Venerdì 12 maggio al Teatro Verdi di Trieste “va in onda” la prima di Turandot di Giacomo Puccini e ovviamente mi sento in dovere di scrivere qualche spigolatura sull’opera per i miei happy few. Opera amatissima e popolare Turandot, lasciata incompiuta da Puccini, che morì mentre ne stava scrivendo le ultime due scene poi completate da Franco Alfano con la supervisione di Arturo Toscanini. Ripensando a Turandot, la prima circostanza che mi colpisce è l’indicazione temporale in cui si svolge la vicenda: al tempo delle favole, a Pekino (sì, scritto così). Se ci pensate è molto bello, rilassante, tornare per un paio d’ore al tempo delle favole: è proprio l’essenza di ciò che dovrebbe essere il teatro, una momentanea sospensione della (e dalla) realtà che, come ben sappiamo, non è che sia poi così allegra e spensierata per nessuno. Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni fu tratto da una nota fiaba di Carlo Gozzi, già messa in musica con esiti alterni da Antonio Bazzini e Ferruccio Busoni. Le cosiddette fiabe, lo affermo da sempre, andrebbero rilette con gli occhi di un adulto perché nascondono significati simbolici piuttosto inquietanti che per fortuna da bambini non si colgono. Pensate alla produzione dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, che non a caso sono definite fiabe iniziatiche. Per fortuna mio papà si è limitato a raccontarmi Il pesciolino d’oro di Aleksandr Puškin che, come potete vedere, effetti nefasti ne ha causati non pochi (strasmile). Comunque, la trasposizione teatrale non segue fedelmente il testo originale, tanto che per esempio il personaggio di Liù – centrale in Puccini – è inventato di sana pianta e non esiste in Gozzi. Puccini aveva ben presente le esigenze teatrali e anzi si riteneva investito della missione di scrivere solo ed esclusivamente per il teatro. Di conseguenza grandi dibattiti, tantissima corrispondenza, qualche volta spiritosa, altre pungente, con i librettisti. I librettisti, poveri, sono proprio maltrattati per default dai compositori…si pensi a Verdi e Piave o Cammarano, solo per citare un caso. Puccini si arrovellò tanto sul finale dell’opera, scrivendo e riscrivendo la musica, scartando molti versi che gli venivano proposti dai librettisti: non trovava una quadratura che lo soddisfacesse del tutto. Purtroppo la malattia che lo minava da tempo non indugiò, invece; morì il 29 novembre del 1924 per i postumi dell’operazione a cui era stato costretto. Per l’editore Ricordi quindi ci fu il problema di affidare a qualcuno la scrittura del finale dell’opera, sulla base degli appunti lasciati da Puccini. La vicenda è complicata, non voglio farla troppo lunga. Il compito fu affidato a Franco Alfano, supportato (o meglio, osteggiato) da Arturo Toscanini. Il risultato è che il finale probabilmente si avvicina abbastanza all’idea di Puccini ma ne confonde lo stile compositivo, anche nella versione rivista da Toscanini. Ancora nel 2002 Ricordi affidò a un compositore contemporaneo la stesura di un altro finale. Luciano Berio, a parer mio, fece un gran lavoro proprio perché volle differenziare la “sua” musica da quella di Puccini. Ma queste sono speculazioni personali e perciò del tutto risibili. In cuor mio sono del parere di Toscanini, che la sera della prima rappresentazione – Teatro alla Scala, 25 aprile 1926 – interruppe l’esecuzione dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù: sono perciò molto soddisfatto che probabilmente sarà proprio questa la soluzione che si adotterà per la prima al Verdi. Turandot è un’opera che si stacca nettamente, a mio parere, dal resto della produzione di Puccini, tanto che in molti si sono chiesti come mai sia diventata così popolare. La risposta sta nel genio di Sor Giacomo, capace di far convivere nella partitura elementi di assoluta novità insieme a certi stilemi più tradizionali. Le parti melodiche ci sono, ma paiono quasi dejà vu o meglio illusioni di una musica ormai estinta, fagocitata dal Moloch del Novecento, il secolo della follia. Non è un caso che Webern consideri “importante” Turandot, e lo scriva al suo maestro Schönberg, padre della musica seriale. Le percussioni hanno un’importanza fondamentale e sono usate sia a scopi coloristici sia per tingere di esotico, di quell’oriente che era ai tempi l’ultimo grido della moda, la partitura. Il coro assume le vesti di un vero personaggio, e le sorti di una buona riuscita dell’opera passano in modo rilevante proprio per il coro. In quanto ai cantanti le difficoltà sono notevoli, soprattutto per quanto riguarda la parte della “Principessa di gelo”: scrittura ostica, acuta e difficile anche dal lato interpretativo oltre che tecnico. Il tenore è condannato, oggi, a un Nessun dorma che si avvicini all’idea che ha la vulgata di “Vincerò”, un’aria che non è mai stata scritta (strasmile). Liù ha difficoltà vocali moderate, ma il fraseggio e l’accento devono essere convincenti, altrimenti il personaggio ne esce insipido. Tutto sommato abbordabile la parte da basso di Timur. Decisivo il rendimento delle “maschere” o ministri Ping, Pong e Pang: se la loro prestazione non è all’altezza sono problemi seri perché reggono in modo decisivo la parte centrale dell’opera. Ovviamente il direttore deve trovare la giusta misura, soprattutto nelle dinamiche che possono essere insidiose. Come in tutto Puccini, fondamentale è il lavoro di concertazione che deve rendere preciso il canto di conversazione. Un paio d’anni fa mi ricordai di Turandot in un momento difficile, era il periodo del lockdown severo causato dalla pandemia. È tutto, per ora.
Venerdì 14 aprile 2023 torna al Teatro Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck e perciò mi accingo alla consueta opera di divulgazione semiseria. Purtroppo il tempo è tiranno e mi devo limitare a poche notizie, che però potrebbero risultare interessanti soprattutto a chi sa poco o nulla di questa “azione drammatica in tre atti”. I protagonisti sono un contralto (Orfeo) e due soprani (Euridice e Amore). C’è un altro personaggio di primo piano non dichiarato ed è il Coro, che nella fattispecie ha importanza fondamentale. I personaggi sono tutti simbolici e fanno parte della mitologia greca.
1) Christoph Willibald Gluck (Erasbach 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) è stato un compositore tedesco.
2) Ranieri de’ Calzabigi è il librettista dell’opera, ovviamente basata sulle vicende del mito di Orfeo, che da sempre ha ispirato legioni di artisti di tutte le arti. Personaggio dalla vita a dir poco avventurosa, passò dalla condanna per “veneficio” a Napoli alla carica di consigliere alla Camera dei Conti dei Paesi Bassi a Vienna. Chi mi conosce sa che una persona così è un mio idolo assoluto.
3) La riforma gluckiana (argomento che meriterebbe quei 2-3 anni di approfondimenti, strasmile) in sostanza è il tentativo di rinnovamento dell’opera seria italiana del Settecento. Per la successiva Alceste, che davvero realizzò in toto la riforma, Ranieri de’ Calzabigi scrisse una prefazione in cui “spiegava” le motivazioni della sua ansia rinnovatrice. Qui un estratto significativo:
Quando presi a far musica dell’Alceste mi proposi si spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’Maestri, da tempo sfigurano l’Opera Italiana, e del più pomposo e bello degli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.
4) Di Orfeo ed Euridice esistono ben quattro versioni “ufficiali”. La “versione Vienna”, che debuttò nel 1762 appunto al Burghtheater di Vienna e che, credo, è quella che vedremo a Trieste. C’è poi la versione del 1774 per Parigi, che differisce dalla prima perché è in francese e per l’aggiunta di arie per i protagonisti, brani corali e danze (indispensabili a quei tempi a…Paris, e non per motivi particolarmente nobili, strasmile). Orfeo, in questo caso, è cantato da un tenore haute-contre (contraltino). Il motivo è dovuto al fatto che i francesi mal digerivano i castrati (è la prima volta in vita mia che sono d’accordo con un francese, diciamolo). Terza in ordine di tempo è la “versione Berlioz” del 1859, in cui per il protagonista si scelse la vocalità contraltile per la presenza della celeberrima Pauline Viardot. Infine la “versione Ricordi”, una specie di fritto misto su testo della versione del 1774 tradotta in italiano con aggiunte dalla versione Berlioz.
5) Alla prima la parte di Orfeo fu interpretata dal famoso castrato Gaetano Guadagni. Per fortuna i castrati non esistono più da tempo, ma ovviamente il motivo per cui negli anni la parte di Orfeo è stata affidata a baritoni, tenori, controtenori, mezzosoprani e contralti è da ricercarsi soprattutto alla decisione, comune a quei tempi, di affidare la parte a un cantore evirato.
Questo è tutto, almeno per il momento, perché sabato sarà il momento della consueta recensione più seria.
Si è concluso felicemente il trittico di concerti che ha visto Charles Dutoit alla testa dell’Orchestra Filarmonica Slovena durante il mese di marzo. E, parlando metaforicamente di conclusioni è arrivata al termine anche la carriera di Aleš Kacjan, primo flauto dell’orchestra per quarant’anni, che ieri alla fine del concerto è stato omaggiato da Dutoit stesso, dal presidente della compagine Matej Šarc e dai colleghi, oltre che dal pubblico che lo ha abbracciato con ovazioni interminabili e meritatissime perché anche nell’ultima occasione ha suonato benissimo. La serata prevedeva due pagine musicali di Beethoven e Berlioz: compositori diversi, musica diversa. Il concerto è cominciato con la Sinfonia n.1 in do maggiore di Beethoven, alla quale Dutoit – che ha diretto a memoria pure la Sinfonia Fantastica di Berlioz nella seconda parte – ha restituito quella leggerezza mozartiana spesso soffocata da esecuzioni che pensano alla monumentalità del Beethoven successivo. Ma saper dirigere non è solo fare eseguire note all’orchestra, bisogna anche valorizzare quegli strani segni sulla partitura, collocandoli con intelligenza e misura nell’età compositiva dell’Autore. Beethoven è anche compositore di transizione, che ha traghettato la musica dal Settecento – appunto Mozart, ma anche Haydn – e l’ha proiettata nel futuro. Lo sostiene lo stesso Berlioz, in una nota espunta dai suoi studi sulle nove sinfonie del tedesco. L’interpretazione di Dutoit, sostenuto da un’orchestra per la quale ormai non ho più aggettivi, ha dato risalto al brio e alla maschia vaporosità del brano con dinamiche decise e al contempo sfumate e agogiche tese ma non certo frettolose. Eccellenti le prestazioni degli archi e dei legni – viole e violoncelli spettacolari – che hanno contribuito a sottolineare la gioiosa empatia emotiva che sprigiona questa pagina giovanile di Beethoven. Durante l’intervallo mi sono soffermato a osservare il pubblico e sempre più mi convinco che a Lubiana la musica è amatissima da chiunque, con i giovani e giovanissimi che sono competenti e appassionati – un quartetto dissertava acutamente, in inglese, sulle differenze tra Beethoven e Berlioz – e altri, un po’ più in là con l’età, che partecipano all’evento musicale con gioia e senza spocchia di alcun genere. È un ambiente inclusivo, familiare, in cui tutti si sentono a proprio agio. Da anni sostengo che la musica tristemente definita seria soffre di un approccio troppo inamidato da parte di certo pubblico, che la considera quasi come un rito liturgico che ha le sue convenzioni immutabili. Pensieri snocciolati così, senza troppo senso, da un ascoltatore che è stato indirizzato a Beethoven durante l’infanzia dal nonno, semianalfabeta, che però mi dava la “sua” interpretazione della Nona Sinfonia. Berlioz è uno di quei compositori (e uomini) borderline che io amo alla follia. La circostanza non mi impedisce però di rendermi conto che la Sinfonia Fantastica è una di quelle pagine musicali in cui convivono momenti di ispirazione felicissima ad altri meno riusciti; di certo il risultato finale è adrenalinico, rinvigorente. È una musica “da vedere” oltre che da ascoltare – come sostiene mia moglie – perché essere presenti in sala è sicuramente un valore aggiunto che aggiunge un’ulteriore dimensione alla percezione sensoriale. Il vigore degli archi gravi, che spesso innervano di tensione drammatica l’atmosfera, il Valse che fa presagire più la scena del Sabba che la successiva parentesi bucolica, la devastante espressività delle percussioni, la soave bellezza dei legni, la controllata “volgarità” di alcuni momenti degli ottoni sono tutti singoli elementi che concorrono a un viaggio in cui la temperatura emotiva è sempre altissima. Anche in questo caso è stato fondamentale l’approccio di Dutoit, che ha dato spessore e tridimensionalità alla valanga di suono orchestrale senza che si perdano per strada i particolari come gli interventi delle arpe o la studiata ironia dei legni. Serata trionfale, che il pubblico ha sottolineato con entusiasmo e rumorose approvazioni per tutti. Foto di Darja Štravs Tisu Photography.
Charles Dutoit, dopo il primo concerto di qualche giorno fa, ha intrapreso la seconda tappa del suo percorso alla testa dell’Orchestra Filarmonica slovena. Il programma, raffinato e interessante, prevedeva come prima pagina musicale una sua personale selezione dalla Suite Romeo e Giulietta di Sergej Prokofiev, che attingeva a due delle tre versioni scritte dall’Autore. Notoriamente il brano non segue le vicende degli sfortunati amanti: lo scopo è di rendere invece la drammaticità della trama accostando temi molto diversi per valenza emotiva in un intrecciarsi continuo di contrasti espressivi anche violenti. L’operazione, considerata la felicissima serata della compagine slovena, è riuscita pienamente. Dutoit opta per dinamiche vivacissime e agogiche altrettanto tese che però non hanno intaccato la serena bellezza dei passi più lirici e malinconici. Eccellente il lavoro dei legni – i flauti in particolare – e degli ottoni; morbidissimi gli archi, arrembanti le percussioni. I quaranta minuti di musica sono volati e alla fine il pubblico – meno numeroso del solito, ma era la seconda recita del concerto – ha tributato a tutti un grandissimo successo. Tutt’altra atmosfera, più morbida e rilassata, per il celeberrimo Prélude a l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, eseguito dopo la pausa. Trasparenza e leggerezza sono state le caratteristiche dell’esecuzione che Dutoit ha cesellato con gesto morbido ma deciso, ben recepito dall’orchestra nella quale, ovviamente, ha brillato di luce fulgente il primo flauto che ha creato un’atmosfera sensuale, sognante e sospesa ma del tutto priva di eccessivi manierismi. Ottimo anche il rendimento delle arpe e delle altre sezioni che hanno dato equilibrio al delicato acquerello ispirato dalle rime di Mallarmé. È toccato poi a Modest Musorgskij, compositore geniale e sfortunatissimo, chiudere il concerto con quella che probabilmente è la sua composizione più famosa: Quadri di un’esposizione nella versione per orchestra firmata da Ravel. È una musica visionaria, piena di un’ironia graffiante e di ripiegamenti cupi, tenebrosi se non addirittura macabri, che quasi costringono a un ascolto teso e concentrato. L’andamento, solo parzialmente stemperato dalla ricorrente Promenade, è davvero schizofrenico. Ma è questa la forza del brano, che sorprende praticamente a ogni nota. Anche in questo caso Dutoit ha scelto una lettura drammatica ma flessibile, capace di valorizzare i momenti più lirici senza che la tensione cali o si afflosci. Ancora una volta è stata fondamentale la straordinaria prestazione dell’orchestra che ha potuto contare sulle eccellenti performance degli ottoni (la tromba!), sul suono corposo e morbido al contempo degli archi gravi e, naturalmente, sulla precisione delle devastanti percussioni che qui Musorgskij schiera con doviziosa abbondanza. Pubblico in visibilio, che ha ripetutamente chiamato al proscenio Charles Dutoit e omaggiato con scroscianti acclamazioni la compagine di casa. Il trittico di concerti si concluderà la settimana prossima con Beethoven e Berlioz.
Vado molto meno di quanto vorrei alla Società dei Concerti di Trieste, ed è un peccato perché le serate sono sempre di gran livello.
Credo di averlo scritto già altre volte, nella musica (da camera, nella fattispecie) il Quintetto è una scuola di vita: tutti gli interpreti concorrono alla bontà del risultato finale, senza prevaricazioni, ma al contempo il loro contributo è scoperto, evidente, al contrario di quanto avviene nella musica sinfonica dove i singoli scompaiono nell’opima abbondanza di flusso sonoro. Questa banale considerazione ha avuto conferma nel concerto di ieri sera dove è stato appunto il Quintetto, declinato dalle diverse sensibilità di Amédée-Ernest Chausson e Johannes Brahms, a essere protagonista con l’ensemble di Kolja Blacher che comprende tre componenti dei Berliner Philharmoniker (Christoph Strueli, Christoph von der Nanhmer e Kyoungmin Park) e altri due solisti di assoluto valore (Claudio Bohorquez e Özgür Aydan). In un Teatro Verdi piuttosto affollato, considerato che era una serata organizzata dalla Società dei Concerti, si è cominciato con il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21 di Chausson, strutturato in quattro movimenti ed eseguito per la prima volta nel 1892. Sono rimasto molto colpito dalla fresca e felice inventiva del compositore francese, che mi è sembrato in alcune occasioni (certi arpeggi del pianoforte, in particolare) anticipare suggestioni dell’Impressionismo di Debussy e l’Espressionismo di Ravel, oltre che rifarsi ai cromatismi wagneriani mantenendo un certo esprit tipicamente francese che si è manifestato specialmente nel quarto movimento (Très animé). L’andamento emotivo della pagina musicale è fluido, ma alterna con efficacia sprazzi vivaci ad altri più malinconici – il Grave del terzo movimento – mantenendo una narrazione tesa e vibrante. Eccellente, ça va sans dire, il rendimento dei solisti che hanno dialogato ritagliandosi momenti virtuosistici di grande impatto, come nei rimandi tra violino e pianoforte. Dopo l’intervallo è stata la volta del Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34 di Brahms, che esordì dopo una genesi travagliatissima nel 1866. In questo caso si è percepita evidente un’atmosfera più saldamente legata all’Ottocento, sia nell’architettura complessiva della composizione sia nella drammaticità spinta di alcuni tratti che hanno ricordato apertamente la monumentalità quasi geometrica di Beethoven. Il pianoforte è usato in modo del tutto diverso, per esempio, con severa drammaticità e anche con una presenza più corposa di decibel. Interessante, a questo proposito, il saggio di Enzo Beacco contenuto nel libretto di sala, che si sofferma sulle problematiche della corda percossa da un martelletto e quella accarezzata sulla cordiera. Nella pagina Brahmsiana, di struttura poderosa che tradisce in qualche modo l’originale provenienza sinfonica, convivono echi di danza popolare e oasi riflessive anche drammatiche, ma sempre nell’ambito di un’esposizione che tiene alta la tensione ritmica. I due movimenti estremi acclarano in modo palese, con la loro simmetricità, la provenienza beethoveniana dell’ispirazione ma al contempo la rendono emotivamente mossa e sorprendente. Anche in questo caso l’esecuzione è stata eccellente e ha messo in mostra la qualità dell’insieme degli interpreti. Successo pieno per l’ottavo appuntamento della stagione della Società dei Concerti triestina, con ripetute chiamate al proscenio dei protagonisti che hanno generosamente donato un bis al partecipe pubblico in cui ho notato, con grande soddisfazione, una notevole presenza di giovani.
médée-Ernest Chausson
Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21
Johannes Brahms
Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34
A Lubiana è cominciato, ieri sera, un marzo particolarmente interessante dal punto di vista musicale. Il protagonista è stato e sarà Charles Dutoit il quale, alla verde età di 87 anni, dirigerà cinque concerti sul podio dell’Orchestra Filarmonica Slovena con cui ha un rapporto continuativo. Il primo appuntamento prevedeva l’esecuzione della fantasmagorica Grande messe des morts di quel compositore eccentrico, visionario e geniale che risponde al nome di Hector Berlioz. Questo lavoro mastodontico, composto nel 1837, cambiò, diciamo così, destinazione d’uso; nelle intenzioni doveva essere dedicato alla memoria di un soldato, il Maresciallo Mortier, ma poi per ragioni politiche l’opera fu indirizzata a onorare la memoria di un altro militare, il Generale Damrémont: insomma, così narrano le cronache del tempo. Resta il fatto che si tratta di una composizione folle – giustamente definita qualche volta come un vero e proprio Requiem di cui segue il testo liturgico – che fa riconsiderare a chi l’ascolta per la prima volta il concetto di fortissimo, tanta è la potenza di decibel esplosa da una compagine che fa scomparire anche le orchestre tardo romantiche richieste per un Mahler o uno Strauss. In alcuni momenti la musica ha poco di quel raccoglimento tipico della musica sacra e anzi sembra quasi a puntare a effetti spettacolari, come se Berlioz volesse autoincensare il proprio ego eccentrico. In altre occasioni, invece, pare davvero di essere immersi nell’Empireo e anche la scartatrice di caramelle vicina di posto assume le sembianze di un angelo. Ho contato circa 140 artisti del coro, o meglio dei quattro cori che hanno cantato che trovate in locandina: il loro rendimento, soprattutto per quanto riguarda la parte femminile, è stato superlativo. Eccellente anche la prova della Filarmonica Slovena, ma purtroppo – non so se sia dipeso dalla mia collocazione in parterre, l’acustica del Cankarjev Dom è peculiare – spesso è stata coperta dal coro nonostante Dutoit sollecitasse archi e legni in modo veemente. Ma si tratta di fisime da critico, perché comunque resteranno nella mia memoria di ascoltatore appassionato il tenebroso attacco degli archi gravi nel Dies irae, la dirompente potenza delle percussioni nel Tuba mirum, il meraviglioso supporto dei flauti nell’Offertorium, il tremolo degli archi nel Sanctus – forse il momento più riuscito della serata, in cui ho apprezzato molto la bellissima voce del tenore David Jagodic, posto in alto in galleria quasi fosse un angelo dal cielo – e, soprattutto, il soave incanto del coro femminile che canta a cappella il Quaerens me. In galleria erano inoltre disposte due sezioni di ottoni che, nonostante le ovvie difficoltà logistiche dovute alla lontananza dal podio, sono intervenute con efficacia. Pubblico numeroso, attento e partecipe, che alla fine ha tributato un trionfo colossale alla serata con un quarto d’ora di applausi e ripetute chiamate al proscenio per tutti.
Acausa della mostra fotografica, ancora in essere perché prorogata a “furor di popolo” di una settimana, questa presentazione arriva solo il giorno prima della recita: me ne scuso con i miei happy few, ma le mie energie sono limitate (smile).
Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo. Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini. La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la distribuzione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora. Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini. Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede. Ma quali sono le caratteristiche dell’opera, che debutterà venerdì prossimo 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste? Innanzitutto la prevalenza delle parti femminili, perché persino la parte di Romeo è affidata a un mezzosoprano en travesti. Il tenore (Tebaldo) ha una parte difficile ma non particolarmente lunga, il basso (Capellio) è poco più che un comprimario. La situazione fa presagire che questa è opera da primadonna, Giulietta, appunto. Assolutamente imprescindibile la presenza di un buon direttore (ma quando non lo è?) perché gli equilibri dinamici (più che agogici, a mio parere) sono fragilissimi. Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo. Capuleti (per brevità) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione. Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti. Conosco già l’allestimento che sarà proposto al Verdi perché l’ho visto alla Fenice di Venezia nel 2015: in quell’occasione non mi soddisfò per nulla ma ho la mente aperta, per cui magari rivisto in altro contesto e con interpreti diversi può essere che la situazione cambi radicalmente. Lo sapremo, come sempre, dopo la recensione.
Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che debutterà venerdì 27 gennaio al Teatro Verdi di Trieste si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che io amo particolarmente. In questo longform (che è il modo figo di dire lenzuolata) troverete molte citazioni da testi antichi; noterete errori di ortografia, che ho voluto lasciare perché così compaiono negli originali. Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile). Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h05 circa, per chi volesse vedere questo momento incredibile.
L’immagine bellissima ma terrificante della “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti. In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare. Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:
Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand
Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:
Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar
Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”
In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry, anche se la mia preferita è quella matta di Elena Suliotis.
Quindi (ri)vedere il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia che, sia detto per inciso, fu turbata anche dal film “Il trono di sangue” di Kurosawa, che del Macbeth è un adattamento cinematografico. Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.
Macbeth (Felice Varesi)
Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)
Banco (Nicola Benedetti)
Macduff (Angelo Brunacci)
Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti.
Macbeth
Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”. Inoltre: Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere. Se il Cigno di Busseto avesse ancora degli artisti della sua intelligenza, non direbbe con tanta fermezza di non voler più scrivere. A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth. Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.
Lady Macbeth
Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti. La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina. Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:
S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.
Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti. Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:
Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.
Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile). Ora, mi chiedo, ovviamente scherzando, Silvia Dalla Benetta – la Lady di questa produzione triestina – avrà una voce brutta a sufficienza per cantare questa parte (strasmile)?
Ieri sera, presso la Sala del trono del Castello di Miramare a Trieste e nell’ambito della programmazione della Società dei Concerti, si è svolta una serata dedicata ai Lieder. Protagonista è stata la Winterreise (Viaggio d’inverno) di Franz Schubert su versi di Wilhelm Müller nell’interpretazione del tenore Blagoj Nacoski accompagnato al pianoforte da Luca Ciammarughi. Il ciclo di Lieder era già stato proposto dalla Società dei concerti qualche anno fa, ma nella versione per baritono, protagonista Matthias Goerne. Ma cos’è un Lied? Letteralmente Lied significa canzone ma la traduzione non è certo sufficiente a darne una definizione compiuta. Il Lied nasce in Germania tra il dodicesimo e il quattordicesimo secolo per opera dei Minnesänger, i trovatori tedeschi, menestrelli o cantastorie che con nomi simili (trovador, trobador, trouvèr) storicamente ritroviamo in buona parte dell’Europa. Avete presente Il trovatore di Giuseppe Verdi? Ecco, proprio quello, che canta l’amor cortese sotto le finestre di Leonora, accompagnandosi col liuto. Si tratta perciò di musica popolare nel senso più ampio del termine, che col tempo ha assunto caratteristiche più nobili e raffinate grazie a compositori e poeti di livello altissimo. La seguente è una definizione di Lied, tratta da Musikalisches Lexicon di Heinrich Christoph Koch, un testo dei primi anni dell’Ottocento. Se ne deduce in tutta evidenza l’estrazione culturale “umile” di questa composizione musicale.
Un componimento poetico lirico articolato in più strofe, fatto per essere cantato, e unito a una melodia che viene ripetuta per ciascuna strofa; e che è inoltre di natura tale da poter essere cantato da chiunque disponga di una voce normale e ragionevolmente flessibile, sia che abbia ricevuto una qualche istruzione in quest’arte oppure no.
Schubert si dedicò al Lied con risultati straordinari per qualità e…quantità: ne compose infatti circa seicento. Di solito i Lieder sono scritti per pianoforte e voce e possono avere una vita propria, indipendente, come istantanee di una scena singola, oppure essere parte di un ciclo trattando un argomento. Inoltre esistono numerosi esempi di cicli di Lieder che godono di un’orchestrazione più ampia, si pensi solo ai Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder) di Richard Strauss. Nei Lieder il legame tra parola scritta e note è strettissimo: il canto spesso declamato, irrequieto, deve cogliere le sfumature e le atmosfere cangianti del testo poetico, che soprattutto nel romanticismo oscillano tra abissali introversioni e improvvise esaltazioni di stampo quasi bipolare. Il pianoforte è protagonista quanto la voce, non si limita all’accompagnamento ma anzi detta il carattere del brano in virtuosa collaborazione col solista. Sono moltissimi i compositori che si sono dedicati all’arte del Lied; solo per fare alcuni nomi cito Mozart, Brahms, Schumann, Beethoven, Berlioz, Wolf, Webern, Strauss. Allo stesso modo i più grandi cantanti di sempre si sono cimentati nell’interpretazione di questo genere musicale: dall’imprescindibile Dietrich Fischer-Dieskau a Fritz Wunderlich, da Elisabeth Schwarzkopf a Hans Hotter. La Winterreise è uno dei grandi capolavori del Romanticismo tout court e forse vale la pena ripercorrerne brevemente la genesi. Wilhelm Müller, poeta sassone oggi considerato minore – a torto o ragione – nell’universo del romanticismo tedesco, pubblicò tra il 1823 e il 1825 una raccolta di poesie intitolata Wanderlieder – Die Winterreise (Canzoni di un viandante – Il viaggio d’inverno). Risale ad alcuni anni prima, invece, la stampa di un altro celeberrimo lavoro, Die schӧne Müllerin (La bella mugnaia), che con la Winterreise ha un rapporto strettissimo. Il ciclo di Lieder fu composto da Franz Schubert in due momenti diversi, tra febbraio e ottobre del 1827 e pubblicato l’anno successivo. Il motivo di questa composizione differita va ricercato nella biografia del poeta e saggista Müller, il quale si scontrò con il governo a causa di uno scritto su George Byron che provocò la censura della rivista per la quale scriveva, di fatto impedendo al compositore di conoscere subito la seconda dozzina di poesie. Al centro della narrazione c’è la figura del Wanderer (Viaggiatore), che metaforicamente percorre l’inverno dell’anima prima ancora di quello della natura, in un turbinio polisemico di sentimenti anche contraddittori. Una natura che in qualche modo assume sfumature policrome e trasfigurazioni gotiche nei suoi elementi: gli animali, il vento, l’acqua possono essere oggetto di malcelate speranze o di abissi di sconforto. Il ciclo si spegne, ricco di domande sospese e risposte inespresse, nell’incontro con Der Leiermann (Il suonatore d’organetto), una figura enigmatica e ambigua, criptica. Per quanto sia una pagina musicale per voce e pianoforte, l’impatto è fortemente melodrammatico, tanto che – a mio parere inopportunamente – qualche volta la Winterreise è rappresentata in forma scenica. Una tentazione cui, per fortuna, si è sottratto Blagoj Nacoski, perché è proprio lui che “costruisce” la scena, in primis con un rapporto quasi carnale con lo spartito che tocca e sfiora e al quale talvolta si aggrappa traendone concentrazione e forza. Nacoski, più volte presente al Verdi di Trieste in quelle piccole parti da coprotagonista che rendono grandi le serate, ha carisma e sprigiona un’empatica energia vitale che in alcuni momenti è anche selvaggia, primitiva, ma in ogni caso strettamente legata a un’espressività a tutto tondo. La voce è tipicamente tenorile, ben timbrata, la tecnica di respirazione gli consente un legato di gran classe e allo stesso tempo un fraseggio vario e incisivo, condicio sine qua non per il genere musicale in questione. Anche dal punto di vista psicologico la Winterreise è complessa da restituire e Nacoski sceglie una lettura ad ampio spettro comunicativo: tempi rilassati si alternano a furori apprensivi che danno risalto alle pause tra un Lied e l’altro e contribuiscono a tenere desta la tensione emotiva del pubblico e dell’artista. Molto bravo anche Luca Ciammarughi, ineccepibile dal punto di vista tecnico, che ha assecondato con perizia la movimentata e personalissima interpretazione di Nacoski. Alla fine successo strepitoso per entrambi, con numerose chiamate al proscenio da parte di un pubblico attento e partecipe. Da serate così si esce esausti, ma felici di aver condiviso un’esperienza intensa come poche.
Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e non serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni – comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini.
Di un’opera così popolare e nota è ancora più difficile scrivere qualcosa non voglio dire di originale, ma almeno che non sia scontato.
Ci provo. Qual è il principale problema, oggi e sempre, nell’allestire una Bohème?
Il primo credo sia non cadere nella trappola del puccinismo, che è una malattia grave e greve che rischia di rovinare il piacere dell’ascolto di quest’opera straordinaria. Ne possono essere afflitti tutti: direttore d’orchestra, regista e compagnia artistica. Il puccinismo si manifesta in modo subdolo, con alcuni sintomi che all’inizio possono passare inosservati ma che poi si rivelano per ciò che sono: i prodromi di una devastazione artistica in piena regola. Soprani che assumono dall’entrata pose che avrebbero fatto apparire Eleonora Duse come un’attrice sobria e morigerata negli accenti, direttori che mugolano dal podio, imponendo calamitosi rallentando all’orchestra e/o gonfiandone il suono con l’anabolizzante di archi strappalacrime, paurose tempeste di decibel alla chiusura del secondo quadro, registi che mettono in scena un migliaio di persone, compresi amanti e parenti. Sono solo esempi, potrei continuare a lungo. In realtà la vicenda narrata è semplice e non richiederebbe tanta enfasi: quattro studenti in soffitta, per non parlare della fioraia. Il secondo problema, che si manifesta con sintomi abbastanza simili al primo, è di sprofondare nel verismo più deteriore–a conferma che dagli “ismi” vari è sempre meglio diffidare – perché Bohème è un’opera estranea all’estetica verista. Una delle grandi novità di questo lavoro pucciniano è infatti il canto di conversazione che per sua natura deve risultare sommesso, lieve, anni luce distante dalle grida e dai drammi di un’opera verista. Una novità così spiazzante che fece dire a uno studioso e critico come Eduard Hanslick “sembra che parlino invece di cantare”. Appunto, a conferma che i critici assai spesso prendono lucciole per lanterne. Al pari del pubblico, peraltro, che alla prima del 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino restò un po’ titubante, per poi ravvedersi già alle prime repliche. L’opera poi esplose artisticamente in tutto il mondo dall’Europa agli USA. Allora, per evitare la consueta routine sulla genesi dell’opera e relativa vivisezione della partitura ho pensato di scrivere:
Dieci cose semiserie da sapere sulla Bohème di Puccini.
1) La vicenda è narrata in un romanzo di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème), dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto, riuscitissimo perché calibra magnificamente momenti di spensieratezza a quelli più drammatici.
2) Esiste anche una Bohème composta da Ruggero Leoncavallo, tratta dalla stessa fonte (Murger). Debuttò alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Tra le due Bohème, Gustav Mahler non solo preferiva quella di Leoncavallo, ma disprezzava apertamente l’altra.
3) Puccini e Leoncavallo bisticciarono per la Bohème. Rivelando il suo spirito toscano Puccini chiamava il collega e rivale Leonbestia! Addirittura, quando il grande Giacomo seppe che il pubblico veneziano non gradì troppo la Bohème del rivale, scrisse una non memorabile poesiola: Il Leone fu trombato, il Cavallo fu suonato di Bohème ce n’è una tutto il resto è una laguna
4) Giulio Ricordi, editore di Puccini, per ragioni cabalistiche volle che Bohème debuttasse a Torino, nello stesso giorno nel quale, tre anni prima, vide la luce Manon Lescaut, primo successo clamoroso di Puccini.
5) Il compositore francese Claude Debussy disse, testualmente: “Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini nella Bohème”
6) La prima fu diretta da Arturo Toscanini, che all’epoca aveva 29 anni.
7) Ci sono pochissime incisioni discografiche che sono considerate “di riferimento” dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Una di queste è la Bohème incisa nel 1972 per la Decca, protagonisti tra gli altri Mirella Freni e Luciano Pavarotti, assolutamente straordinari. Addirittura mirabolante la direzione di Herbert von Karajan.
8) Sempre a proposito di dischi, nella perfida (per me) incisione diretta da Georg Solti, protagonisti Placido Domingo e Montserrat Caballé, c’è un momento esilarante. Quando i due cercano la chiave caduta sul pavimento della soffitta, le loro mani si sfiorano e Mimì deve emettere una specie di sospiro di sorpresa. La Caballé, alla quale piaceva strafare, sostanzialmente finge un orgasmo, producendosi in un imbarazzante ahhhhhhh che potrebbe benissimo appartenere a qualche pornazzo. Provare per credere (l’incisione, non i pornazzi).
9) Il mio verso preferito della Bohème, che rispecchia perfettamente la mia ottimistica filosofia di vita è: Già dell’apocalisse appariscono i segni, che ripeto come un mantra da quasi 67 anni.
10) La Bohème favorisce gigionate di gusto rivedibile. Tra le più nefande e note, questa qui sotto, in cui vediamo Domingo&Pavarotti in versione “le star fanno comunque audience e quindi chissenefrega”.
Vi lascio alla visione di questa baracconata di regime, in puro stile trash amerikano e a rileggerci presto. Qui Pavarotti e Domingo vanno fuori tempo, gigioneggiano come nessuno, inventano di tutto. Forse fanno spettacolo, boh. It’s all folks
Hanno detto: