Come leggerete nell’articolo non mi sono fatto mancare il Covid, che però mi ha lasciato velocemente e senza troppi problemi. Purtroppo sono stato costretto a perdermi ben quattro concerti…e questa è la cosa più fastidiosa.
Il “Progetto Beethoven” è arrivato al suo ultimo atto con un concerto che si è svolto al Teatro Verdi di Trieste. Doverosa una premessa: chi scrive aveva intenzione di riferire di tutti gli eventi ma, purtroppo, più del piacer poté il Covid e perciò, con rammarico, ho potuto essere presente solo alla serata finale. Il programma prevedeva tre pagine musicali di genere diverso del Genio di Bonn in ordine cronologico (dal 1806 al 1812): per l’occasione sul palcoscenico del Verdi hanno unito le forze l’Orchestra e il Coro della Fondazione triestina e la Filarmonica di Milano, per un totale di ben 140 elementi. Sul podio Marco Seco, che della Società dei concerti di Trieste è direttore artistico dal Novembre 2021, in seguito alla prematura scomparsa di Derek Han. Il concerto è iniziato con l’esecuzione dell’Ouverture Leonore n.3, scritta per la seconda edizione di Fidelio. Brano celeberrimo e spesso inserito nei programmi sinfonici, la Leonore è una pagina musicale legata in modo simbiotico all’unica opera scritta da Beethoven, perché ne contiene buona parte dei temi che riecheggiano più volte nel suo lungo e monumentale sviluppo. Non a caso, più che una Ouverture sembra essere un piccolo poema sinfonico. Marco Seco ne ha dato un’interpretazione antiretorica e asciutta, in certi momenti anche troppo disciplinata, nel senso che il sacro furore dell’anelito alla libertà è uscito un po’ soffocato da agogiche non slentate ma leggermente sopite. Ottimo, invece, il controllo delle dinamiche che ha efficacemente sottolineato i contrastanti sentimenti che sottendono alla partitura. È stata poi la volta della Fantasia corale op. 80 per pianoforte, coro e orchestra. Notoriamente considerata come un’anticipazione della Nona sinfonia – sia per la vicinanza col tema della gioia sia per i testi di Christoph Kuffner – la Fantasia sembra soprattutto il tentativo di far coesistere le esigenze del sinfonismo e della musica corale, con i virtuosismi del pianoforte (Beethoven fu eccellente solista) a fare da trait d’union tra i due universi. Alessandro Taverna, che oltre a essere ottimo pianista è anche impegnato nella divulgazione della musica classica – è Direttore artistico del Festival di Portogruaro, giunto alla quarantesima edizione – ha comunicato felicemente con il direttore e, al contempo, eseguito con liquido virtuosismo le numerose variazioni e i dialoghi orchestrali che portano alla gioiosa entrata del Coro. Più che dignitose le prove dei solisti (che trovate in locandina) e molto buono il rendimento della compagine triestina, diretta da Paolo Longo. Più volte chiamato al proscenio, Alessandro Taverna ha scelto per il bis una variazione di Max Reger, molto apprezzata dal pubblico. Dopo la pausa è stata eseguita la Sinfonia n. 7 in la maggiore, op. 92 e cioè quella che fece dire a un giovane scellerato come Carl Maria von Weber che:
le stravaganze di questo genio hanno raggiunto il non plus ultra, e Beethoven è pronto per l’ospedale psichiatrico.
Ora, di là del fatto che altri apprezzarono da subito l’innovativa pagina musicale – il mai troppo lodato e lungimirante E.T.A. Hoffmann, per dirne uno – gli equivoci nascono da una circostanza ben precisa; questa sinfonia è la classica composizione di transizione, nello specifico tra il sinfonismo alla Haydn (il padre della sinfonia) e i primi afflati di romanticismo: musica d’avanguardia e quindi difficile da capire per i contemporanei. E se Wagner ci vide l’apoteosi della danza, disciplina caratterizzata più di altre da una marcata valenza emotiva, noi nel 2022 ci accontentiamo della grande energia e della gioia che sprigiona la musica. Brillante, dal mio punto di vista, l’interpretazione di Marco Seco sul podio, che ha saputo amalgamare le peculiarità di due orchestre diverse in una partitura ricca di inventiva ritmica in cui convivono echi di danze popolari, marce e serotini bagliori riflessivi che si sciolgono in un finale luminosissimo. Il teatro era finalmente affollato e il pubblico, molti i giovani, ha tributato un grande successo agli interpreti e alla serata. L’auspicio è che la sinergia tra la fondazione triestina e la Società dei Concerti diventi una costante del panorama culturale regionale.
Ludwig van Beethoven
Ouverture Leonore n.3 in do maggiore op 72b
Ludwig van Beethoven
Fantasia in do minore per pianoforte, soli e coro op 80
Teatro Verdi, 18 dicembre 2021, penultimo atto della stagione artistica a Trieste. Poi, il 31, si svolgerà il Concerto di Capodanno e, finalmente, ci lasceremo alle spalle un annus horribilis con i controfiocchi durante il quale gli spettacoli sono stati quasi sempre sotto la spada di Damocle dell’incertezza dovuta alla pandemia. Addirittura, come ovunque in Italia e nel mondo, concerti a porte chiuse, nella migliore delle ipotesi trasmessi in streaming o in televisione. Un teatro (in greco théatron, luogo di pubblico spettacolo) senza pubblico in sala è quasi un paradosso, una contraddizione in termini. Serata mozartiana che prevedeva nella prima parte la Sinfonia n.39 in mi bemolle maggiore K543, datata 1788, quando Mozart era demoralizzato perché alle prese con notevoli difficoltà economiche. Nonostante ciò, dalla pagina musicale non traspaiono certo cupezze o retrogusti problematici e anzi, la cifra distintiva del brano è una spiccata luminosità. Strutturata in tre movimenti – nel terzo Minuetto e a seguire Allegro – la sinfonia colpisce per lo straordinario equilibrio che la caratterizza e per gli echi nettamente percepibili di lavori coevi del compositore, in particolare il Don Giovanni. Ovviamente non mancano riferimenti a Haydn (nel primo e nel terzo movimento), considerato il “padre” della sinfonia o sonata per orchestra. Mozart, che come tutti i Grandi guardava al futuro, inserì in orchestra i clarinetti – a quel tempo quasi una rarità – escludendo gli oboi. Federico Maria Sardelli tornava a Trieste dopo uno di quei concerti a cui ho accennato all’inizio, monchi di pubblico, e ha dato un’interpretazione della sinfonia che ho trovato molto intelligente e appropriata. Il suo è un Mozart vigoroso, scevro da ogni leziosità che coglie in pieno l’atmosfera serena del brano nel contesto della severità architettonica della struttura sinfonica. L’Orchestra di Trieste, con archi, legni e percussioni in gran spolvero ha risposto con generosità e precisione alle sollecitazioni del direttore. Dopo l’intervallo è stata eseguita la Messa in do minore per soli, coro e orchestra K427, capolavoro di musica sacra che condivide con il Requiem dello stesso compositore la sorte di essere incompiuto. La destinazione d’uso della Messa è curiosa, doveva essere infatti un omaggio di Mozart all’amata Konstanze, che cantò alla prima esecuzione del 1783. Si tratta di una pagina musicale imponente, che si ferma nella liturgia al Benedictus e prevede la partecipazione di un doppio coro, oltre che dell’orchestra e quattro solisti. Bene ne ha sintetizzato lo spirito Giovanni Carlo Ballola:
“Mozart scrive una personale summa theologica del sacro in musica, i cui principi vengono desunti da una sterminata eredità artistica dagli orizzonti europei, sviluppata più in estensione geografica che in profondità storica, non rimontando oltre i limiti del XVIII secolo, il solo che il compositore ritenesse attingibile e spiritualmente frequentabile.”
E, infatti, all’ascolto risaltano evidenti le lezioni di Bach (nelle fughe) e Händel (nei vocalizzi dei cantanti), tanto che lo stile musicale si può definire, semplificando parecchio, assai vicino al barocco. Anche in questo caso è spiccata la bella interpretazione di Sardelli, di cui ho apprezzato il gesto limpido e preciso e l’attenzione alle dinamiche in una partitura che vive, come spesso nella musica chiesastica, di grandi contrasti. Ottima la prestazione del Coro, costretto per ovvi motivi a cantare con la mascherina e preparato da Paolo Longo. Tra i solisti ho trovato eccellenti le prestazioni del soprano Lucrezia Drei – intonatissima, sicura negli acuti e brillante nella gestione della respirazione -, e del mezzosoprano Veta Pilipenko che con la sua voce ambrata si è messa in luce nel monumentale Gloria. Il tenore Vassilis Kavayas è parso molto emozionato ma comunque nell’ambito di un rendimento positivo; bravo anche il tonante basso Cristian Saitta, che interviene solo nel Benedictus finale. Orchestra di nuovo sugli scudi, capace di un suono raccolto e al contempo emozionante e maestoso. Il pubblico, abbastanza numeroso, ha apprezzato molto la serata. Numerose le chiamate al proscenio sia dopo la prima parte sia alla fine per Federico Maria Sardelli. Entusiasmo anche per tutti i solisti e per il coro e l’orchestra della fondazione.
Al Teatro Verdi, in una Trieste ancora dilaniata dalle polemiche sulle misure cautelari per il Covid-19 e ostaggio dell’ennesimo corteo dei no green pass e no vax, si è svolto il primo dei due concerti autunnali organizzati poco tempo fa per riempire il buco di programmazione dovuto alla mancata stagione sinfonica.
I disordini hanno avuto luogo a pochi metri dal teatro e perciò, senza esprimere valutazioni sulla questione, l’unica circostanza che mi pare valga la pena sottolineare è che una volta di più la musica – ma direi l’Arte in generale – ha confermato il suo intrinseco valore salvifico di sospensione dalla realtà: la bellezza forse non salverà il mondo, ma sicuramente lo rende più vivibile. Tornando alla serata, protagonisti sono stati due artisti coevi ma affatto diversi tra loro: Camille Saint-Saëns (il Brahms francese) e Johannes Brahms. Ha aperto la serata il Concerto per violino e orchestra n.3 in si minore, op.61 del compositore francese. Strutturato in tre movimenti, il concerto è stato scritto pensando alle caratteristiche tecniche di uno dei più famosi virtuosi di sempre, Pablo de Sarasate. La pagina musicale esplora tutto lo spettro espressivo dello strumento; sono ovviamente numerosi e impervi gli sprazzi solistici – soprattutto nel Terzo movimento Molto moderato e maestoso -ma non mancano le aperture melodiche e rimandi alla musica popolare che caratterizzano buona parte della musica di Saint-Saëns. Kuba Jacovicz, figlio d’arte, si è dimostrato all’altezza della situazione sia per doti tecniche sia per espressività, palesando anche col corpo un’interpretazione intensa, passionale ed empatica del brano. Lo ha supportato brillantemente la compagine orchestrale triestina, guidata da Pinchas Steinberg, che ha saputo bilanciare con meditato equilibrio il dialogo tra solista e orchestra. Alla fine sono state numerose le chiamate al proscenio per Jacovicz, che ha regalato un bis al pubblico entusiasta. Dopo la pausa è stata la volta di uno dei monumenti della musica sinfonica e cioè la Seconda sinfonia in re maggiore, op.73 di Brahms, che vide la prima esecuzione nel 1887, tre anni prima del concerto per violino di Saint-Saëns. Contrariamente a composizioni precedenti, Brahms scrisse questasinfonia in modo spedito e senza intoppi, nella pace e nella serenità di luoghi baciati dalla bellezza della Natura e avvolto dalle influenze culturali della Mitteleuropa. Questa atmosfera rilassata e distesa si percepisce nella musica, seppure screziata da qualche evanescente ripiegamento malinconico sottotraccia forse dovuto all’incertezza intellettuale di chi, dopo Beethoven, si è cimentato col genere sinfonico. La pagina musicale è scorrevole e nonostante non manchino contrasti dinamici anche importanti, mantiene una cifra lirica e cantabile che la rende accattivante anche al primo ascolto. Di grande rilievo la prova dell’Orchestra del Verdi che ha ben figurato in tutte le sezioni. Eccellenti gli archi gravi, setosi e avvolgenti viole e violini. Brillanti anche le prestazioni dei legni e degli ottoni, in evidenza particolare in questa pagina brahmsiana. Ovviamente è stato fondamentale l’apporto di Pinchas Steinberg il quale, senza troppe teatralità e con asciutta concretezza ha ottenuto un suono omogeneo ed equilibrato dall’orchestra che ne ha raccolto le suggestioni. Il pubblico, abbastanza numeroso considerato il contesto, ha decretato un eccellente successo al direttore e alla compagine triestina
Data dello spettacolo: 07 Nov 2021
Camille Saint-Saëns
Concerto per violino e orchestra n.3 in si minore, op.61
Il bambino in stile bambola meccanica horror no, non ci stava (strasmile)
Madama Butterfly è una di quelle opere che richiamano sempre pubblico in teatro, perciò bene ha fatto il management del Verdi di Trieste a inserirla nella programmazione della stagione attuale che oltretutto – priva di un cartellone dedicato alla musica sinfonica – appare un po’ smilza. L’allestimento è lo stesso proposto nel maggio del 2019, in epoca pre-Covid quindi, firmato da Alberto Triola. Due anni fa a proposito dello spettacolo scrivevo:
Nella concezione di Alberto Triola, regista di questa nuova produzione di Madama Butterfly, la triste e breve parabola di Cio-Cio-San si compie in un Giappone riconoscibile ma appena tratteggiato da pochi elementi scenici che quasi galleggiano in uno spazio onirico, un non luogo in cui – forse – Butterfly fantastica con la sua mente di donna appena adolescente. Ed è proprio l’incontro/scontro tra un mondo infantile e delicato e quello adulto e cinico a essere la chiave di volta della regia che riporta in modo deciso Butterfly alla sua dimensione più fragile: quella di una bambina in balia di eventi più grandi di lei che le distruggono i sogni e il futuro, tanto da rendere quasi inevitabile l’estremo sacrificio finale che si compie, in linea con l’impostazione registica, fuori scena e senza clamori. La delicatezza e la sobrietà caratterizzano anche la recitazione dei protagonisti, che con pochi e ben studiati movimenti – talvolta uno sguardo o solo un cenno – interagiscono virtuosamente impreziosendo il canto di conversazione sommesso che caratterizza il lavoro di Puccini. Allo stesso modo, filtrati attraverso un velario, ben si alternano tenui e malinconici colori pastello con un raffinato gioco di ombre in controluce. Lo spettacolo si presenta perciò omogeneo nell’ispirazione e ben realizzato grazie alle scene minimaliste di Emanuele Genuizzi e Stefano Zullo, ai cortesi costumi di Sara Marcucci e alle nobili luci di Stefano Capra che danno tridimensionalità e al contempo cromie premurose all’allestimento.
La contingenza (leggi restrizioni causa Covid) ha costretto a qualche modifica in occasione dell’attuale ripresa dello spettacolo, soprattutto nelle interazioni in scena tra i personaggi. La più dolorosa mi è sembrata la rinuncia alla presenza fisica del figlio di Butterfly, perché l’idea del pupazzo stilizzato del bambino è stata realizzata in un modo discutibile che mi ha ricordato più che altro i B movie horror. Certo, si può anche suggerire una specie di gravidanza immaginaria della protagonista, ma a mio parere si poteva fare meglio. Dal punto di vista musicale Puccini vince ancora una volta, grazie soprattutto alla bella direzione di Francesco Ivan Ciampa. Una lettura vivace, caratterizzata da dinamiche anche imponenti ma comunque attente a non sommergere il canto di conversazione, che della musica di Puccini è parte essenziale. Il passo teatrale è incalzante e al contempo analitico, l’accompagnamento ai cantanti attento e meticoloso e non si percepiscono quegli eccessi di melassa che sono rovinosi per una partitura che è invece asciutta, tagliente, cinica.
Evgenia Muraveva vestiva gli scomodissimi panni di Cio-Cio-San. Il soprano russo è stata protagonista di una prova anonima, forse anche per l’emozione della prima. Di Butterfly ha le note (qualcuna anche stiracchiata) ma non ha la colossale dimensione tragica di un personaggio così complesso e sfaccettato. La grande aria del secondo atto è stata compitata con una scarna diligenza che ha lasciato il pubblico freddo. Buono il canto di conversazione, anche se talvolta inficiato da una dizione avventurosa. È probabile che nelle prossime recite il rendimento dell’artista vada crescendo. Francesco Castoro è il classico esempio di tenore lirico leggero che affronta una parte troppo pesante per il suo strumento vocale ma, grazie alle indubbie qualità tecniche, riesce a tratteggiare un Pinkerton credibile ed efficace nei suoi incoscienti slanci testosteronici. La voce è di bel timbro, il fraseggio curato e non manca una certa disinvoltura scenica. Elia Fabbian è stato un convincente Sharpless, del quale ha saputo caratterizzare bene l’ambiguità caratteriale in bilico tra rigurgiti di coscienza e sotteso cinismo. Appena sufficiente la prova di Na’ama Goldman, Suzuki pallidina nel canto e diligente dal punto di vista scenico. Discreto l’affiatamento con la Muraveva nel duetto dei fiori. Di buon livello il rendimento di tutti gli altri interpreti della compagnia di canto che trovate in locandina. Brillante la prova del Coro, preparato per la prima volta da Paolo Longo che subentrava a Francesca Tosi. Di là di qualche veniale sbavatura, inevitabile in una recita dal vivo, l’Orchestra del Verdi ha dimostrato ancora una volta di avere il suono “giusto” per la musica di Puccini e in un’ideale graduatoria di merito della serata si aggiudica il primo posto. Pubblico scarso, poco coinvolto, parco di applausi a scena aperta. Alla fine tutta la compagnia artistica ha ricevuto applausi e approvazioni.
Alla fine la trama dell’operetta La vedova allegra si potrebbe ridurre al calembour del titolo. E poi diciamolo, tornare a teatro non ha prezzo!
L’operetta a Trieste raccoglie da sempre unanimi consensi ed è quindi comprensibile l’inserimento di un titolo paradigmatico come La vedova allegra di Lehár in questa stagione di transizione. Tra l’altro anche recentemente l’argomento operetta è stato oggetto di studi, come riportato da OperaClick nel bel lavoro di Luisa Antoni. Genere musicale peculiare, che galleggia vaporoso in una zona franca ai confini del più austero Singspiel tedesco e della spensierata e graffiante opèra-comique francese, l’operetta alterna brani musicali a dialoghi parlati e intermezzi coreutici. Lavoro mitteleuropeo per eccellenza, la Vedova Allegra ha in sé una specie di contraddizione schizofrenica: si nutre della decadenza fané dell’impero asburgico ma è ambientata a Parigi, dove si trova l’ambasciata dell’immaginario principato balcanico del Pontevedro. Da qui, poi, l’intricata e ricca trama della vicenda, speziata da equivoci stravaganti, feste, sberleffi e sapide considerazioni politiche a latere che hanno portato a conseguenze non risibili al debutto a Trieste nel 1907: lo stesso Lehár se ne andò per protesta lasciando il podio a un altro direttore. Il problema principale dell’allestimento di un’operetta è che non esiste oggi una forma di spettacolo più inattuale: i dialoghi e le battute devono essere ripensati e attualizzati per “parlare” a un pubblico affatto diverso di quello di inizio Novecento. Questa situazione ha spesso portato a forzature, cachinni e giochi di parole grevi più adatte all’avanspettacolo che a un genere che è invece nobile e sofisticato. Perciò va dato atto subito al regista Oscar Cecchi e al suo team di aver allestito uno spettacolo scevro di qualsiasi volgarità e anzi di aver trattato con divertita leggerezza il tema dell’omosessualità di Njegus, anche grazie alle qualità dell’interprete, Andrea Binetti, che è un artista a tutto tondo ed è risultato il migliore della compagnia proprio per la sua affinità elettiva con lo specifico genere musicale. Sull’allestimento hanno pesato, anche in quest’occasione, le norme restrittive dovute al contenimento del Covid-19. Per questo motivo il primo atto – dopo un simpatico momento di metateatro – è parso piuttosto scarno e poco attraente, ma lo spettacolo ha poi preso quota nel proseguo quando, sfoltiti gli intermezzi parlati, le due feste (pontevedrina e parigina) sono state movimentate dalle danze popolari, da uno scenario suggestivo nel racconto dell’incantesimo di Vilja e dal Can-Can da Maxim’s. Molto brava la ballerina solista Cler Bosco, detto per inciso. Bello l’impianto luci, purtroppo non segnalato in locandina, e adeguate le scene (Paolo Vitale) e le coreografie (Serhiy Nayenko). Intelligente anche la soluzione di eseguire l’OuvertureEin Morgen, ein Mittag und ein Abend in Wien di Franz von Suppé durante il cambio scena tra il secondo e terzo atto, che ha consentito al pubblico di restare in sala senza distrarsi. Per quanto riguarda la compagnia artistica sono stati meritevoli tutti i comprimari elencati in locandina, con un cenno particolare alla sulfurea Praskowia sadomaso di Marzia Postogna. Bene il Coro, preparato da Francesca Tosi. I protagonisti sono sembrati all’altezza della situazione, considerando che nelle prossime recite l’affiatamento non potrà che migliorare. Valentina Mastrangelo è parsa a proprio agio nella parte di una Hanna Glawari impeccabile vocalmente ma alla quale forse manca un po’ di quella allureglamour di gran dama carismatica che avrebbe caratterizzato meglio il personaggio. Gianluca Terranova ha risolto il carattere dello scapestrato Danilo con il gran mestiere e la disinvoltura scenica dell’artista di esperienza. Molto brava Giulia Della Peruta, maliziosa Valencienne, dotata di una voce che spiccava nei concertati e dalla bella presenza scenica. Elegante Oreste Cosimo nei panni di Camille de Rossilon e convincente Clemente Antonio Daliotti nella parte dello stolido Barone Mirko Zeta. Eccellente la direzione dell’esperto Christopher Franklin che ha ben evidenziato con charme sia il lato malinconico sia l’esprit più dinamico della partitura, accompagnando con grande attenzione i cantanti. Molto buona in tutte le sezioni la risposta dell’Orchestra del Verdi che, per usare un termine calcistico, giocava in casa: splendidi gli archi, con il KonzermeisterStefano Furini brillante e coinvolto. Teatro esaurito, pur nei limiti di una capienza forzatamente ridotta, e pubblico felice che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica.
Hanna Glawari
Valentina Mastrangelo
Danilo Danilowitsch
Gianluca Terranova
Valencienne
Giulia Della Peruta
Camille de Rossillon
Oreste Cosimo
Njegus
Andrea Binetti
Barone Mirko Zeta
Clemente Antonio Daliotti
Raoul de Saint-Brioche
Andrea Schifaudo
Visconta Cascada
Filippo Fontana
Praskowia
Marzia Postogna
Bogdanowitsch
Gianluca Sorrentino
Sylviane
Federica Giansanti
Kromov
Alessandro Busi
Olga
Paola Francesca Natale
Pritschitsch
Luca Gallo
Ballerina solista
Cler Bosco
Direttore
Christopher Franklin
Direttore del coro
Francesca Tosi
Regia
Oscar Cecchi
Scene
Paolo Vitale
Coreografie
Serhiy Nayenko
Orchestra e Coro del Teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Con la partecipazione del Corpo di Ballo del Lviv National Academic Opera and Ballet Theatre
Come sapete da qualche anno Di tanti pulpiti ha un agente segreto all’interno del Festival di Bayreuth. L’inviato speciale ci racconta i retroscena del Festival esprimendo le sue opinioni: ecco il primo dossier (strasmile).
Ripartire non è stato facile ma era, a dir poco, necessario. Sarà per tutti noi che lavoriamo qui un festival da ricordare e, al contempo, da dimenticare. Stringatamente:
1) Tampone quotidiano obbligatorio (tornerò a casa con le narici di un equino!).
2) Ingressi ed uscite dal palcoscenico, sala coro, camerini etc.etc differenziati (della serie: si entra da una parte e si esce dall’altra che, solitamente dista circa un km. Tornerò con i polpacci di un maratoneta)
3) Il coro è diviso in due gruppi ciascuno di 70 elementi. Un gruppo canta dalla sala coro con tanto di microfono ed il tutto viene trasmesso in tempo reale in palcoscenico. L’ altro gruppo è in palcoscenico e..”muove la bocca”. Si, hai letto bene: cantiamo in…playback”. Risultati, durante le prove, discutibili. Tornerò a casa con uno spiccato sviluppo della muscolatura facciale.
4) Abbiamo fatto tutte le prove in palcoscenico con la mascherina in sala coro hai visto come siamo stati “ingabbiati”. Per fortuna a partire dalle prove di assieme abbiamo potuto liberare il nostro volto… 5) Riguardo Holländer: ottima a dire poco la Grigorian anche se, a mio avviso, troppo “temperamentosa”. Ciò, in alcuni momenti va a scapito della voce ma glielo perdono. Direttrice d’orchestra molto in gamba che riesce a tenere testa ad un’orchestra che, con i direttori, sa essere molto critica e lo manifesta apertamente. Ciò fino ad ora non è avvenuto. Regia: mi farebbe piacere sapere che cosa mai hanno passato nella loro infanzia e adolescenza i registi attuali…Tutto sommato non è male ma c’è tanto Freud e non troppo Wagner…Ma qui si usa così…
6) Le altre opere sono collaudate e non c’è molto da dire se non che sono state ridimensionate scenicamente e registicamente per un coro dimezzato…
7) Non so come risulti, all’ascolto, il tutto. Posso giudicare solo ciò che arriva in palcoscenico e preferisco non farlo.
8) Non mi viene, per il momento, in mente altro ..Ah! Sì! Nei Meistersinger, Festwiese, noi, meschini! che sediamo negli ultimi banchi abbiamo in dotazione anche i tappi per le orecchie perché abbiamo alle nostre spalle i riporti…
9) Tutto è terribilmente triste e non solo per quanto ho detto ma perché si avverte un tentativo forzato di ritorno alla normalità. Già il fatto di non vedere pubblico alle generali non è stato bello. Spero che con gli spettacoli la cosa cambi. Gli spettatori in sala saranno 900, salvo restrizioni dettate dall’andamento dei contagi. Il resto me lo dovrete dire voi che ascolterete. Io potrò solo darvi notizia di quanto accadrà…
Nel leggere queste mie considerazioni semiserie dovete tenere presente che la lirica è un mondo in cui invece di dire “apri la finestra”, Violetta Valéry Traviata, rivolta alla sua ancella Annina, si esprime così: dà accesso a un po’ di luce. Quindi, è un mondo inverosimile, che non esiste e non è mai esistito nel quale si muovono personaggi improbabili. Ci sta, perciò, che un vecchio somaro di falstaffiana memoria come me ragli qualche stupidaggine e pretenda che sia propedeutica all’ascolto di un’opera. Opera che appunto, è La traviata di Giuseppe Verdi che venerdì prossimo riaprirà dopo un tempo interminabile la stagione del Teatro Verdi di Trieste. Una curiosità statistica: nell’arco dei prossimi trenta giorni La traviata sarà allestita una o più volte in Italia, Ungheria, Svizzera, Spagna, Slovacchia, Russia, Repubblica Ceca, Inghilterra, Francia, Germania, Bulgaria, Finlandia, Austria e Australia Impossibile scrivere qualcosa che non sia già stato detto su codesto monumento operistico, perciò mi limito al minimo indispensabile, lasciando poi al lettore curioso l’approfondimento.
1) L’opera debuttò alla Fenice di Venezia il 6 marzo 1853.
2) Fu un mezzo disastro, tanto che Verdi stesso scrisse così al famoso direttore d’orchestra Angelo Mariani: La Traviata ha fatto un fiascone e peggio, hanno riso. Eppure, che vuoi? Non ne sono turbato. Ho torto io o hanno torto loro. Per me credo che l’ultima parola sulla Traviata non sia quella d’ieri sera.
3) Il soprano che per primo impersonò la protagonista Violetta Valéry, Fanny Salvini Donatelli, ebbe poi una carriera, tutto sommato, piuttosto modesta.
4) L’opera avrebbe dovuto intitolarsi Amore e morte, ma l’ufficio censura veneziano chiese che il titolo fosse cambiato.
5) Il libretto è tratto dal dramma La Dame aux camelias, di A. Dumas figlio.
6) Nel lavoro di Dumas la figura della protagonista, Margherita Gautier, è ispirata a una cortigiana realmente esistita, di nome Alphonsine Duplessis.
7) Dumas stesso la descrive così: “Era alta, esilissima, i capelli scuri e la carnagione rosea e bianca. Aveva la testa piccola e gli occhi lunghi e obliqui come quelli di una giapponese, ma vivaci e attenti.”
8) La Duplessis morì nel 1847, a soli 23 anni.
9) Dopo il “fiascone” della prima Verdi rimaneggiò qualche passo, e il 6 maggio 1854, ancora a Venezia, il soprano Maria Spezia, anche grazie ad una presenza scenica più credibile, donò alla creatura verdiana l’immortalità.
10) Giuseppe Verdi parlò spesso della Traviata e tra le sue lettere si evidenziano due osservazioni, in particolare.
La prima: Se fossi un Maestro preferirei Rigoletto, se fossi un dilettante amerei soprattutto La Traviata. La seconda, riferita a Gemma Bellincioni (famoso soprano dell’epoca): Non potrei giudicarla nella Traviata: anche una mediocrità può avere qualità per emergere in quell’opera, ed essere pessima in tutte le altre.
Cosa attira il pubblico, dopo più di un secolo e mezzo e infinite rappresentazioni, in quest’opera? Io la penso come Julian Budden, uno dei più prestigiosi studiosi del compositore di Busseto: la semplicità, la capacità straordinaria di suscitare emozioni che la partitura ci elargisce a piene mani a partire dal Preludio. Aggiungerei anche la forza che ha questa sfortunata ragazza di elevarsi dal mondo sordido in cui vive. Violetta non è mai volgare, sembra quasi galleggiare con grazia sopra la melma, anche quando si “diverte”. Gli altri personaggi, da Alfredo a papà Germont, sono sotterrati dal punto di vista psicologico dalla protagonista, anche se non si può negare loro una certa nobiltà di sentimenti. E allora quando Violetta esplode nel suo “Amami Alfredo” anche lo spettatore più cinico e incarognito si commuove e si scioglie in lacrime. A proposito di questioni semiserie, che sono il pane di questo blog, va da sé che la censura dell’epoca (ma ‘sta censura quando è nata e, soprattutto, quando morirà?) si scatenò in tutti i modi sul testo di Piave, con la Chiesa a fare da ridicolo apripista, ovviamente. Il celeberrimo e ormai proverbiale “croce e delizia” diventò “pena e delizia” a Napoli, per esempio. Oppure la convinzione di Violetta che “la vita è nel tripudio” si trasformò in un meno categorico “Mia vita è nel tripudio”. I compassati critici inglesi scrissero di “un orrore indecente e esecrabile”, nonostante i trionfi londinesi.
Insomma, che vi devo dire. Ci rileggiamo per la consueta recensione semiseria e buon ascolto.
Sabato prossimo, 12 giugno, Trieste torna ad abbracciare il suo teatro con un concerto commemorativo dedicato alle vittime della pandemia al quale si potrà accedere per invito. L’ingresso è infatti limitato ai lavoratori della sanità, alle forze dell’ordine e ai lavoratori della grande distribuzione commerciale. Io, che non sono che un critico, avrei potuto partecipare ma purtroppo per impegni pregressi sarò fuori Trieste. A maggior ragione, allora, scrivo volentieri due righe di presentazione della pagina musicale scelta per la serata: lo Stabat Mater di Gioachino Rossini. La tribolata genesi di questa sequenza liturgica in musica (in cui nel corso dei secoli si è cimentata una pletora di compositori, da Pergolesi a Piovani, passando per Haydn e Penderecki, solo per citarne alcuni) è singolare e appartiene al periodo in cui Rossini si era ritirato ufficialmente a vita privata e non componeva più. Nel 1832 il fortuito incontro con un prelato spagnolo spinse il compositore pesarese a un ripensamento, non troppo convinto evidentemente, perché in un primo tempo furono scritti solo sei dei dieci pezzi dello Stabat. Solo una complessa controversia giudiziaria convinse poi Rossini all’ultimazione del suo lavoro, che fu eseguito per la prima volta nel 1842, ovviamente a Parigi – dove viveva ormai da molti anni – raccogliendo un successo strepitoso. In Italia lo Stabat Mater arrivò qualche mese dopo, a Bologna, e a dirigerlo – ancora con straordinario successo – fu Gaetano Donizetti. Di là di questo, ritengo che lo Stabat Mater sia una di quelle composizioni che si possono definire metaforicamente di confine, nel senso che è enigmatico, sospeso com’è tra un retrogusto teatrale sottotraccia e una sacralità non ostentata ma ben percepibile sia in alcuni interventi dei solisti sia nello splendido e liberatorio fugato finale affidato al Coro. Lo Stabat Mater si compone di dieci numeri, dei quali do una sintetica guida giustappunto per orientarsi un minimo in questa pagina musicale ricca di suggestioni sacre e…profane.
1. Introduzione (per Coro e Soli) Stabat Mater dolorosa: è un brano fortemente drammatico, connotato da contrasti cromatici e di spessore quasi sinfonico in cui l’atmosfera è schiettamente chiesastica. 2. Aria (tenore) Cuius animam: aria di tessitura impervia, che costringe l’interprete a difficili saliscendi sul pentagramma che culminano in un re bemolle pesantissimo. Concordo con i molti che la considerano quasi un’aria operistica. 3. Duetto (soprano e mezzosoprano) Quis est homo: brano di suprema dolcezza, virtuosistico, in cui è fondamentale l’intesa tra le interpreti.
4. Aria (basso)
Pro peccatis: anche in questo caso sembra quasi che l’aria sia estrapolata da qualche opera. Nel finale il virtuosismo richiesto è estremo e, oltretutto, su di una scrittura orchestrale densissima.
5. Coro e recitativo (basso) Eia, mater: coro maschile e femminile sono i protagonisti, che si alternano al basso che fa quasi da raccordo tra le due compagini.
6. Quartetto (Soli) Sancta Mater istud agas: protagonisti, appunto, i quattro cantanti solisti. Anche in questo caso è indispensabile amalgama tra gli interpreti e un direttore di polso, altrimenti il rischio di andare fuori tempo tra canti e controcanti è altissimo.
7. Cavatina per mezzosoprano Fac ut portem: altra aria di estrazione operistica, che a me ricorda per vari aspetti i melodrammi rossiniani del periodo napoletano.
8. Aria per soprano e coro Inflammatus et accensus: aria di difficoltà estrema già dall’incipit, in cui il soprano deve avere accento tragico, dizione scandita e notevoli capacità tecniche.
9. Quartetto (soli)
Quando corpus: gli interpreti cantano a cappella, cioè senza l’accompagnamento dell’orchestra. Anche qui, difficile, molto difficile.
10. Finale (Coro) Amen, in sempiterna: fugato severo e solenne, che chiude questo meraviglioso lavoro.
A seguire il testo:
Stabat Mater dolorósa iuxta crucem lacrimósa, dum pendébat Fílius.
Cuius ánimam geméntem, contristátam et doléntem pertransívit gládius.
O quam tristis et afflícta fuit illa benedícta Mater Unigéniti!
Quae moerébat et dolébat, Pia Mater dum videbat nati poenas íncliti.
Quis est homo, qui non fleret, Matrem Christi si vidéret in tanto supplício?
Quis non posset contristári, Christi Matrem contemplári doléntem cum Filio?
Pro peccátis suae gentis vidit Jesum in torméntis et flagéllis sùbditum.
Vidit suum dulcem natum moriéndo desolátum, dum emísit spíritum.
Eia, mater, fons amóris, me sentíre vim dolóris fac, ut tecum lúgeam.
Fac, ut árdeat cor meum in amándo Christum Deum, ut sibi compláceam.
Sancta Mater, istud agas, crucifíxi fige plagas cordi meo válide.
Tui Nati vulneráti, tam dignáti pro me pati, poenas mecum dívide.
Fac me tecum pìe flere [Fac me vere tecum flere], Crucifíxo condolére donec ego víxero.
Iuxta crucem tecum stare, Et me tibi sociáre [te libenter sociare] in planctu desídero.
Virgo vírginum praeclára, mihi iam non sis amára, fac me tecum plángere.
Fac, ut portem Christi mortem, passiónis fac consòrtem et plagas recólere.
Fac me plagis vulnerári, cruce hac inebriári et cruòre Fílii.
Flammis ne urar succènsus [Inflammatus et accensus], per te, Virgo, sim defénsus in die iudícii.
Fac me cruce custodíri morte Christi praemuníri, confovéri grátia.
Quando corpus moriétur, fac, ut ánimae donétur paradísi glória.
È stata presentata oggi alla stampa, al Teatro Verdi di Trieste, la stagione artistica 2021/2022. Di solito ho sempre commentato le scelte e i titoli in programmazione, ma quest’anno mi astengo felicemente perché l’unica cosa che conta è che il teatro riapra il prima possibile. Ci sarà tempo nelle prossime settimane per altre considerazioni anche critiche che, in ogni caso, possono trovare posto nei commenti. Per ora vi comunico solo che stamattina ero emozionato come nelle grandi occasioni; mi sono persino messo – per un criminale dell’outfit come me – una cravatta (strasmile). A seguire il comunicato stampa del teatro, a presto!
Trieste, 12 maggio 2021: un programma che abbraccia un periodo lungo, da giugno 2021 fino a luglio 2022, diviso in tre momenti. Le grandi opere amate dal pubblico, come “La Traviata”, ma anche il ritorno dell’operetta, con “La Vedova Allegra”. E poi eventi speciali, come quello dedicato alle vittime della pandemia, e ancora balletti, concerti con artisti internazionali e l’avvio della stagione lirica con “Amorosa Presenza”, la prima opera scritta dal Premio Oscar Nicola Piovani. Sono alcuni degli elementi principali dell’attività artistica 2021-2022 del Teatro Verdi di Trieste, illustrata nel corso di un evento mercoledì 12 maggio. Una presentazione che segna la ripartenza insieme al pubblico e che rappresenta un impegno importante per la Fondazione, frutto di un intesto lavoro svolto nei mesi scorsi.
Presentazione/concerto: l’attività è stata annunciata nel corso di una presentazione che ha visto i saluti del sindaco e presidente della Fondazione Teatro Lirico Giuseppe Verdi, Roberto Dipiazza, dell’assessore regionale alla Cultura Tiziana Gibelli, che ha partecipato con un video messaggio, e con gli interventi del Sovrintendente Stefano Pace, del Direttore Generale Antonio Tasca e del Direttore Artistico Paolo Rodda. E con la partecipazione anche del Maestro Piovani. Sul palco la musica di Coro e Orchestra della Fondazione, diretti da Yuri Yamasaki.
Sovrintendente Stefano Pace: «È una presentazione a distanza dal nostro pubblico ma con la consapevolezza, e la gioia, che presto potremo accogliere tutti nuovamente a teatro. La programmazione presentata guarda al futuro con positività, con la voglia di ricominciare e con un rinnovato entusiasmo. Naturalmente dovremo continuare a monitorare nei prossimi mesi l’andamento della situazione sanitaria, ma l’auspicio è che si possa andare verso un quadro sempre migliore, per tornare a quella normalità che tutti attendiamo con trepidazione, per ritrovare il nostro pubblico e per trasformare nuovamente il teatro in quel luogo privilegiato per incontrarsi, per stare insieme, un luogo di intrattenimento, di cultura, e soprattutto di socialità, tanto più fondamentale dopo un anno all’insegna delle limitazioni».
Direttore Generale Antonio Tasca: «In un momento come quello che stiamo vivendo, presentare un’attività così lunga è per noi motivo di grande orgoglio. E ci vuole grande coraggio. Abbiamo scelto di dividere il programma in una prima attività estiva, intitolata “Verdi estate”, seguirà l’attività autunnale, che si concluderà a fine dicembre, per lasciare posto poi alla stagione lirica, per gli abbonati, che si aprirà con “Amorosa Presenza”, la prima opera del Maestro Nicola Piovani, che proprio in queste settimane sta lavorando qui a teatro. Il programma coinvolge un arco temporale fino a luglio 2022 e deriva da un lavoro portato avanti negli ultimi mesi insieme al Direttore Artistico Paolo Rodda, e allo staff di Direzione con Daniela Astolfi, Stefano Hauser e Paolo Vitale, e che punta a riprendere l’attività operistica con il nostro pubblico, e ad ampliarla ulteriormente, con diverse novità. Penso al ritorno dell’operetta, al balletto, al tango, ma anche a grandi eventi come il concerto in memoria delle vittime della pandemia, primo appuntamento in calendario, o quello che chiuderà la programmazione estiva, che vedrà protagonisti artisti di fama internazionale». E sul fronte dei ticket ha anticipato: «La biglietteria riaprirà il 31 maggio, per chi vuole acquistare i biglietti per seguire gli spettacoli e per chi deve recuperare i titoli persi nella prima o nella seconda ondata di chiusure, attraverso i voucher. Ma già dal 24 maggio saranno attivi i canali, per richiedere informazioni. C’è poi la volontà di riprendere appena possibile anche gli appuntamenti con le scuole e le visite guidate a teatro, aperte al pubblico».
Direttore Artistico Paolo Rodda: «Da un lato il pubblico ritroverà la grande tradizione operistica, con titoli emblematici, come Tosca, Il Rigoletto o Don Pasquale, dall’altra assisterà a una novità importante, l’opera di Piovani, che si inserisce in un percorso che il Verdi ha intrapreso da anni, con la volontà di proporre un’attività innovativa. Credo che nel panorama nazionale delle Fondazioni, nella storia recente in particolare, sia una rarità e un segnale molto forte del desiderio di presentarsi al pubblico in modo diverso. In tal senso penso anche ad alcune scelte inusuali che abbiamo adottato, come il dittico inedito Al Mulino/Pagliacci, che rappresenta una prima assoluta e che dimostra, anche in questo caso, la voglia di seguire il solco della tradizione, pensando sempre a proposte nuove e in grado di stupire favorevolmente il pubblico. E lo facciamo con grande passione, nonostante la battuta d’arresto dovuta al Covid. Riprendiamo da dove ci eravamo fermati e con un programma articolato. Ci vuole coraggio, in questo particolare frangente storico, a pianificare a un periodo così lungo. Ma vogliamo farlo per riprendere quello slancio, quella spinta, che prima della pandemia ci aveva contraddistinti: un teatro proiettato verso il futuro, ora più che mai»
L’attività artistica:Si comincia il 12 giugno con “Stabat Mater”, concerto in memoria delle vittime della pandemia. Dal 25 al 29 giugno e poi il 2 e il 3 luglio, torna “La Traviata”, diretta da Michelangelo Mazza, con gli interpreti principali Ruth Iniesta, Marco Ciaponi, Angelo Veccia. “Il Lago dei Cigni” sarà in programma dal 13 al 18 luglio, con la direzione di Yuriy Bervetsky, e con i solisti Natalia Matsak, Denis Nedak. “La Vedova Allegra” riporterà sul palco l’operetta dal 23 al 27 luglio, mentre i ballerini di tango che già si sono esibiti di recente al Teatro Verdi, torneranno in scena con “Tango e dintorni”, il 31 luglio. Gran finale per la prima parte dell’attività con Viva “Il” Verdi, l’8 agosto, un concerto che sarà presentato nel dettaglio a luglio.
Si proseguirà dal 3 all’11 dicembre con “Il Barbiere di Siviglia”, diretto da Francesco Quattrocchi, con gli interpreti principali Antonino Siragusa, Mario Cassi, Paola Gardina. Seguiranno due eventi tradizionali, il Concerto di Natale, il 18 dicembre, con Orchestra e Coro della Fondazione, impegnati il 31 dicembre anche nel Concerto di Fine Anno.
La stagione lirica e di balletto, per gli abbonati, inizierà con “Amorosa Presenza”, di Nicola Piovani, dal 21 al 29 gennaio, diretta dal Maestro, con gli interpreti principali Maria Rita Combattelli, Giuseppe Tommaso, Aloisa Aisemberg, William Hernandez. Si continuerà con Schehrazade/Carmen, spettacolo di balletto, dall’8 al 12 febbraio, con Orchestra e tecnici della Fondazione. E poi Tosca, dal 4 al 12 marzo, con il direttore Christopher Franklin e gli interpreti principali Maria Josè Siri, Mikheil Sheshaberidze, Ernesto Petti, Don Pasquale, dall’1 al 9 aprile, con il direttore Roberto Gianola e gli interpreti principali Antonino Siragusa, Nina Muho, Pablo Ruiz, Rigoletto, dal 6 al 14 maggio, diretto da Valentina Peleggi, con gli interpreti principali Devid Cecconi, Ruth Iniesta, Iván Ayón Rivas. E infine l’atteso Al Mulino/Pagliacci, dal 10 al 18 giugno, con i direttori Fabrizio Da Ros/Fabrizio Maria Carminati e con Afag Abbasova-Budagova Nurahmed, Domenico Balzani, Zi Zhao Guo/ Amadi Lhaga, Valeria Sepe, Devid Cecconi.
Il concerto di apertura, il 12 giugno, che ricorderà le vittime della pandemia, sarà esclusivamente su invito, rivolto a medici, infermieri, operatori sanitari, forze dell’ordine e a tutte le categorie che durante l’emergenza sanitaria hanno lavorato in prima fila. L’acquisto dei biglietti per il pubblico invece inizierà con il secondo spettacolo in cartellone, La Traviata.
Amorosa Presenza: Il Maestro Nicola Piovani ha scelto Trieste per la sua prima opera lirica, che sta prendendo vita in questi giorni a teatro, con un percorso a stretto contatto con il Verdi e con tutti i professionisti coinvolti, che sarà anche raccontato attraverso un documentario. Un progetto nato su volontà del Direttore Generale Antonio Tasca. “Amorosa presenza” porterà in scena la storia di due ragazzi degli anni Settanta innamorati dell’amore, una trama caratterizzata da imprevisti e colpi di scena. Un’opera ispirata dal romanzo di Vincenzo Cerami e rimasta a lungo in un cassetto, prima di vedere la luce a Trieste.
Telequattro: la presentazione dell’attività artistica 2021-2022, in onda mercoledì 12 maggio alle 20.05 su Telequattro, sarà trasmessa in replica giovedì 13 maggio alle 13.40.
Episodicamente recensisco Cd o Dvd che le case discografiche gentilmente mi mandano. È questo il caso di Alceste, nella versione parigina, dopo che sei anni fa (il tempo vola!) vidi la versione viennese a Venezia.
La riforma gluckiana – formula che tende a semplificare di molto un processo culturale complesso – è ben rappresentata da Alceste, opera di grande fascino e complessivamente poco eseguita. Perciò, soprattutto in questi tempi orribili in cui i teatri sono chiusi quasi ovunque, il DVD della UNITEL è più che benvenuto. Si tratta della registrazione di una produzione – che si riferisce alla versione parigina del 1776 – eseguita alla Bayerische Staatsoper di Monaco di Baviera nel 2019. Spettacolo ricco, quasi opulento, ma che presenta parecchie criticità. La regia di Sidi Larbi Cherkaoui sembra un puzzle mal riuscito, con evidenti ispirazioni al teatro di Robert Wilson soprattutto nella gestualità ridotta dei protagonisti. E le stesse coreografie, sempre firmate dal regista, soddisfano solo dal punto di vista estetico ma non si compenetrano con la tragicità classica della narrazione; sono un valore aggiunto effimero e aleatorio. Anche i costumi di Jan -Jan Van Essche sembrano più che altro velleitari mentre risulta efficace l’impianto luci di Michael Bauer, che valorizza le danze con cromie anche azzardate ma capaci d’impreziosire lo spettacolo con una discreta tridimensionalità. Ho una grande opinione di Antonello Manacorda e anche in questo caso credo di poter affermare che abbia fatto un buon lavoro, anche se la sua direzione non è propriamente in sintonia con l’allestimento. Se il regista vuole stupire, Manacorda “si limita” a un’interpretazione asciutta ma palpitante, emozionante della partitura che guarda alla classicità plastica della vicenda anche a costo di qualche occasionale pesantezza. In particolare, ho trovato brillante l’accompagnamento ai cantanti e davvero coinvolgente l’atmosfera di mistero della strepitosa scena di Alceste e gli spiriti dell’oltretomba. Non particolarmente efficace, invece, mi è sembrato il Coro della Bayerische Staatsoper, che in altre occasioni ho trovato ben più convincente. Ottimo in tutte le sezioni il rendimento della Bayerisches Staatsorchester. La compagnia di canto, complessivamente equilibrata, conta su due grandi nomi come Dorothea Röschmann (Alceste), Charles Castronovo (Admète) e l’affermato baritono Michael Nagy (Le Grand-Prêtre d’Apollon/Hercule): quest’ultimo mi è parso il migliore vocalmente e per pertinenza stilistica. Gli altri due protagonisti non sfigurano certo, ma la Röschmann mi è sembrata troppo monolitica nella sua interpretazione che se da un lato convince per accento, dall’altro trascura la parte più intima del personaggio. Castronovo ha una voce di bel timbro, ma Admète è una parte difficile e avrebbe bisogno di uno scavo psicologico più approfondito. Tutto il resto della compagnia artistica si comporta egregiamente, ma alla fine resta la sensazione che la produzione non aggiunga nulla di nuovo a un’opera che meriterebbe qualcosa di più di una dorata routine.
dmète
Charles Castronovo
Alceste
Dorothea Röschmann
Hercule/Le Grande Pretre
Michael Nagy
Évandre
Manuel Günther
Un Hèrault d’armes/Apollon
Sean Michale Plumb
Coryphèes
Anna El-Kashem, Noa Beinart, Caspar Singh, Frederic Jost
Hanno detto: