sulla piazza di Cipro si definisce così: I am nothing if not critical. Fa il male per il male.
Il più grossolano errore, l’errore più volgare nel quale possa incorrere un artista che s’attenta d’interpretare codesto personaggio è di rappresentarlo come una specie di uomo demone! È di mettergli in faccia il ghigno mefistofelico, è di fargli fare gli occhiacci satanici.
Ogni parola di Jago è da uomo, da uomo scellerato, ma da uomo.

Sempre Boito, a proposito di Otello:

Figura forte e leale uomo d’armi. Semplice nel portamento e nel gesto, il suo comando è imperioso, il suo giudizio è pacato. Prima si veda l’eroe, poscia l’amante…Era saggio e delira, era forte e si fiacca, era giusto e probo e delinque, era sano e lieto e geme e cade e sviene…Otello attraversa, fase per fase, le più orribili torture del cuore umano.

Cinzio Giraldi, l’autore della novella da dove Shakespeare trasse il suo capolavoro, dice di Jago: un alfiero di bellissima presenza, ma della più scellerata natura che mai fosse uomo del mondo.
Spigliato e gioviale con Cassio; con Roderigo, ironico; con Otello apparisce bonario, riguardoso, devotamente sommesso; con Emilia (la moglie, specifica Amfortas) brutale e minaccioso; ossequioso con Desdemona e con Lodovico.

Ecco che ne pensava Verdi, di questo personaggio.

“Ma se io fossi attore ed avessi a rappresentare Jago, io vorrei avere una figura piuttosto magra e lunga, labbra sottili occhi piccoli vicino al naso come le scimmie, la fronte alta che scappa indietro, e la testa sviluppata di dietro; il fare distratto, nonchalant, indifferente a tutto, incredulo, frizzante il bene e il male con leggerezza come avendo l’aria di pensare a tutt’altro di quel che dice”

Cioè, sono proprio io eh?

Un contributo decisivo lo diede anche un pittore, Domenico Morelli che disse a Verdi d’aver trovato “un prete che pare proprio lui”.
Verdi, che non vedeva precisamente con favore i preti, rispose:

“Bene, benone, benissimo, benissimissimo! Jago con la faccia da galantuomo! Hai colpito! Oh lo sapevo bene, ne era sicuro. Mi par di vederlo questo prete, cioè questo Jago con la faccia da uomo giusto!”

Ovviamente ci sarebbe molto altro da dire su tante cose, dall’uso del coro all’orchestra e anche sui personaggi di secondo piano, fondamentali per lo sviluppo della vicenda. Io, però, mi fermo qui.

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