Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Post interlocutorio.


Bene, siccome io sino a lunedì, credo, non scriverò la mia consueta recensione semiseria, volevo lasciarvi un paio di letture che ho trovato molto stimolanti.

La prima la trovate qui su OperaClick a firma Lorenzo De Vecchi, e ve la segnalo proprio perché in qualche modo è in contrapposizione col mio parere sul recente allestimento del Roméo et Juliette di Gounod, per la regia di Damiano Michieletto.
È indirettamente anche una risposta a coloro che accusano OperaClick di avere una linea editoriale ferrea, dalla quale non si può prescindere.
I fatti, che per fortuna contano più delle opinioni, dimostrano il contrario.
Poi, in un contesto diverso ma intellettualmente adiacente alla discussione di cui sopra, segnalo questo periodo dell'amico Roberto espunto da un contesto più ampio, che potete trovare qui nella sua completezza.

Chi vi parla ritiene che l’allontanamento totale del pubblico dalla musica colta contemporanea sia una delle ferite sanguinanti della nostra epoca. Infatti, come si legge nella scritta luminosa che da poco è stata collocata nella facciata degli Uffizi prospicente l’Arno, Every art has been contemporary. L’arte contemporanea è il prodotto più autentico di un’epoca, ciò che ci testimonia e che resterà di noi: perché questo scellerato oblio? Alla radice di tutto ciò, per la musica, c’è stato probabilmente – più che il più complesso linguaggio – il rovesciarsi dei rapporti di forza tra procedimento e risultato compositivo, che ha ingenerato il fatto che ci si sia preoccupati di costruire soprattutto qualcosa di funzionale a una regola (dalla dodecafonia alla famosa “superformula” di Stockhausen, alla ripetizione dei minimalisti, alla musica aleatoria) e spesso, da entrambi i lati, di “spiegare” e “comprendere” questa regola prima e più di eseguire o lasciarsi andare. Eppure vi garantisco che questa musica può ammaliare come il più tonale dei temi, ho condotto ad esempio l’esperimento di fare assistere a una persona cara ignara di musicologia la Lulu di Berg, senza premetterle alcuna spiegazione, e l’ha trovata entusiasmante. Come credo si possano trovare facilmente entusiasmanti, col diretto ascolto e senza alcuna mediazione, figli illustri del novecento post-tonale come il concerto per pianforte di Schoenberg, le sinfonie di Penderecki, concerti per violino di Bartók o di Rorem o dello stesso Berg… occorrerebbe un maggiore abbandono (alla musica, non delle poltrone del teatro)! Forse, per poesia e musica, siamo dinanzi a un eccesso di cautela.

Che ci volete fare, avere amici intelligenti è una sfiga da un certo punto di vista (specialmente quando sono interisti, strasmile!), però mi aiuta a restare con i piedi bene ancorati a terra.
Buon fine settimana a tutti.

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Recensione semiseria del cast alternativo di Roméo et Juliette al Teatro Verdi di Trieste. E poi una notizia agghiacciante.

Dopo aver visto e sentito il secondo cast del Roméo et Juliette al Teatro Verdi di Trieste, s’impongono un paio di riflessioni.
Intanto va dato atto al pubblico triestino di essersi dimostrato assai più maturo di quello che pensavo io, perché non ci sono stati pregiudizi nei confronti della regia di Damiano Michieletto.
Le contestazioni, comunque non certo rilevanti, sono state almeno meditate e sono avvenute dopo aver visto lo spettacolo: sembra banale, ma in un mondo nel quale spesso si ragiona per partito preso, la circostanza merita di essere sottolineata.
Quindi il qui presente (si fa per dire, perché con il cambio di stagione sono più rincoglionito del solito) Amfortas fa pubblica ammenda per aver sottovalutato l’intelligenza degli spettatori miei concittadini e di averli tacciati, più o meno velatamente, di provincialismo.
È che io quando giro per teatri, con l’eccezione di un paio di persone, non vedo mai alcun triestino, capite? E credo fermamente che per giudicare si debba avere una statistica ampia di spettacoli in carniere.
Inoltre il pubblico, non numerosissimo alla prima, è andato aumentando nel corso delle repliche tanto che alla recita della quale vi parlerò in estrema sintesi tra poco, il teatro era sostanzialmente esaurito.
Ora, è chiaro che questo non significa che lo spettacolo sia bello o brutto in assoluto, ma solo che è stato visto e valutato con cognizione di causa.
I cambiamenti rispetto alla prima che ho recensito nel post precedente, riguardavano i ruoli principali (Roméo, Juliette, Frère Laurent), quindi vediamo com’è andata.
Jean-François Borras era Roméo e a dispetto di una voce piccolina è risultato assai convincente.
Il timbro è un po’ nasaleggiante e si nota un vibratino stretto quando sale agli acuti, peraltro piuttosto sicuri, però nel canto spiegato se la cava bene e la mancanza di peso vocale si è sentita solamente nei momenti più drammatici della partitura.
Il tenore ha però ottimo gusto interpretativo e il fatto che sia di madre lingua francese gli dà un atout (toh, ci metto anch’io un vocabolo made in Francia, smile) notevole nel cesellare con proprietà la parola scenica.
L’artista è stato bravo anche dal lato attoriale, rischiando anche le ginocchia in uno slancio verso l’amata Juliette. Traduco: a un certo punto è saltato giù dal piatto del giradischi e si è prodotto in una lunga scivolata in ginocchio per manifestare affetto al soprano. Chissà, magari si è ispirato al curling (strasmile).
Manuela Bisceglie era Juliette.
Anche il soprano non ha proprio un vocione, anzi, però non ha mai gonfiato artificiosamente il suono e a parte un paio di acuti stridenti nell’aria del quarto atto (ed è quasi inevitabile, perché quell’aria è veramente difficile per i soprano leggeri) ha cantato bene.
Brava e disinvolta in scena, cosicché la sua Juliette esce credibile, giovane e molto seducente.
Tra l’altro tenore e soprano erano molto ben affiatati sul palco e l’empatia ha giovato ad entrambi.
Poi c’è il mistero di Alessandro Svab, Frère Laurent, stranamente relegato nel secondo cast. Non vorrei che questo suoni come una condanna alla prestazione di Giovanni Battista Parodi, che è stato all’altezza alla prima e l’ho scritto, ma semplicemente il basso triestino è più adatto alla parte.
Molto bella la prova di Svab, che spero di rivedere presto al Verdi.
Massimo Marsi, in questa recita, era Benvolio. Discreta routine, diciamo.
In tutti gli altri ruoli la compagnia di canto era invariata rispetto alla prima e anche gli esiti sono stati sovrapponibili, con l’unica eccezione del tenore Hans Ever Mogollón, veramente in pessima serata perché al limite dell’afonia.
Molto bene l’Orchestra e il Coro del Verdi di Trieste, e ancora positiva la direzione di Julian Kovatchev, che sono contento di aver rivalutato dopo i disastri della Norma dell’anno scorso.
 
Poi, dopo le polemiche inenarrabili tra melomani sulle potenzialità della televisione come mezzo di diffusione di Cultura, ho letto questa notizia.
 
SPOLETO Un reality in forma di opera lirica, o viceversa, con personaggi che vanno da Simona Ventura a Emanuele Filiberto e si muovono su un palcoscenico che altro non è che l’«Isola dei famosi». C’è anche questo libretto tra gli elaborati giunti al Teatro lirico sperimentale di Spoleto per partecipare al concorso ”Realityopera”. Il bando è rivolto a giovani scrittori, cui viene chiesto di presentare testi letterari ispirati a temi di attualità quali proprio ”L’isola dei famosi”, ma anche il libro di Roberto Saviano ”Gomorra” ed episodi di cronaca come la strage alla Thyssenkrupp di Torino. I testi scelti dalla giuria saranno poi affidati a compositori affermati che li musicheranno in forma di melologo. Il tutto andrà in scena a Spoleto nel corso della stagione lirica organizzata per presentare i giovani cantanti vincitori dei corsi che la storica istituzione organizza per formare le voci nuove del teatro d’opera.
Il singolare libretto, anticipato ieri dal Lirico, vede la Ventura come un soprano afono che usa il linguaggio dei segni, mentre l’isola è un teatro d’opera dismesso. Ancora: Sandra Milo è un mezzosoprano che per oscuri motivi politici sequestra gli altri naufraghi, mentre la Lecciso tenta il suicidio ingoiando il kit di sopravvivenza. I naufraghi-ostaggi sono trasformati in scudi umani, ma possono essere salvati con un riscatto chiesto alla Rai ed uno scambio di prigionieri. Il principe Filiberto si offre per la trattativa, giunge sull’isola ma viene cannibalizzato dagli ostaggi.
 
Si deducono due cose fondamentali, dalle frasi in neretto e sottolineate.
 
  1. Per il ruolo della Ventura ci sarà solo l’imbarazzo della scelta.
  2. Sarà una delle poche opere liriche che finiscono bene.
 
Buon fine settimana a tutti (strasmile).
 
 
 
 

Recensione semiseria di Roméo et Juliette al Teatro Verdi di Trieste.

Devo confessare che temevo fortemente che Antonino Siragusa accettasse d’indossare la parrucca alla Jimi Hendrix che portava l’anno scorso Eric Butler a Venezia. Invece no, si è presentato con la sua pelata naturale ed è già una cosa (strasmile).
Tra l’altro, assomiglia a mio fratello in modo notevole, non l’avevo mai notato (e chissenefrega, direte voi, e fate pure bene).
Confesso inoltre che dopo l’ouverture tellurica di Julian Kovatchev ho pensato: “Mano de pedra is back!”.
E, per finire, confesso ancora che dopo lo sfavillio di luci psichedeliche alla fine dell’introduzione del Coro, ho temuto per la vita di qualche anziano abbonato.

 
Mi pento e mi dolgo.

Primo violino Roméo et Juliette.

Non abbiamo perso (almeno in sala…) alcun abbonato e Julian Kovatchev, dopo essersi sfogato all’inizio, ha tenuto duro sino alla fine e anzi senza inventarsi nulla di nuovo, ha concertato con un certo gusto.
La partitura è difficile, si rischia la carie in alcuni momenti e il suicidio in altri. Eppure Kovatchev ha accompagnato bene i cantanti nei duetti ed è stato bravo a rendere il vigore orchestrale necessario nel terzo atto, quello della rissa che scatena l’omicidio di Mercutio prima e di Tybalt subito dopo.
Insomma una direzione tutto sommato discreta, quella di Kovathcev, alla guida di un’Orchestra del Verdi in gran serata. Bravi.
Ottimo anche il comportamento del Coro, preparato per l’occasione da Alessandro Zuppardo. Sono particolarmente contento del rendimento della compagine triestina, che nelle ultime occasioni avevo sentito sotto gli standard d’eccellenza a cui mi avevano abituato negli ultimi anni.
La regia di Damiano Michieletto, che dire? Intanto che la conoscevo già, perché la vidi l’anno scorso a Venezia.
Foto2A me è piaciuta, sarò pure matto, ma è piaciuta. Trovo che la chiave di lettura sia credibile (i Capuleti e i Montecchi visti come due gang giovanili rivali) e che le idee siano ben realizzate. Le citazioni, dalla cultura pop a oggi, sono molte e tutte piuttosto riconoscibili: Andy Warhol, Marilyn Manson, Baz Luhrmann, e io ci vedo pure, nel long playing che gira sul piatto, un ricordo del Brian De Palma di The Phantom of the Paradise.
Concorrono in maniera decisiva alla riuscita dell’allestimento i costumi fantasmagorici di Carla Teti, le scenografie di Paolo Fantin (il megagiradischi è bellissimo, davvero) e le straordinarie luci di Fabio Barettin, che danno profondità alla scena e sottolineano bene sia gli stati d’animo mutevoli dei protagonisti sia la cieca rabbia delle famiglie rivali. Così così le coreografie di Roberto Pizzuto.
E poi i graffiti writers e le pettinature stravaganti, tutti simboli di una gioventù che desidera appartenere a un clan, a un gruppo, magari senza accorgersi che non c’è conformismo peggiore dell’anticonformismo coatto (cavolo, questa non è male, bisogna che me la scriva da qualche parte).
Michieletto ha fatto bene a rinunciare ad alcune forzature, come ad esempio lo stupro di Gertrude e toccamenti di pelotas vari, lo spettacolo ne ha guadagnato.
Ma torniamo alle cose semiserie.
Foto3
Antonino Siragusa era al debutto quale Roméo e ha cantato quasi al massimo delle sue possibilità. Ci ha anche regalato un brivido, visto che si è presentato in scena con una decina di secondi di ritardo, lasciando col fiato sospeso l’orchestra, i cantanti sul palco e quei pochi che conoscevano l’opera (mai rappresentata a Trieste, con un’unica eccezione nel 1912, mi pare). Quindi le prime battute sono state concitate, chissà, magari gli è preso un fulmineo attacco di squaraus (strasmile).
Poi ha cantato bene, addirittura smorzando il si bemolle dell’aria Ah lève toi soleil, e cercando anche in modo evidente mezzevoci e sfumature che caratterizzino i tormenti del giovane innamorato.
Però…però…una volta dato atto al tenore della sua bravura (peraltro nota a tutti e anche a me, che l’ho apprezzato anche recentemente nel Tancredi a Torino) e anche della sua disinvoltura sul palcoscenico è necessario specificare che il suo timbro chiarissimo non è adatto alla parte di Roméo, perché la voce non è quasi mai seducente. Manca di calore, di sentimento, e se nella grande aria del secondo atto (applaudita a scena aperta) la perizia tecnica mi ha fatto scordare questa circostanza, nei duetti la mancanza di abbandono si è sentita, eccome. Meglio invece nel terzo atto, ad esempio, quando l’accento si è fatto più incisivo (e senza sbracamenti) nella lite con Tybalt.
Insomma, tecnicamente non ha sbagliato nulla, ma alla fine il personaggio non esce nella sua giusta dimensione.
Foto1
Silvia Dalla Benetta, pure lei al debutto, ha cominciato con due acuti schiacciati e forzatissimi, che non promettevano nulla di buono. Per fortuna poi si è ripresa e ha cantato un buon Je veux vivre, in cui ha brillato proprio nella coloratura. Anche nel prosieguo dell’opera ha dimostrato che Juliette è un personaggio che le si addice, soprattutto ora che la voce si è irrobustita nei centri e ha un maggior spessore in generale. Infatti l’aria Amour ranime mon courage (altra aria applauditissima a scena aperta), nella quale i soprano soubrette spesso naufragano miseramente, è stata ben risolta.
La Dalla Benetta è stata inoltre molto brava dal punto di vista della recitazione, sobria e controllata, ma allo stesso tempo partecipe ed emozionante. Dettaglio da non sottovalutare, perché con i costumi succinti da ragazzina che indossava anche qualche piccolo scivolone nel cattivo gusto avrebbe potuto far scattare l’effetto Via Tiburtina (smile).
Per la complessiva riuscita artistica dell’opera di Gounod è indispensabile che le parti minori siano ben delineate. Il risultato è stato certo raggiunto dal lato della recitazione, mentre dal punto di vista vocale c’è stata qualche mancanza.
Deludente la prova di Massimo Gagliardo quale Mercutio, segnatamente nell’importante aria della Regina Mab, affrontata con poca convinzione specie nel fraseggio, mentre migliore è stato il rendimento del baritono nella scena della lite nel terzo atto e, in generale, come disinvoltura sul palcoscenico.
Elena Belfiore, nella parte di Stéphano, non ha ripetuto la recente bella prova della Maria Stuarda, cantando in modo piuttosto dimesso l’aria Que fais-tu, blanche tourterelle. Buona invece l’interpretazione dal lato attoriale.
Nicolò Ceriani, affaticato nel finale, ha comunque ben figurato come Capulet, trovando accenti patetici interessanti e pertinenti.
Bene Giovanni Battista Parodi nell’importante ruolo di Frère Laurent, che il regista vede come un moderno prete di strada. La morbidezza della voce è stata un bel valore aggiunto a questo personaggio così austero e nobile.
Pallido ed evanescente il Tybalt di Hans Ever Mogollón, la voce del tenore è sembrata priva di smalto e lucentezza.
Brava Chiara Fracasso come Gertrude e convincente pure il vigoroso Grègorio di Giuliano Pelizon.
Sufficienti le caratterizzazioni di Dax Velenich (Benvolio), Manrico Signorini (il Duca) e Armando Badia ( Pâris).
Il pubblico ha regalato un trionfo a Antonino Siragusa e Silvia Dalla Benetta e un buon successo a tutta la compagnia di canto, direttore d’orchestra compreso.
All’uscita di Damiano Michieletto c’è stata un po’ di contestazione ma gli applausi sono stati di gran lunga superiori, tanto che tutti gli artisti sono stati chiamati più volte al proscenio.
Io sono contento perché, almeno in teatro, la gente era incuriosita ma non pregiudizialmente sfavorevole, e inoltre ho visto più giovani del solito anche in platea. Purtroppo, è giusto segnalarlo, il teatro presentava qualche vuoto.
Se ho voglia e tempo vado a sentire anche il secondo cast e riferirò anche qui.
Un saluto a tutti.

Questa sera la prima di Roméo et Juliette al Teatro Verdi di Trieste: il mio Roméo preferito.

Da un certo punto di vista non vorrei mai essere nei panni del tenore Antonino Siragusa (non vorrei sbagliarmi, ma credo sia proprio la prima volta), al debutto nel ruolo, perché la parte di Roméo si presta a confronti da brividi.
Sì, perché a mio parere il Roméo et Juliette è proprio una delle classiche opere da tenore, intendendo che se il protagonista non è all’altezza del compito sono guai forti.
Certo, con questo mica mi sogno d’affermare che Juliette possa essere scarsa eh? Per non parlare del direttore poi, che è alle prese con una partitura ricchissima, piena di suggestioni.
Tra le tante difficoltà il nostro Roméo ha anche un’aria tra le più frequentate anche in concerto e cioè la famosissima (e dal mio punto di vista meravigliosa) Ah lève-toi, soleil!, che apre il secondo atto.
È un momento magico e la bellezza della melodia cattura subito l’attenzione: è una di quelle arie che commuovono anche fuori dal contesto drammaturgico dell’opera, perciò è spesso inserita nei concerti dai tenori. La fruizione emotiva è immediata.
Il pezzo si apre con un brevissimo recitativo, quattro frasi, in cui Roméo quasi parlando a se stesso s’accorge che la stanza dove si trova Juliette s’illumina.
A quel punto non ce la fa più e canta la bellezza dell’amata.
Ora, immagino che a molti si siano cariati i denti (smile), per cui mi limito a implementare il video del mio Roméo di riferimento e cioè Jussi Björling.
Perché adoro il tenore svedese in quest’aria, che peraltro è stata interpretata dai migliori tenori di sempre? Cosa me lo fa preferire?
Il motivo è proprio lo stesso per cui spesso Björling è stato criticato e cioè un certo regale distacco, come se a cantare fosse proprio un essere impalpabile, etereo. Un’apparizione, quasi.
I miti come Roméo non hanno bisogno di una forma precisa, devono restare incorporei e sospesi nel tempo, anzi fuori dal tempo.
È per questo che sono immortali, i miti, come lo è qui lo straordinario tenore svedese.
Da qui invece potete scaricare la stessa aria cantata dal vivo da Franco Corelli, che è stato un Roméo diverso da Jussi per tanti motivi. Alla fine smorza, con una di quelle prodezze vocali che rimangono storiche, il si naturale che chiude il pezzo.
Lo so, manca almeno Alfredo Kraus, ma non ho tempo!
Ciao a tutti.
 

Roméo et Juliette di Charles Gounod al Teatro Verdi di Trieste: qualche considerazione a latere.

Allora, giovedì prossimo debutta al Teatro Verdi di Trieste il Roméo et Juliette di Charles Gounod, nell’allestimento firmato da Damiano Michieletto che ho visto l’anno scorso, proprio di questi tempi, alla Fenice di Venezia.

Finale

A Trieste sarà accolto male, io ve lo dico prima.
Forse non tanto in teatro, perché è rarissimo che il pubblico rumoreggi qui, ma già mi pare di leggere le lettere di protesta al nostro quotidiano. Vabbè, vedremo.
Mi è abbastanza difficile scrivere qualcosa su quest’opera, perché sono tante le riflessioni che si potrebbero fare, ma credo sia indispensabile intanto ricordare che è ricavata dal lavoro (piuttosto noto, smile) di Shakespeare.
Le differenze dall’originale sono molte, peraltro, ma la più significativa mi pare sia la centralità di cui il compositore investe la vicenda amorosa a scapito della rivalità tra le famiglie dei Capuleti e dei Montecchi.
I contrasti non spariscono ma fanno da sfondo, insomma, in modo ancora più distaccato che nell’opera di Bellini ad esempio, I Capuleti e i Montecchi.
La circostanza si nota bene proprio dall’evidenza drammaturgica dell’opera, che prevede ben quattro (!) duetti tra i due protagonisti: solo nel terzo dei cinque atti non c’è il duetto d’amore, e non credo sia un caso che proprio nel terzo atto Roméo uccide Tybalt e l’inimicizia tra i due clan familiari è più marcata dal compositore.
Poi c’è la questione dell’ultima scena.
Nell’originale Giulietta si sveglia dopo che Romeo è morto, mentre nell’opera i due amanti sfigati trovano il tempo di parlarsi un’ultima volta.
I librettisti Jules Barbier e Michel Carré non fanno altro che accogliere la prassi esecutiva di alcuni grandi attori di prosa di metà 700, che evidentemente non avevano nulla da invidiare, in fatto d’indisciplina, alle primedonne del melodramma (smile).
Inoltre lo stesso Gounod mise mano più volte alla partitura, aggiungendo o eliminando episodi in base al teatro in cui l’opera veniva rappresentata.
Mi spiego meglio.
Parigi aveva tre teatri: il Théâtre Lirique, l’Opéra Comique e l’Opéra. Ognuno di questi teatri aveva esigenze drammaturgiche disparate e pure diverso era il tipo di pubblico, che s’aspettava un determinato tipo di spettacolo.
La tradizione ad esempio voleva che all’Opéra Comique si rappresentassero opere con dialoghi parlati e come suggerisce l’aggettivo “comique” di carattere leggero o giocoso.
All’Opéra invece erano di casa le grandi produzioni, che di solito non prescindevano da uno o più balletti e imponenti scenografie (il grand opéra, appunto).
Il Théâtre Lirique era il luogo più popolare e allo stesso tempo illuminato, diciamo così, in cui s’accoglievano con favore anche i lavori dei compositori stranieri.
In poche parole tra il 1867 e il 1888 l’opera fu rappresentata più di 400 volte solo a Parigi, spessissimo con protagonista il soprano Caroline Miolan Carvalho, che era la moglie del “sovrintendente” di uno dei tre teatri francesi.
Concludo questo mio primo intervento con alcune parole di Gounod, personaggio curioso e dalle mille sfaccettature (e che predicava bene e razzolava male, perché era molto attento alla “visibilità”), sulle conseguenze della “modernità”.
Mi paiono molto attuali e, come si dice, mutatis mutandis…
 
Al giorno d’oggi l’artista non è più padrone di se stesso: appartiene a tutti, è più che un bersaglio, è una preda. La sua vita intima e produttiva è quasi interamente assorbita, sequestrata, sperperata nei precisi obblighi della vita sociale che lo soffocano poco a poco nella rete di quegli sterili doveri-feticcio con cui s’impastano tante esistenze sprovviste di un movente superiore. Egli è divorato dal mondo, cioè. Si provi ad immaginare quel che può scaturire da uno spirito diviso senza tregua tra serate mondane, cene in città, convocazioni perpetue a riunioni di ogni genere, tormentato dall’assalto di una corrispondenza importuna, che non gli concede pause per respirare, oppresso infine da queste miriadi di piccole schiavitù su cui è costruita la grande tirannide dell’indiscrezione pubblica.
 
Non so se mi ricorda di più la vitaccia di un artista o di un Presidente del Consiglio, o di un capo della Protezione Civile, questa frase…(strasmile)
Buona settimana a tutti.
 
 

Recensione striminzita di Roméo et Juliet alla Fenice di Venezia e baricchi vari.

Circa quattro mesi fa ho prenotato il biglietto per il Roméo et Juliet di Gounod alla Fenice di Venezia, spinto dalla curiosità di ascoltare per la prima volta dal vivo il tenore Jonas Kaufmann (non ho ancora capito come si scriva, con due effe o con una?).
Mi era completamente sfuggito il fatto che la recita si svolgesse la domenica che precede il martedì grasso, altrimenti non ci sarei andato neanche se ci fosse stato Alfredo Kraus nel ruolo di Roméo.
Odio il carnevale e sull’orrida Venezia mi sono espresso più volte. A tutto questo aggiungete che sapevo della defezione di Jonas Kaufmann, ufficialmente colpito da un attacco di ernia del disco (la vox populi riferisce altro, ma la dietrologia non mi affascina molto).
Insomma, non ci sono andato volentieri.
Ancora, sono salito sul treno e nello scompartimento mi sono trovato insieme a due ragazze vestite da gattine mezze nude,
 
 
che hanno avuto l’idea geniale di fare un paio di moine a un gruppo di militari che stava salendo. Sostanzialmente la carrozza è stata invasa e occupata armi in pugno.
Uno dei ragazzotti, stranamente insensibile al fascino delle due sirene, si è seduto di fronte a me e ha indossato l’iPod. Bene, per due ore e mezza (sì perché ci voleva pure il ritardo, per migliorarmi la giornata)ha battuto il tempo della sua compilation di heavy metal con l’anfibio.
Peccato che sotto l’anfibio ci fosse il mio piede.
Tralascio, per carità di patria, il livello delle conversazioni (non sto parlando di cultura, ma di buon senso e ragionevolezza) che ho dovuto subire durante il viaggio, ma invito chiunque abbia ancora speranza nel futuro di questo paese, ad intraprendere un viaggio in compagnia di una ventina di ragazzi di età variabile tra i 19 e i 23 anni e ascoltare.
Certo, non tutti sono così, ma la media è questa ed è inutile e controproducente negarlo.
È evidente a chiunque non abbia interessi di parte da difendere che la nostra società è arrivata al punto di non ritorno e quindi, prima o poi, la famosa civiltà occidentale farà la fine dell’impero romano, implodendo miseramente. Altroché i cosacchi ecc.
Baricco peraltro, e qui potete leggere il suo pensiero, fa un discorso abbastanza serio ma poi sbaglia clamorosamente la conclusione: non dobbiamo decretare definitivamente che la televisione è la realtà, ma spostare il Paese dalla televisione.
Ricordo che Baricco deve le sue fortune alla televisione, perché prima della trasmissione “L’amore è un dardo” lo conoscevano in quindici persone, di cui sette erano parenti.
Bene, sto divagando più inutilmente del solito.
Il regista Damiano Michieletto firmava questo allestimento, in coproduzione col Verdi di Trieste, e ha fatto un buon lavoro, dal mio punto di vista. Michieletto ha sicuramente visto questo film e anche quest’altro e pure questo. Conosce Marilyn Manson e Andy Warhol, inoltre, e sa che oggi, ovunque, i ragazzi si muovono in branco.
Quindi i Capuleti e i Montecchi sono due bande rivali,

Morte Tybalt

 
 
con tutto ciò che ne può conseguire: risse, bulli vari (ahia, strasmile), territori marcati con il graf(f)iti writing (oggi sono in difficoltà con le effe, non se ne esce)
Tutta l’opera si svolge su di un enorme giradischi a testina (lo so che può sembrare allucinante, ma in teatro l’effetto era bello).

Finale

 
Il regista non ha tradito o frainteso lo spirito dell’opera, anche se in alcuni momenti le discrepanze con il libretto erano stridenti.
Roméo era impersonato dal tenore Eric Cutler che si è disimpegnato egregiamente, seppure gli acuti in qualche occasione non siano sembrati perfettamente a fuoco, come fossero un po’ schiacciati.
Molto buona e ricca di intenzioni interpretative la celeberrima Ah! Lève toi soleil!
Nino Machaidze,

Valzer Machaidze

 
 
attesissima dopo la prova nei Puritani a Bologna, è partita davvero male (ma male male) nel valzer iniziale Je veux vivre. Controllo dei fiati pessimo, forse dovuto all’emozione, non so.
Il soprano però si è ripresa molto bene e alla fine è parsa un’eroina credibile (in alcuni punti mi sono pure commosso…nel duetto che chiude il secondo atto, per esempio).
Bravo il baritono Marcus Werba, Mercutio, che supera bene la prova dell’aria iniziale della Regina Mab e appare incisivo e presente anche nel fraseggio, oltre che dotato di ottima disinvoltura scenica.
Il migliore della serata è risultato Giorgio Giuseppini, nella parte fondamentale di Frère Laurent. Voce non enorme, ma proiettata bene e interpretazione di ottimo gusto.
Ha cantato male, invece, Ketevan Kemoklidze (Stéphano). Il mezzosoprano, anche lei alle prese con una gestione dei fiati almeno problematica, ha palesato pure seri problemi d’intonazione.
Restando tra i mezzi, non bene neanche la Gertrude di Anne Salvan, quasi afona.
Buono il tenore Juan Francisco Gatell quale Tybalt, così così Nicolò Ceriani (l’ho sentito molto più in palla, anche recentemente) nei panni di Pâris e Luca Dell’Amico in quelli di Capulet.
Meritano almeno la menzione Antonio Feltracco (Benvolio), Matteo Ferrara (Gregorio) e Michele Bianchini (insomma, non straordinario il suo Duc de Vérone).
Il direttore Carlo Montanaro si è limitato a portare a termine l’opera, dirigendo in modo molto uniforme, però almeno non ha pigiato troppo sul volume di un’orchestra molto buona.
 

Cast completo

C’è da considerare che dopo le bordate di mano de pedra Kovatchev nella Norma triestina sono pronto a tutto.
Ottimo il Coro.
Pubblico molto contento, teatro completamente esaurito.
In palco con me una gentile coppia di coniugi tedeschi, affascinati dal teatro alla Fenice che vedevano per la prima volta. Hanno cercato, inutilmente, di convincermi che Kauffman sia il più grande Cavaradossi di sempre, ma forse ho capito male io, perché parlavamo in un inglese grottesco (strasmile).
Ritorno a casa fantozziano, a dire poco.
Ho perso il treno, ho litigato per cambiare il biglietto, sono salito su un carro bestiame e mi sono lasciato così alle spalle, senza alcun rimpianto, una Venezia più orrida del solito.
Vabbè, c’è di peggio nella vita, direi.
Alla prossima e ciao a tutti.
 
P.S.
Mi scuso con tutti per la mia perdurante latitanza nei vostri blog. Credetemi sulla parola, ho giustificazioni serie, anzi semiserie (smile).
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