Voglio vedere se riesco a scrivere la recensione, per quanto semiseria, senza usare parolacce tipo metateatro, so che ce la posso fare!
L’Adriana Lecouvreur di
Francesco Cilea è un’opera strana, che s’inquadra storicamente nel Verismo (la prima è del 1902) ma, allo stesso tempo, s’affranca dagli aspetti più deteriori di questo controverso movimento culturale. Quindi niente scene truculente, sgozzamenti e cachinni, protagonisti con la bava alla bocca e pasticci vari. Qui anche la morte si dà con classe, senza clamore, tramite un raffinato mazzetto di fiori avvelenati. Siamo nell’ambiente teatrale, dove si recita in scena e anche, e forse di più, fuori scena.
L’umanità è quanto mai pittoresca e pullula di favorite, amanti, invidie e livori che sanno d’alcova, attrici fallite e gossip: sembra un Consiglio dei Ministri (smile).
La trama è davvero difficile da sintetizzare ma si scosta dal celebre “il tenore vuole scopare il soprano ma il baritono si oppone” solo perché invece del baritono c’è un mezzosoprano inferocito, vi basti questo.
L’opera si presta come poche a sbracamenti allucinanti da parte della protagonista, perché il ruolo prevede addirittura che il soprano reciti in prosa un paio di volte. Non so se ci siano tante circostanze paurose come vedere (e sentire) un cantante che declama in prosa: penso agli orrori della lettura delle numerose lettere di cui è costellata l’opera lirica. In codeste occasioni spesso s’assiste ad un fenomeno inquietante e cioè le cantanti del title role si trasformano nella caricatura di Gloria Swanson in Viale del Tramonto.
Una tragedia, appunto, altroché Fedra! (strasmile).
Aggiungete che nel libretto si leggono cose tipo “Cielo! Mio Marito” e capirete che per buttarla in casino basta veramente poco.
Ecco, comincio col dare atto al soprano
Micaela Carosi, primadonna solo nella finzione dell’opera per il momento, di avermi risparmiato un simile scempio e di ciò la ringrazio.
D’altronde anche la sua interpretazione asettica non mi ha convinto, al di là di alcune mende tecniche piuttosto evidenti: problemini d’intonazione sparsi, ad esempio. Dizione fantasiosa, frequentemente. Canto sempre sul forte o fortissimo, genericità e piattezza d’accento.
Note positive, anche: voce bella tosta, registro centrale potente, acuti voluminosi e sicuri, buon gusto nel porgere.
Una prova accettabile, ecco, ma non di più.
Accanto a lei il tenore
Marcelo Alvarez nella parte di Maurizio di Sassonia, un ragazzotto nobile sempre infoiato e con pochissimo cervello. L’artista argentino è stato bravissimo. Voglio dire che ha cantato bene e soprattutto, in un ruolo in cui è facile avendone i mezzi (ed a Marcelo non mancano!) puntare sull’effettaccio bieco da tenorissimo, si è sforzato d’interpretare con cura: belle mezzevoci, recitazione composta, e poi anche acuti pieni e, vi dirò, più squillanti del solito.
Molto brava anche Marianne Cornetti, nei panni dell’incazzatissima Principessa di Bouillon. Il mezzosoprano ha una voce di volume davvero inconsueto nel panorama odierno e, se in altre occasioni l’ho sentita puntare tutto sulla quantità, la sera scorsa ciò non è avvenuto. Elegante e autorevole, anche nei momenti più infuocati, come il duetto con Adriana che chiude il secondo atto.
Alfonso Antoniozzi è stato bravo in scena quasi quanto era spiritoso e dissacrante quando scriveva le sue “Pillole di Malox” sul blog (strasmile). Michonnet è un personaggio difficile, spesso visto come un perdente sfigato, anche da nomi prestigiosissimi in passato, mentre invece il basso-baritono-qui-decisamente-baritono ne ha colto sì il lato malinconico, ma anche la nobiltà d’animo. Dal punto di vista vocale, tra l’altro, tanto di cappello!
In questo lavoro di Cilea la compagnia di canto è molto numerosa e prevede parecchi coprotagonisti , tra i quali hanno un rilievo maggiore il tenore Luca Casalin (Abate) e il basso Simone Del Savio (Principe di Bouillon), che hanno ben figurato. Tutti gli altri sono risultati all’altezza della situazione, eccoli qui: il soprano Antonella De Chiara, il mezzosoprano Patrizia Porzio, il tenore Carlo Bosi, il basso Diego Matamoros, il tenore Giuseppe Milano e il mimo Carola Iannuzzi.
Bene l’Orchestra del Regio e discreto il Coro, forse un po’ moscio.
Sul podio il M°Renato Palumbo non mi è piaciuto molto, sinceramente. Sonorità eccessive tanto da coprire di frequente i cantanti proprio nelle scene in cui il “canto di conversazione” la fa da padrone. Qualche lentezza, anche, specialmente nei pezzi chiusi, in particolare nella bellissima “L’anima ho stanca” che ha fruttato ad Alvarez un’ovazione. In generale una lettura retorica e troppo magniloquente.
La regia di Lorenzo Mariani non mi ha scandalizzato ma non ha brillato per originalità. In alcuni momenti si è sfiorata la comicità involontaria, ad esempio quando la Principessa di Bouillon è lanciata in scena su di un letto semovente a rotelle: grottesco. Nel complesso uno spettacolo nel solco della tradizione con qualche trovatina da recita liceale di fine anno. Costumi di rara bruttezza, opera di Luisa Spinatelli, luci inutili di Carlo Schmid, scenografia impersonale di Nicola Rubertelli e coreografia noiosissima di Michele Merola.
Il pubblico torinese ha tributato un successone allo spettacolo, applaudendo i protagonisti con vigore (tra l’altro, tutti i solisti sono stati applauditi anche a scena aperta) e quindi i miei distinguo da intenditore di ‘sta cippa verranno lavati via come lacrime nella pioggia (smile).
A proposito di pioggia, prima della recita è venuto giù qualcosa che definirei un po’ di meno del diluvio universale e un po’ di più d’un acquazzone tropicale. Io e ex Ripley abbiamo navigato a vista sotto i portici di Via Pietro Micca, saccheggiato un bar e poi abbiamo guadato Piazza Castello prima d’attraccare al Regio, fradici ma sani e salvi.
Buon fine settimana a tutti, che la farsa sia con voi!
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