Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Trieste – Teatro Verdi: il Quintetto di Kolja Blacher per la Società dei Concerti

Vado molto meno di quanto vorrei alla Società dei Concerti di Trieste, ed è un peccato perché le serate sono sempre di gran livello.

Credo di averlo scritto già altre volte, nella musica (da camera, nella fattispecie) il Quintetto è una scuola di vita: tutti gli interpreti concorrono alla bontà del risultato finale, senza prevaricazioni, ma al contempo il loro contributo è scoperto, evidente, al contrario di quanto avviene nella musica sinfonica dove i singoli scompaiono nell’opima abbondanza di flusso sonoro.
Questa banale considerazione ha avuto conferma nel concerto di ieri sera dove è stato appunto il Quintetto, declinato dalle diverse sensibilità di Amédée-Ernest Chausson e Johannes Brahms, a essere protagonista con l’ensemble di Kolja Blacher che comprende tre componenti dei Berliner Philharmoniker (Christoph Strueli, Christoph von der Nanhmer e Kyoungmin Park) e altri due solisti di assoluto valore (Claudio Bohorquez e Özgür Aydan).
In un Teatro Verdi piuttosto affollato, considerato che era una serata organizzata dalla Società dei Concerti, si è cominciato con il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21 di Chausson, strutturato in quattro movimenti ed eseguito per la prima volta nel 1892.
Sono rimasto molto colpito dalla fresca e felice inventiva del compositore francese, che mi è sembrato in alcune occasioni (certi arpeggi del pianoforte, in particolare)  anticipare suggestioni dell’Impressionismo di Debussy e l’Espressionismo di Ravel, oltre che rifarsi ai cromatismi wagneriani mantenendo un certo esprit tipicamente francese che si è manifestato specialmente nel quarto movimento (Très animé).
L’andamento emotivo della pagina musicale è fluido, ma alterna con efficacia sprazzi vivaci ad altri più malinconici – il Grave del terzo movimento – mantenendo una narrazione tesa e vibrante.
Eccellente, ça va sans dire, il rendimento dei solisti che hanno dialogato ritagliandosi momenti virtuosistici di grande impatto, come nei rimandi tra violino e pianoforte.
Dopo l’intervallo è stata la volta del Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34 di Brahms, che esordì dopo una genesi travagliatissima nel 1866.
In questo caso si è percepita evidente un’atmosfera più saldamente legata all’Ottocento, sia nell’architettura complessiva della composizione sia nella drammaticità spinta di alcuni tratti che hanno ricordato apertamente la monumentalità quasi geometrica di Beethoven.
Il pianoforte è usato in modo del tutto diverso, per esempio, con severa drammaticità e anche con una presenza più corposa di decibel. Interessante, a questo proposito, il saggio di Enzo Beacco contenuto nel libretto di sala, che si sofferma sulle problematiche della corda percossa da un martelletto e quella accarezzata sulla cordiera.
Nella pagina Brahmsiana, di struttura poderosa che tradisce in qualche modo l’originale provenienza sinfonica, convivono echi di danza popolare e oasi riflessive anche drammatiche, ma sempre nell’ambito di un’esposizione che tiene alta la tensione ritmica.
I due movimenti estremi acclarano in modo palese, con la loro simmetricità, la provenienza beethoveniana dell’ispirazione ma al contempo la rendono emotivamente mossa e sorprendente.
Anche in questo caso l’esecuzione è stata eccellente e ha messo in mostra la qualità dell’insieme degli interpreti.
Successo pieno per l’ottavo appuntamento della stagione della Società dei Concerti triestina, con ripetute chiamate al proscenio dei protagonisti che hanno generosamente donato un bis al partecipe pubblico in cui ho notato, con grande soddisfazione, una notevole presenza di giovani.

médée-Ernest ChaussonConcerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21
Johannes BrahmsQuintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34
  
Koliah Blacher Quintett
  
ViolinoKolja Blacher
ViolinoChristoph Strueli
ViolinoChristoph von der Nanhmer
ViolaKyoungmin Park
VioloncelloClaudio Bohorquez
PianoforteÖzgür Aydan

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Grande serata al Teatro Verdi di Trieste nel secondo concerto della stagione sinfonica: strabiliante il violinista Giuseppe Gibboni e bravissimi tutti gli altri

Entrare in un teatro sostanzialmente esaurito fa sempre un certo effetto, anche un pessimista cronico come me ha inaspettati bagliori di fiducia nel futuro e la fila all’ingresso non risulta gravosa.
Comincio la mia cronaca del secondo appuntamento della stagione sinfonica con questa considerazione estemporanea, perché credo che il teatro e la cultura forse non salveranno il mondo ma per certo lo renderanno un posto meno inospitale di quanto sia ora.
Con qualche minuto di ritardo, dovuto a qualche inconveniente che deve aver sofferto il venerabile Konzertmeister Stefano Furini, la serata è principiata con l’Ouverture Egmont di Beethoven, lacerto delle musiche di scena scritte per l’omonimo dramma di Goethe.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi ultimamente rinvigorita dalla presenza di alcuni giovani soprattutto nella sezione degli archi, ne ha dato un’interpretazione convincente, maschia, in linea con l’ispirazione eroica che permea il brano. In quest’ambito, ho apprezzato il particolare vigore dei contrabbassi.
Giuseppe Gibboni, giovane artista che ha vinto nientemeno che il Premio Paganini nel 2021, è stato il protagonista assoluto della seconda parte della serata. Bella forza, si potrebbe chiosare, era il Primo concerto per violino e orchestra in re maggiore di Paganini!
La realtà, come sempre succede, è un po’ più complessa perché suonare e interpretare sono due cose affatto diverse e ho visto non pochi violinisti limitarsi a compitare note in modo meccanico: belli senz’anima.
Gibboni invece, tanto è composto in scena, nulla concedendo a facili effetti coreografici, tanto è espressivo col suo Balestrieri che sembra un prolungamento del corpo e soprattutto dell’anima.
Ma c’è anche l’orchestra, che soprattutto nell’introduzione dell’Allegro iniziale prepara benissimo l’ingresso del solista; ingresso che è folgorante e ci porta subito nel mondo di quel controverso personaggio che fu Paganini. Salti di ottava violenti e arditi arpeggi sono gestiti non solo con impagabile perizia tecnica, ma anche con un pieno controllo delle fantasmagoriche dinamiche richieste. Il virtuosismo non è mai esibito ma sempre indirizzato a un’esuberanza interpretativa controllata, circostanza poi confermata dal più cantabile Adagio successivo in cui si percepiscono echi di un romanticismo mosso, quasi turbato da oscuri baluginii presaghi di morte.
Bellissimo poi il Rondò finale, di difficoltà tecnica suprema, che mi ha ricordato – chiedo scusa – certi lunari personaggi felliniani e, addirittura, la feroce ironia circense della Quarta di Mahler.
Eccellente il dialogo con direttore e orchestra – belli i pizzicati degli archi – , una comunicazione fatta anche di sorrisi e approvazione di sguardi.
I tre bis finali, i primi due ovviamente capricciosissimi, seguiti da un Preludio bachiano hanno messo il sigillo a un’esibizione strepitosa e trionfale con il pubblico in stato di delirante esaltazione.
Dopo l’intervallo è stata la volta di un grande classico, la Sinfonia n.4 in mi minore di Brahms, che per me è la vetta del pur straordinario lascito del compositore.
Nella sua apparente semplicità, in quei tratti melodiosi scoperti, la pagina musicale nasconde tesori di inventiva che non è certo il caso di analizzare in una semplice recensione di carattere divulgativo.
Dietro al celeberrimo incipit si nascondono abissi da cui si riemerge parzialmente solo alla fine del lunghissimo primo movimento, mentre nell’Andante che segue si percepisce un afflato quasi religioso poi stemperato da un Allegro che cela anche contegnose mestizie.
Nell’ultimo severo movimento, ricco di cromatismi che trascolorano con stupefacente liquidità e impreziosito da un intervento del flauto – ottima la performance di Giorgio Di Giorgi –  si ha quasi la sensazione di essere preda di un turbamento onirico.
Anche in questo caso Calesso ha diretto in modo efficace, privilegiando dinamiche morbide e agogiche rilassate ma non slentate per favorire il fluire omogeneo della musica.
Ottimo il rendimento dell’orchestra, che mi pare davvero in grande crescita artistica e ha confermato, una volta di più, un carattere impetuoso ma controllato.
Il pubblico, come detto all’inizio numerosissimo, ha giustamente acclamato a lungo il direttore e la compagine locale.

Ludwig van BeethovenOuverture Egmont
Niccolò PaganiniPrimo concerto per violino e orchestra in re maggiore
Johannes BrahmsSinfonia n.4 in mi minore
  
DirettoreEnrico Calesso
ViolinoGiuseppe Gibboni
  
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste






Al Festival di Portogruaro Beethoven e Brahms incendiano il pubblico. Ottima prova del Trio di Parma e dell’Orchestra da camera di Perugia

Arrivato felicemente alla quarantesima edizione, il Festival Internazionale di Musica di Portogruaro – di cui il pianista Alessandro Taverna è Direttore artistico – è una delle manifestazioni più longeve e amate del Triveneto. Come si dice in questi casi, il lavoro e la qualità pagano.
A conferma di quanto appena scritto anche in occasione di questo concerto il Teatro Luigi Russolo era pressoché esaurito e il clima emotivo era sereno e festoso.
Il programma era diviso in due parti. Nella prima il Trio di Parma e l’Orchestra da camera di Perugia hanno eseguito il celeberrimo Concerto per violino, violoncello e pianoforte in do maggiore op. 56, universalmente noto come Triplo concerto.
Prima dell’inizio, Enrico Bronzi, che storicamente è il violoncello del Trio, ha spiegato che recentemente si era infortunato a una spalla e che perciò si sarebbe limitato – si fa per dire – a dirigere l’orchestra. Al suo posto ha suonato, brillantemente, Giovanni Gnocchi.
Il Triplo concerto è una di quelle pagine musicali di transizione tipica dei primi anni dell’Ottocento, ma la mano di Beethoven si riconosce subito sino dall’importante introduzione orchestrale dell’Allegro iniziale.
Come osservato da molti musicologi, al violoncello è assegnata una parte solistica non solo preponderante rispetto a violino e pianoforte, ma anche estremamente impegnativa.
E nel Largo successivo se ne ha conferma, col violoncello che regge l’impianto di tutto il movimento esplorando virtuosismi audaci e, al contempo, mantenendo morbidezza, lirismo e cantabilità.
Il Rondò che chiude il concerto è, come spesso succede, ricco di suggestioni folcloriche e di danza popolare, che rendono un’atmosfera gioiosa e brillante.
Enrico Bronzi ha guidato con gesto sicuro la buona Orchestra da camera di Perugia, esuberante e giovanile come i suoi componenti. Ottima, in particolare, mi è sembrata la prestazione degli archi gravi. In evidenza anche gli altri due solisti, con il brillante violino di Ivan Rabaglia e il composto ed efficace Alberto Miodini al pianoforte.
Dopo l’intervallo è toccato a Johannes Brahms, qui colto nella giovanile Serenata n 1 per orchestra in re maggiore op 11, che è caratterizzata da una tersa serenità appena screziata da qualche ripiegamento riflessivo del secondo movimento.
Anche in questo caso c’è stato un buon feeling tra podio e orchestra, ma forse Bronzi avrebbe potuto osare di più non tanto nelle dinamiche, ben equilibrate, quanto nelle agogiche che sono parse a tratti un po’ pigre soprattutto nel Rondò finale. In ogni caso l’esecuzione è stata di buon livello e mi piace segnalare il brillante   rendimento dei legni.
Di là delle insignificanti osservazioni in puro stile Beckmesser, la musica dal vivo è meravigliosa proprio per la sua imperfezione, la serata è stata accolta dal pubblico trionfalmente. Le numerose chiamate al proscenio hanno portato all’esecuzione, come encore, della adrenalinica Danza ungherese n. 5 dello stesso Brahms.

udwig van BeethovenConcerto per violino, violoncello e pianoforte in do maggiore op. 56,
Johannes BrahmsSerenata n 1 per orchestra in re maggiore op 11
  
ViolinoIvan Rabaglia
VioloncelloGiovanni Gnocchi
PianoforteAlberto Miodini
  
DirettoreEnrico Bronzi
 
Trio di Parma Orchestra da camera di Perugia





Julian Rachlin e Christoph Eschenbach in concerto al Festival di Lubiana. E due parole “in difesa” di Cajkovskij.

Al Festival di Lubiana si susseguono i concerti e forse l’abbondanza di offerta potrebbe aver influito sulla non debordante presenza del pubblico alla serata di ieri. Intendiamoci, sempre tanti spettatori, ma non il sold out.
Anche in quest’occasione gli assenti hanno avuto torto, perché gli artisti dell’appuntamento di ieri nella sala del Cankarjev dom si sono resi protagonisti di uno splendido concerto.
Si è iniziato con un omaggio ad Anton Lajovic, compositore sloveno (1878-1960), di cui è stato eseguito l’Adagio, brano musicale caratterizzato da un’evidente ispirazione romantica. Musica rilassante ma priva di sdilinquimenti e melassa, improntata a un uso disteso e avvolgente degli archi screziato da cromatismi affidati ai legni e all’arpa, il tutto all’insegna di un filone musicale che mi è sembrato, nel gusto, a metà tra Gounod e Saint-Saëns.
È stata poi la volta del Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 77 di Johannes Brahms, pagina musicale giustamente celeberrima in cui è fondamentale che il podio mantenga un equilibrio logistico e narrativo tra orchestra e solista. Orchestra, appunto, che in questo caso è tutt’altro che figlia di un dio minore soprattutto nell’imponente introduzione sinfonica del primo movimento, per poi lasciare gradatamente il centro dell’attenzione al violino. Non a caso, il notoriamente acido Hans von Bülow lo definì non un concerto per violino ma un concerto contro il violino; definizione che oggi, vista la notorietà planetaria del brano, più che ridere ci fa sghignazzare.
Strutturato in tre movimenti (Allegro-Adagio-Allegro) e dedicato al grande Joseph Joachim – primo interprete del brano nel 1879 –  il concerto si caratterizza per un’atmosfera gioiosa e luminosa, in cui gli squarci melodici sono ravvivati dal virtuosismo stellare del solista che sfocia in un brillantissimo e scoppiettante finale colmo di suggestioni popolari.
Julian Rachlin è un artista moderno nel migliore senso del termine: impeccabile dal punto di vista tecnico, certo, ma anche capace di essere empatico e comunicativo con l’espressione e la mimica. Eccellente il suo controllo delle dinamiche, espressività al top nelle melodie, virtuosismo evidente ma non esibito.
Ottima l’intesa col grande vecchio Christoph Eschenbach sul podio, che a sua volta partecipe e composto ha guidato la Filarmonica slovena a una prova maiuscola per qualità di suono e raffinatezza di gusto interpretativo.
Gran successo per Julian Rachlin, acclamato vigorosamente dal pubblico.

Ogni volta che ascolto la musica di Cajkovskij – e per fortuna accade spesso – mi ricordo di quanto ingiuste siano state le critiche di cui l’artista è stato bersaglio per troppo tempo, frutto di uno specioso pregiudizio di natura politica.
La Sinfonia N.5 in mi minore op.63 è una delle composizioni che più si attirò le accuse di sentimentalismo ed eccesso di languidezza laddove, oggi, io sento solo genuino sentimento.
Poi, certo, si potrà pure affermare che la Quinta abbia un andamento schizofrenico ma cosa dire di fronte all’incontaminata purezza della melodia del corno che introduce l’Andante del secondo movimento? Come non restare soggiogati dall’incalzare del “Tema del destino” nell’Introduzione? E la mesta leggerezza del valzer non fa forse vibrare le corde più nascoste del nostro vissuto?
Christopher Eschenbach dirige a memoria e con gesto scabro ed essenziale la partitura ricavando dall’orchestra un suono bellissimo, ricco e al contempo austero, privo di qualsiasi concessione a un facile effettismo coloristico e piacione. Un’interpretazione coinvolgente, che ha stregato il pubblico che alla fine ha lungamente acclamato il direttore e la compagine di casa.

Anton LajovicAdagio
Johannes BrahmsConcerto in re maggiore per violino e orchestra
P.I. CajkovskijSinfonia N.5 in mi minore op.63
  
DirettoreChristoph Eschenbach
ViolinoJulian Rachlin
  
Orchestra Filarmonica Slovena
  

Anche in condizioni difficili l’Arte vince sempre. Bellissimo concerto con la musica di Camille Saint-Saëns e Brahms al Teatro Verdi di Trieste.

Al Teatro Verdi, in una Trieste ancora dilaniata dalle polemiche sulle misure cautelari per il Covid-19 e ostaggio dell’ennesimo corteo dei no green pass e no vax, si è svolto il primo dei due concerti autunnali organizzati poco tempo fa per riempire il buco di programmazione dovuto alla mancata stagione sinfonica.

I disordini hanno avuto luogo a pochi metri dal teatro e perciò, senza esprimere valutazioni sulla questione, l’unica circostanza che mi pare valga la pena sottolineare è che una volta di più la musica – ma direi l’Arte in generale – ha confermato il suo intrinseco valore salvifico di sospensione dalla realtà: la bellezza forse non salverà il mondo, ma sicuramente lo rende più vivibile.
Tornando alla serata, protagonisti sono stati due artisti coevi ma affatto diversi tra loro: Camille Saint-Saëns (il Brahms francese) e Johannes Brahms. Ha aperto la serata il Concerto per violino e orchestra n.3 in si minore, op.61 del compositore francese.
Strutturato in tre movimenti, il concerto è stato scritto pensando alle caratteristiche tecniche di uno dei più famosi virtuosi di sempre, Pablo de Sarasate. La pagina musicale esplora tutto lo spettro espressivo dello strumento; sono ovviamente numerosi e impervi gli sprazzi solistici – soprattutto nel Terzo movimento Molto moderato e maestoso -ma non mancano le aperture melodiche e rimandi alla musica popolare che caratterizzano buona parte della musica di Saint-Saëns.
Kuba Jacovicz, figlio d’arte, si è dimostrato all’altezza della situazione sia per doti tecniche sia per espressività, palesando anche col corpo un’interpretazione intensa, passionale ed empatica del brano. Lo ha supportato brillantemente la compagine orchestrale triestina, guidata da Pinchas Steinberg, che ha saputo bilanciare con meditato equilibrio il dialogo tra solista e orchestra.
Alla fine sono state numerose le chiamate al proscenio per Jacovicz, che ha regalato un bis al pubblico entusiasta.
Dopo la pausa è stata la volta di uno dei monumenti della musica sinfonica e cioè la Seconda sinfonia in re maggiore, op.73 di Brahms, che vide la prima esecuzione nel 1887, tre anni prima del concerto per violino di Saint-Saëns.
Contrariamente a composizioni precedenti, Brahms scrisse questasinfonia in modo spedito e senza intoppi, nella pace e nella serenità di luoghi baciati dalla bellezza della Natura e avvolto dalle influenze culturali della Mitteleuropa. Questa atmosfera rilassata e distesa si percepisce nella musica, seppure screziata da qualche evanescente ripiegamento malinconico sottotraccia forse dovuto all’incertezza intellettuale di chi, dopo Beethoven, si è cimentato col genere sinfonico.
La pagina musicale è scorrevole e nonostante non manchino contrasti dinamici anche importanti, mantiene una cifra lirica e cantabile che la rende accattivante anche al primo ascolto.
Di grande rilievo la prova dell’Orchestra del Verdi che ha ben figurato in tutte le sezioni. Eccellenti gli archi gravi, setosi e avvolgenti viole e violini. Brillanti anche le prestazioni dei legni e degli ottoni, in evidenza particolare in questa pagina brahmsiana.
Ovviamente è stato fondamentale l’apporto di Pinchas Steinberg il quale, senza troppe teatralità e con asciutta concretezza ha ottenuto un suono omogeneo ed equilibrato dall’orchestra che ne ha raccolto le suggestioni.
Il pubblico, abbastanza numeroso considerato il contesto, ha decretato un eccellente successo al direttore e alla compagine triestina

Data dello spettacolo: 07 Nov 2021

Camille Saint-SaënsConcerto per violino e orchestra n.3 in si minore, op.61
Johannes BrahmsSeconda sinfonia in re maggiore op 73
  
DirettorePinchas Steiberg
ViolinoKuba Jacovicz
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste
  

Il secondo concerto al Teatro Verdi di Trieste, nell’ambito della rassegna “Giovani talenti”.

Sembra che Mario Draghi possa essere il prossimo Presidente del Consiglio. Non mi avventuro certo in questioni politiche, ma sarebbe bello che nel consueto discorso d’investitura parlasse anche di teatri e di tutti gli eventi legati alla cultura. Riapriamo i teatri, sostenere che tutti ne abbiamo bisogno non è uno slogan vuoto, ma una vera e propria priorità trasversale. Ovvio, con tutte le cautele del caso, contingentando il numero degli spettatori e ricordandoci che il nemico da combattere è ancora lì presente, ma credo ragionevolmente che si possa fare.
Sabato prossimo alle 21.00, sempre sull’emittente regionale Telequattro, andrà in onda la registrazione del secondo concerto che si svolgerà al Teatro Verdi di Trieste. La trasmissione sarà poi replicata domenica 7 febbraio, alle 23.30.
Anche in quest’occasione mi fa piacere scrivere due parole di presentazione delle pagine musicali previste.
Si comincerà con Toccata per marimba, vibrafono e orchestra di Anders Koppel.
È un brano che non conosco, ma è facile prevedere – viste le attitudini artistiche del compositore – che si ascolterà musica contemporanea, probabilmente influenzata dal jazz e dal pop.
Più facile inquadrare il secondo brano, visto che si parla di uno dei monumenti della musica sinfonica e cioè la Prima sinfonia di Johannes Brahms, che ci mise vent’anni per scriverla.
Eseguita per la prima volta nel 1876 a Berlino, la sinfonia si sviluppa nei classici quattro movimenti.
Hans von Bülow, forse infelicemente, la battezzò come “la decima sinfonia di Beethoven” ma oggi possiamo capire meglio il senso di questa definizione avventurosa e rivalutarla in senso positivo, considerando che von Bülow – per inciso, il primo a dirigere il Tristan di Wagner – volesse solo affermare che la musica di Brahms avrebbe potuto essere un’evoluzione di quella di Beethoven.
Ma qual è il mood di questo immenso capolavoro? Difficile dirlo, perché la musica è talmente ricca di suggestioni, cromatismi e atmosfere cangianti da non poter essere definita con precisione; etichettarla semplicemente come musica romantica sarebbe davvero fuorviante e limitativo. Io ci sento una grande energia, un afflato etico imponente, una sorprendente alternanza e compenetrazione di ritmo e melodia: tutti elementi e tasselli di un piano architettonico monumentale.
Com’è stato detto efficacemente, quindi, non una decima sinfonia di Beethoven ma il primo capolavoro sinfonico di un compositore che della lezione di Beethoven ha fatto tesoro per guardare avanti nella consapevolezza di una salvifica rinnovazione.
Il concerto si chiuderà con Der Schicksalslied op.54 per coro e orchestra, un’altra pagina di Brahms.
È un brano complesso, in tre movimenti (Adagio, Allegro, Adagio), che richiede un controllo delle dinamiche particolarmente curato da parte del direttore d’orchestra perché il pericolo di uno sgradevole magma sonoro è tutt’altro che lieve.
Il testo è tratto da un poema del poeta romantico tedesco Friedrich Hölderlin, a seguire i versi tradotti in italiano.
In bocca al lupo agli interpreti e buon ascolto a tutti.

Canto del destino
Ihr wandelt droben im Licht
Auf weichem Boden, selige Genien!
Glänzende Götterlüfte
Rühren euch leicht,
Wie die Finger der Künstlerin
Heilige Saiten.

Schicksallos, wie der schlafende
Säugling, atmen die Himmlischen.
Keusch bewahrt
In bescheidener Knospe,
Blühet ewig
Ihnen der Geist.

Und die seligen Augen
Blicken in stiller
Ewiger Klarheit.

Doch uns ist gegeben,
Auf keiner Stätte zu ruhn.
Es schwinden, es fallen
Die leidenden Menschen
Blindlings von einer
Stunde zur andern,
Wie Wasser von Klippe
Zu Klippe geworfen,
Jahrlang ins Ungewisse hinab.
Voi errate trasvolando nella luce
su morbidi cammini, o geni celesti!
Deliziosi elise!
vi sfiorano leggermente
come le dita dell’artista
toccano le corde.

Senza destino, come il dormiente
neonato, alitano le creature celesti.
Castamente custodito
come gemma discreta,
fiorisce eterno
il loro spirito.

E gli occhi beati
guardano in tranquilla
eterna chiarezza.

Pertanto a noi è dato
di non riposare in alcun luogo.
Svaniscono, cadono
i poveri uomini,
alla cieca, da un’ora
all’altra
come l’acqua da un masso
all’altro precipitato
in fondo all’ignoto.
Friedrich Hölderlintraduzione di Luigi Bellingardi
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Alla scoperta di nuove realtà culturali triestine: Concerto del Trio Rachmaninov all’Associazione Mozart Italia.

Prima della recensione vi segnalo il nuovo podcast di OperaClick, in cui il sottoscritto…dà i numeri!

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Stagione della Società dei concerti di Trieste: serata da ricordare con i Philharmonisches Capriccio Berlin, il sestetto d’archi dei Berliner.

Nel settembre del 1971, Herbert von Karajan inaugurò la stagione della Società dei concerti di Trieste con i “suoi” Berliner Philharmoniker di cui era a quel tempo Direttore stabile: negli anfratti di casa mia ci deve essere ancora il programma di sala della serata. Leggi il resto dell’articolo

Un Grande del Romanticismo tedesco a Lubiana: Johannes Brahms. Il Trio come metafora della vita civile.

Continuano anche con la canicola le mie incursioni al Festival di Lubiana per conto di OperaClick. Questa volta è toccato a Brahms, le cui opere possono, proprio di questi tempi, darci una lezione di etica ed educazione civica. Chi vuol capire, capisca (strasmile).1Krilov
Segnalo che vedremo Sergej Krilov anche a Trieste, in altro repertorio. Leggi il resto dell’articolo

Ancora un Wagner giovanile (tra le altre cose) per la stagione sinfonica al Teatro Verdi di Trieste.

Qui una mia intervista a Radio Capodistria, per la quale ringrazio la collega e amica Luisa Antoni, che non è responsabile di un mio orrendo errore di consecutio (strasmile).
L’intervista sarà replicata mercoledì prossimo alle 22.30 qui:

È molto bello che il primo post del 2015 sia una cronaca dal Teatro Verdi di Trieste, ed è così soprattutto per una ragione e cioè che Di Tanti Pulpiti è praticamente l’unica voce triestina che si occupa di queste faccende. Sì, lo so, ce ne sono anche un altro paio online, ma quasi sempre si limitano a un mesto lavoro di copia/incolla dei comunicati stampa del teatro, ai quali aggiungono un aggettivo qui e un sostantivo lì.
Di musica classica e lirica si parla poco e sapete cosa succede no? Che parla poco oggi e parla poco domani, poi nessuno ne parla più. Vabbè. Leggi il resto dell’articolo

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