Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Concerto di Natale al Teatro Verdi di Trieste: poche luci e molte, troppe ombre

I concerti natalizi e di fine anno, ovunque, sono accomunati da caratteristiche simili: lo stile è nazionalpopolare, i teatri sono addobbati a festa, politici e dirigenti si esibiscono in coacervi di luoghi comuni e pagine musicali eterogenee convivono a forza in programmi insensati, il pubblico applaude più o meno coinvolto e se ne va. È stato così anche a Trieste? La risposta è ni.
Non c’era l’ombra di un politico – non è un male – non c’era alcun dirigente del teatro (male), il programma era insensato al top, il pubblico più che plaudente e stanco non c’era o quasi e quelli che c’erano hanno applaudito sì con moderazione ma anche con convinzione in alcuni casi. Il teatro era spoglio, senza decori a parte un vaso di fiori non meglio identificato a lato del palcoscenico. Ora, è pur vero che non sono un critico di addobbi natalizi e non brillo per savoir-faire, ma forse qualcosa di più si poteva fare.
Si è cominciato con una novità, o meglio, un esperimento: due brani di Giovanni Gabrieli, compositore e organista vissuto nella seconda metà del 1500 arrangiati per dodici ottoni dal Primo trombone dell’orchestra triestina: l’ottimo Domenico Lazzaroni. Risultato: rivedibile, almeno a mio gusto, che non ho colto – ignoranza mia – altro merito che l’apertura di una strada che forse potrebbe produrre risultati interessanti in altre occasioni e che è invece ampiamente percorsa in diverse realtà mitteleuropee.
L’Orchestra del Verdi, diretta fiaccamente da Jacopo Brusa, ha dato prestazioni di sé più positive. Voglio dire che se l’Intermezzo di Cavalleria annoia e non emoziona…beh, qualcosa non ha funzionato. Se L’Ouverture delle Nozze di Figaro è scivolata via piatta, al pari di una soporifera Sinfonia dal Barbiere di Siviglia qualche problema c’è stato. Sono solo esempi, ma credo che una guida più appropriata sarebbe stata utile.
C’erano poi i solisti e, spiace dirlo, il basso Viacheslav Strelkov – forse non in perfetto stato di salute, peraltro non annunciato – non è stato all’altezza di un pubblico pagante. Non ci si presenta sul palco per cantare il duettino Là ci darem la mano con lo spartito; è una mancanza di rispetto per gli spettatori di chi ha approvato una simile scelta. Sospendo il giudizio sulle altre due arie di Rossini e Mozart.
Per fortuna, subito dopo si è esibita Marina Comparato nella cavatina di Rosina e finalmente abbiamo ascoltato una cantante vera e soprattutto un’Artista in gran forma, anche se impegnata in un repertorio che ormai frequenta poco. Il mezzosoprano ha poi confermato classe e professionalità sia nella Barcarola da Les contes d’Hoffman sia nell’aria di Fenena da Nabucco, interpretate con garbo e civilissima teatralità.
Brava anche Claudia Mavilia, che ha ben impersonato Zerlina e che ha cantato diligentemente le note di Mimì, ma dell’eroina pucciniana non ha il peso vocale né la maturità artistica per affrontare la parte neanche in concerto.
Buona la prestazione di Andrea Schifaudo, accorato Nemorino e divertito Arlecchino nella Serenata da Pagliacci: voce chiara, solare, buona dizione hanno confermato un rendimento più che sufficiente.
Alla fine due bis corelliani programmati e francamente non richiesti dal pubblico ci hanno fatto ricordare, più che altro, che a Trieste non ascoltiamo il Barocco da una vita.

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Divulgazione semiseria dell’opera lirica: La Bohème di Puccini, da venerdì 9 novembre al Teatro Verdi di Trieste. Di puccinismi, pornazzi e baracconate di regime.

Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e non serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni – comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini.

Di un’opera così popolare e nota è ancora più difficile scrivere qualcosa non voglio dire di originale, ma almeno che non sia scontato.

Ci provo.
Qual è il principale problema, oggi e sempre, nell’allestire una Bohème?

Il primo credo sia non cadere nella trappola del puccinismo, che è una malattia grave e greve che rischia di rovinare il piacere dell’ascolto di quest’opera straordinaria. Ne possono essere afflitti tutti: direttore d’orchestra, regista e compagnia artistica.
Il puccinismo si manifesta in modo subdolo, con alcuni sintomi che all’inizio possono passare inosservati ma che poi si rivelano per ciò che sono: i prodromi di una devastazione artistica in piena regola.
Soprani che assumono dall’entrata pose che avrebbero fatto apparire Eleonora Duse come un’attrice sobria e morigerata negli accenti, direttori che mugolano dal podio, imponendo calamitosi rallentando all’orchestra e/o gonfiandone il suono con l’anabolizzante di archi strappalacrime, paurose tempeste di decibel alla chiusura del secondo quadro, registi che mettono in scena un migliaio di persone, compresi amanti e parenti. Sono solo esempi, potrei continuare a lungo.
In realtà la vicenda narrata è semplice e non richiederebbe tanta enfasi: quattro studenti in soffitta, per non parlare della fioraia.
Il secondo problema, che si manifesta con sintomi abbastanza simili al primo, è di sprofondare nel verismo più deteriore –a conferma che dagli “ismi” vari è sempre meglio diffidare – perché Bohème è un’opera estranea all’estetica verista.
Una delle grandi novità di questo lavoro pucciniano è infatti il canto di conversazione che per sua natura deve risultare sommesso, lieve, anni luce distante dalle grida e dai drammi di un’opera verista. Una novità così spiazzante che fece dire a uno studioso e critico come Eduard Hanslick “sembra che parlino invece di cantare”. Appunto, a conferma che i critici assai spesso prendono lucciole per lanterne. Al pari del pubblico, peraltro, che alla prima del 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino restò un po’ titubante, per poi ravvedersi già alle prime repliche.
L’opera poi esplose artisticamente in tutto il mondo dall’Europa agli USA.
Allora, per evitare la consueta routine sulla genesi dell’opera e relativa vivisezione della partitura ho pensato di scrivere:

Dieci cose semiserie da sapere sulla Bohème di Puccini.

1)      La vicenda è narrata in un romanzo di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème), dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto, riuscitissimo perché calibra magnificamente momenti di spensieratezza a quelli più drammatici.

2)      Esiste anche una Bohème composta da Ruggero Leoncavallo, tratta dalla stessa fonte (Murger). Debuttò alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Tra le due Bohème, Gustav Mahler non solo preferiva quella di Leoncavallo, ma disprezzava apertamente l’altra.

3)      Puccini e Leoncavallo bisticciarono per la Bohème. Rivelando il suo spirito toscano Puccini chiamava il collega e rivale Leonbestia!
Addirittura, quando il grande Giacomo seppe che il pubblico veneziano non gradì troppo la Bohème del rivale, scrisse una non memorabile poesiola:
Il Leone fu trombato,
il Cavallo fu suonato
di Bohème ce n’è una
tutto il resto è una laguna

4)      Giulio Ricordi, editore di Puccini, per ragioni cabalistiche volle che Bohème debuttasse a Torino, nello stesso giorno nel quale, tre anni prima, vide la luce Manon Lescaut, primo successo clamoroso di Puccini.

5)      Il compositore francese Claude Debussy disse, testualmente: “Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini nella Bohème”

6)      La prima fu diretta da Arturo Toscanini, che all’epoca aveva 29 anni.

7)      Ci sono pochissime incisioni discografiche che sono considerate “di riferimento” dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Una di queste è la Bohème incisa nel 1972 per la Decca, protagonisti tra gli altri Mirella Freni e Luciano Pavarotti, assolutamente straordinari. Addirittura mirabolante la direzione di Herbert von Karajan.

8)      Sempre a proposito di dischi, nella perfida (per me) incisione diretta da Georg Solti, protagonisti Placido Domingo e Montserrat Caballé, c’è un momento esilarante.
Quando i due cercano la chiave caduta sul pavimento della soffitta, le loro mani si sfiorano e Mimì deve emettere una specie di sospiro di sorpresa. La Caballé, alla quale piaceva strafare, sostanzialmente finge un orgasmo, producendosi in un imbarazzante ahhhhhhh che potrebbe benissimo appartenere a qualche pornazzo.
Provare per credere (l’incisione, non i pornazzi).

9)      Il mio verso preferito della Bohème, che rispecchia perfettamente la mia ottimistica filosofia di vita è: Già dell’apocalisse appariscono i segni, che ripeto come un mantra da quasi 67 anni.

10)   La Bohème favorisce gigionate di gusto rivedibile. Tra le più nefande e note, questa qui sotto, in cui vediamo Domingo&Pavarotti in versione “le star fanno comunque audience e quindi chissenefrega”.

Vi lascio alla visione di questa baracconata di regime, in puro stile trash amerikano e a rileggerci presto. Qui Pavarotti e Domingo vanno fuori tempo, gigioneggiano come nessuno, inventano di tutto. Forse fanno spettacolo, boh.
It’s all folks

Lo strano dittico Pagliacci/Al mulino ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste. Al mulino, opera di Ottorino Respighi in prima mondiale, è una piacevole sorpresa.

Ultimo appuntamento della stagione del Verdi – è stato aggiunto in luglio un estemporaneo Pipistrello, probabilmente per dare un contentino agli appassionati dell’operetta -, il dittico Pagliacci/Al mulino si è rivelato interessante e coinvolgente. Unica criticità, a mio parere, l’eccessiva lunghezza della serata che si è conclusa a mezzanotte.
Forse il teatro di una città che sta diventando turistica dovrebbe prendere esempio proprio dal modello di Venezia a cui, a torto o ragione, si ispira apertamente e programmare l’inizio degli spettacoli almeno un’ora prima del classico orario delle 20.30, o perlomeno farlo quando la durata supera le tre ore.
Pagliacci di Leoncavallo mancava dal teatro triestino da vent’anni e perciò vale la pena, credo, spendere due parole su quest’opera che un’intera generazione di autoctoni non ha potuto vedere sul palcoscenico di casa.
Fortunatissima da subito, Pagliacci all’esordio a Milano il 21 maggio 1892 beneficiò della direzione di Arturo Toscanini e l’aria più famosa, Vesti la giubba, fu incisa in tempi pioneristici (1903) da Enrico Caruso per la casa statunitense Victor, vendendo qualcosa come un milione di copie.
Erano i tempi in cui cavalcando l’onda del successo di Cavalleria rusticana di Mascagni si componevano opere con soggetti ispirati – a dire il vero con una certa libertà – al movimento culturale del Verismo. Giordano, Cilea, Mascagni e, tirandolo per i capelli, anche Puccini in parte della sua produzione sono da considerarsi compositori veristi.
Personaggi di basso stato spesso sordidi e marginali, ambientazioni fortemente legate a territori specifici, vicende cruente, sono le caratteristiche salienti dell’opera verista.
Nei Pagliacci convergono numerose anime. Può essere vista come un grande esperimento di metateatro, con il famoso Prologo che ci spiega come “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mentre lo svilupparsi la vicenda ci dice il contrario. E, del resto, sembra che per quanto artatamente mascherato il fatto di sangue – l’ennesimo femminicidio e un omicidio – di cui si narra sia realmente accaduto in un paesino calabrese.
Ruggero Leoncavallo, wagneriano fradicio, prese dal nume tutelare la convinzione che un compositore dovesse scrivere il libretto per la sua musica e infatti così è per Pagliacci. Ma se Wagner è ermetico, visionario, criptico ed elegiaco nei suoi versi, al contrario Leoncavallo è diretto, sanguigno, astutamente volgare nel suo libretto. E altrettanto empatica, emotivamente coinvolgente è la sua musica che asseconda e rinforza le parole forti dei versi.
Valerio Galli, sul podio di un’Orchestra del Verdi che si è ben disimpegnata in tutte le sezioni, ha interpretato la partitura con equilibrio e in linea con la regia di Victor Garcia Sierra, a sua volta ben supportata dai costumi tradizionali e colorati di Giada Masi, dalle scene di Paolo Vitale e dall’impianto luci di Stefano Gorreri : i contrasti dinamici e agogici intensi ma calibrati hanno dato rilievo sia ai momenti più tragici sia alle brevi oasi liriche dell’opera. Non è, Pagliacci, opera da salotti raffinati bensì da polverose piazze popolari; il suono rude, grasso ed epidermico è uno stile, come nelle rozze fotografie di strada di Bruce Gilden che immortalano un’umanità borderline stravolta da un flash sparato in faccia.
Nella regia, ridondante solo nelle proiezioni iniziali e con qualche sospetto di horror vacui qua e là, si ritrova tutto ciò che nell’immaginario collettivo deve esserci in uno spettacolo di strada itinerante: donne barbute, figuranti con i trampoli, giostre e accalcarsi di persone col tasso alcolico elevato immerse in un microclima sociale che palesa disagio ed emarginazione. C’è chi vuole qualcosa di più, come Nedda e Silvio, chi ci sguazza come Canio e chi, come Tonio, contribuisce con rabbia a inchiodare a terra le aspirazioni degli altri per vendicarsi di una natura che gli è stata matrigna.
In questo senso, Devid Cecconi colora il suo Tonio con la disperata prepotenza di un personaggio di Dostoevskij: non si può salvare il mondo con la bellezza? Beh, allora portiamolo al livello più sordido con l’abominio morale e l’odio. Un’interpretazione intensa, alla quale il baritono aggiunge una vocalità straripante ma controllata e una recitazione misurata nei gesti e nella mimica.
Valeria Sepe, voce di soprano che si espande negli acuti, è una Nedda minuta e fragile che si fa amare per il suo tragico e inesausto desiderio di guardare le stelle anche se immersa nel fango. Si concede non a Silvio, ma al miraggio di una vita migliore.
Amadi Lagha è un Canio di tradizione, sobrio nella recitazione in una parte che si presterebbe a eccessi e dotato di voce di buon volume e colore mediterraneo. Gli manca, forse, una personalità artistica più marcata che renda incisivo il fraseggio, ma il personaggio è risolto compiutamente.
Senza due bravi interpreti di Silvio e Beppe Pagliacci è monca e l’accorato Min Kim interpreta bene il sogno di Nedda allo stesso modo dell’elegante Blagoj Nacoski nell’insidiosa parte dell’Arlecchino. Completavano dignitosamente il cast Damiano Locatelli e Francesco Paccorini.
Molto bene il Coro, purtroppo ancora costretto alla mascherina, ed eccellente la prova dei ragazzini del coro di voci bianche.
Successo pieno per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio da un pubblico magari non foltissimo ma partecipe.
Dopo un lungo intervallo è stata la volta della sofferta opera di Ottorino Respighi, Al mulino, rimasta incompiuta. Nel libretto di sala si spiega con dovizia di particolari quali sono state le strategie e le motivazioni di Paolo Rosato e Fabrizio Da Ros – sul podio dell’orchestra in questa prima mondiale – per completare dopo più di un secolo la partitura. Un lavoro ancora in fieri, a detta dei prefati protagonisti.
Dal mio punto di vista l’opera soffre di qualche lungaggine e di un libretto un po’ troppo verboso nel linguaggio, ma questa prima uscita mi ha convinto perché la musica è coinvolgente nella sua enfatica solennità che non affonda mai nelle melmose spiagge della magniloquenza stentorea.
La vicenda è semplice e si svolge In Russia ai primi del Novecento in una famiglia contadina disagiata, dove un padre padrone (Anatolio) maltratta per ignoranza e maschile paternalismo spinto la giovane figlia Aniuska la quale, ovviamente, si innamora di un ribelle oppositore del regime zarista, Sergio. Nicola, operaio segretamente innamorato della bella mugnaia, non vuole in alcun modo che la giovane realizzi il suo sogno e fa il delatore rivelando all’ordine costituito il nascondiglio del fuggitivo Sergio. Aniuska sbrocca alla grande e annega tutti, buoni e cattivi, nelle acque del fiume che alimenta il mulino.
Ed è appunto il mulino protagonista della messinscena di Daniele Piscopo, che firma appunto regia, scene e costumi. Allestimento pienamente riuscito nella sua relativa semplicità, che con la sua cupezza incombente macina i sentimenti dei protagonisti e accompagna una musica spesso tetra, violenta e minacciosa dall’incessante incedere.
I cantanti, “costretti” a un declamato teso e agitato, sono stati tutti all’altezza della situazione sia dal lato vocale sia da quello scenico ma, almeno dalla mia posizione, alcuni sono sembrati sottodimensionati per volume perché l’orchestra è parsa davvero un muro difficile da superare.
A Domenico Balzani non fa certo difetto il volume e con la sua interpretazione ha dato rilievo al viscido Nicola.
Zi Zhao Guo (Sergio) è uscito tutto sommato bene da una parte tenorile che mi è sembrata impervia, mentre Afag Abbasova-Budagova Nurahmed (Aniuska), brava dal lato attoriale, ha palesato i limiti di una voce forse troppo esile e ha risolto il personaggio per impegno e partecipazione emotiva.
Ancora brillante Blagoj Nacoski (Ufficiale) e accettabile, ma meno centrata, la prestazione di Min Kim nei panni del crudele Anatolio. Funzionale allo spettacolo il rendimento di Cristian Saitta (Pope), Anna Evtekhova (Maria) e Giuliano Pelizon (Soldato), mentre nella breve ma impegnativa parte tenorile (“Solo”) è stato eccellente Francesco Cortese. Buona la prova del Coro.
Fabrizio Da Ros ha diretto con grande pathos la compagine triestina, anche in questa occasione brillante, ed è riuscito a trasmettere quella sensazione angosciosa di catastrofe imminente che mi pare la cifra distintiva dell’opera.
Alla fine anche in questo caso il pubblico ha applaudito tutta la compagnia artistica, decretando così un franco successo a questa nuova produzione del Verdi.

Pagliacci
  
Canio/PagliaccioAmadi Lagha
Nedda/ColombinaValeria Sepe
Tonio/TaddeoDevid Cecconi
Beppe/ArlecchinoBlagoj Nacoski
SilvioMin Kim
Un contadinoDamiano Locatelli
Altro contadinoFrancesco Paccorini
  
DirettoreValerio Galli
Maestro del coroPaolo Longo
RegiaVictor Garcia Sierra
ScenePaolo Vitale
CostumiGiada Masi
LuciStefano Gorreri
  
Coro dei Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro
  
Al mulino
  
AniuskaAfag Abbasova-Bugadova Nurahmed
NicolaDomenico Balzani
SergioZi Zhao Guo
PopeCristian Saitta
AnatolioMin Kim
MariaAnna Evtekhova
SoloFrancesco Cortese
SoldatoGiuliano Pelizon
  
DirettoreFabrizio Da Ros
Regia, scene e costumiDaniele Piscopo
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  




Divulgazione semiseria dell’opera lirica: il dittico Pagliacci/Al mulino al Teatro Verdi di Trieste.

Con il singolare dittico Pagliacci/Al mulino si chiude, venerdì prossimo 10 giugno, la stagione operistica al Verdi di Trieste. Una stagione di transizione per vari motivi: Il Covid e l’avvicendamento del sovrintendente sono i più evidenti. Aspetto con ansia il cartellone nuovo, sperando in qualche titolo meno scontato e anche a una stagione sinfonica degna di tal nome.
Pagliacci di Leoncavallo è opera davvero singolare e fortunatissima da subito. All’esordio a Milano il 21 maggio 1892 beneficiò della direzione di Arturo Toscanini e l’aria più famosa, Vesti la giubba, fu incisa in tempi pioneristici (1903) da Enrico Caruso per la casa statunitense Victor, vendendo qualcosa come un milione di copie!
Erano i tempi in cui cavalcando l’onda del successo di Cavalleria rusticana di Mascagni si componevano opere con soggetti ispirati – a dire il vero con una certa libertà – al movimento culturale del Verismo. Giordano, Cilea, Mascagni e, tirandolo per i capelli, anche Puccini in parte della sua produzione sono da considerarsi compositori veristi. Personaggi di basso stato spesso sordidi e marginali, ambientazioni fortemente legate a territori specifici, vicende cruente, sono le caratteristiche salienti dell’opera verista.
Nei Pagliacci convergono numerose anime. Può essere vista come un grande esperimento di metateatro, con il famoso Prologo che ci spiega come “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mentre lo svilupparsi la vicenda ci dice il contrario. E, del resto, sembra che per quanto artatamente mascherato, il fatto di sangue – l’ennesimo femminicidio e un omicidio – di cui si narra sia realmente accaduto in un paesino calabrese.
Ruggero Leoncavallo, wagneriano fradicio, prese dal nume tutelare la convinzione che un compositore dovesse scrivere il libretto per la sua musica e infatti così è per Pagliacci. Ma se Wagner è ermetico, visionario, criptico ed elegiaco nei suoi versi, al contrario Leoncavallo è diretto, sanguigno, astutamente volgare nel suo libretto. E altrettanto empatica, emotivamente coinvolgente è la sua musica che asseconda e rinforza le parole forti dei versi.
Se digitate la chiave di ricerca “Al mulino” sui motori di ricerca vi farete una cultura sugli agriturismi e magari potete prenotare un pranzo. Dell’omonima opera del compositore Ottorino Respighi si trova poco e io ne so nulla (oh, mica si può sapere tutto eh?): perciò mi limiterò a dare qualche notizia ricavata dalla Rete.
Di Respighi come artista, invece, Trieste è sempre stata estimatrice, tanto che il Verdi è uno dei pochi teatri italiani ad aver proposto (troppi anni fa) chicche come La campana sommersa o La fiamma, oltre che, naturalmente, il celeberrimo poema sinfonico I pini di Roma.
Si tratta di un progetto artistico e musicologico fino a ieri considerato impossibile quello di portare in scena “Al mulino”, opera lirica in due atti e un intermezzo, che il compositore Ottorino Respighi, morto a Roma nel 1936, aveva lasciata incompleta. Rosato ha completato l’orchestrazione che Respighi non aveva terminato in seguito ad un diverbio col librettista Alberto Donini, ed ha anche ricostruito il libretto musicato da, compositore nato nel 1879 a Bologna, che solo in parte coincide con quello che Donini aveva scritto, risultando per buona parte invenzione del compositore stesso.
Dopo la rottura tra Respighi e Donini, quest’ultimo aveva affidato il proprio libretto a Leopoldo Cassone e l’opera andò in scena il 17 novembre 1910 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino. Anche Respighi si era dedicato ad una nuova opera, Semirâma, su libretto di Alessandro Cerè, che andò in scena il 20 novembre del 1910 al Teatro Comunale di Bologna. A Bologna c’era però stata una prima esecuzione del Mulino respighiano, nella versione per canto e pianoforte, sotto forma di audizione privata nel salotto della cantante Margherita Durante nel giugno del 1908, a testimonianza del fatto che Respighi, grande amante della Russia (dove aveva avuto modo di suonare come violista e di studiare composizione con Nikolaj Rimskij-Korsakov), era comunque legato a questo lavoro. Elsa Olivieri Sangiacomo (moglie di Respighi), spiegò che per portare in scena la musica di Al mulino di Respighi sarebbe stato necessario scriverci sopra un nuovo libretto, ed inoltre si era resa conto che alcune sue parti erano nel frattempo state utilizzate dal marito in altre opere. Infine, il secondo atto risultava orchestrato solo per metà.
Ad oltre un secolo di distanza dalla data di composizione de Al mulino, superate le difficoltà legate ai diritti morali e d’autore, appare di grande interesse storico e musicologico la possibilità di ascoltare un lavoro sì giovanile ma che è già ricco di spunti e modalità propri del compositore più maturo.

L’ambizioso progetto, fortemente voluto dal direttore d’orchestra Fabrizio Da Ros (primo da sinistra nella foto in altro) e avviato con Paolo Rosato (nella foto in alto e in basso) e col benestare della Fondazione Cini di Venezia (che gestisce l’Archivio Ottorino Respighi), vede ora finalmente la luce grazie alla Opera Production di Enrico Copedè e al Teatro Verdi Trieste

A sabato, per la consueta recensione.

Jonas Kaufmann trionfa al Festival di Lubiana. Recital impegnativo, ma il tenore concede ben quattro bis!

Foto Gregor Hohenberg/Sony Classical

Nonostante le consuete difficoltà contingenti il Festival di Lubiana è arrivato alla 69esima edizione, ospitando come sempre grandi protagonisti della scena musicale contemporanea in varie sedi cittadine: piazze, sale da concerto, chiese. Come ho già scritto altre volte, questa manifestazione ha una forte impronta autenticamente popolare: la capitale slovena si dona alla musica.
Dopo l’inaugurazione del mese scorso con Valery Gergiev e l’Orchestra del Mariinsky, pochi giorni fa si è svolto il concerto della coppia Anna Netrebko/Yusif Eyfazov e, ieri sera, è stata la volta dell’attesissimo recital di Jonas Kaufmann con l’Orchestra sinfonica slovena guidata da Jochen Rieder.
Il tenore tedesco è oggi uno degli artisti più ambiti da qualsiasi teatro, oltre che argomento di discussione per gli appassionati e richiamo irresistibile per il pubblico che, infatti, anche ieri si è presentato numerosissimo nonostante il costo dei biglietti non fosse esattamente popolare.
Il programma è stato peculiare: la prima parte dedicata alla musica italiana e la seconda interamente a Wagner, alternando in entrambi i casi Preludi e Ouverture ad arie d’opera, per quanto sia superficiale definire così i lacerti wagneriani.
Jochen Rieder ha diretto con piglio sicuro l’eccellente compagine locale che ha ben figurato nonostante qualche veniale ed episodico sbandamento degli ottoni nella seconda parte della serata. Ottimi gli archi e i legni e vigorose le percussioni.
Da wagneriano fradicio avrei saltuariamente preferito qualche decibel in meno (prima parte del Preludio del Lohengrin), ma l’acustica della grande sala da concerto del Cankarjev dom è difficile da gestire, soprattutto con un numero limitatissimo di prove.
Impeccabili, invece, sono risultate le esecuzioni delle pagine musicali italiane e in particolare è stata godibile la riuscita della celeberrima “Danza delle ore” da La Gioconda di Ponchielli.
Jonas Kaufmann è stato semplicemente grandioso, senza se e senza ma, nell’arco dell’intera serata.
Di là delle doti vocali, del tenore tedesco colpiscono la gestione della respirazione, il legato, la musicalità impeccabile e soprattutto l’eloquenza del fraseggio e la capacità davvero fuori dal comune di dare senso compiuto ai testi, alla parola scenica, quella che “scolpisce e rende netta ed evidente la situazione”, per dirla con Giuseppe Verdi.
Inoltre, con pochi gesti da consumato attore, porta subito dentro il personaggio. In questo modo i vari Enzo Grimaldo, Alvaro, Canio sino agli eroi wagneriani risultano vivi e palpitanti, credibili.
I personaggi sono spogliati da ogni retorica e lasciano intravvedere il lato umano, passionale, quello che li rende più vicini a noi e perciò più comprensibili.
A dispetto dell’oneroso programma Kaufmann ha regalato anche ben quattro bis, attingendo ancora da Wagner e passando per il Lied, la romanza da camera e l’operetta.
Tutti in piedi alla fine, a decretare il trionfo di un artista popolare e soprattutto bravissimo.

Giuseppe VerdiOuverture da I vespri siciliani
Amilcare PonchielliCielo e mar da La Gioconda
Amilcare PonchielliDanza delle ore da La Gioconda
Giuseppe VerdiOh tu che in seno agli angeli da La forza del destino
Ruggero LeoncavalloIntermezzo da Pagliacci
Ruggero LeoncavalloVesti la giubba da Pagliacci
Richard WagnerCavalcata delle Valchirie da Die Walküre
Richard WagnerEin schwert mir der Vater da Die Walküre
Richard WagnerPreludio da Die Meistersinger von Nürnberg
Richard WagnerMorgenlich leuchtend in rosigen Schein da Die Meistersinger von Nürnberg
Richard WagnerPreludio da Lohengrin
Richard WagnerIn fernem Land da Lohengrin
  
TenoreJonas Kaufmann
DirettoreJochen Rieder
  

Orchestra Sinfonica Slovena
  




Recensione semiseria e considerazioni a latere del Concerto di Capodanno al Teatro Verdi di Trieste: Freddie Mercury, perdonaci.

Ma non perdonare il nostro quotidiano, Il Piccolo, che al Concerto di Capodanno della maggiore realtà della regione ha dedicato questo importante ed esauriente articolo:

Si è rinnovato ieri anche l’appuntamento beneaugurale con il Concerto di Capodanno della Fondazione Teatro Lirico Verdi di Trieste, con l’Orchestra diretta dal maestro Fabrizio Maria Carminati, il Coro diretto dal maestro Francesca Tosi e i tecnici dell’ente . In programma le musiche di Johann Strauss.
(c’era anche una mini-foto)


Ecco, tanto per cominciare bene l’anno e visto che è stato l’articolo più letto anche nel 2019, vi allego la triste storia di Capricornina78.
E auguri a tutti (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Festival di Lubiana: bel concerto di canto di Željko Lučić ed Evelin Novak.

I recital di canto sono una delle colonne portanti del cartellone del Festival di Lubiana e dopo l’inopinata rinuncia di Elīna Garanča (la settimana scorsa ha dato forfait per gravissimi motivi familiari), era molto atteso il concerto di Željko Lučić, affiancato dalla giovane Evelin Novak.
Il programma era decisamente nazionalpopolare, come credo sia giusto per un recital inserito in una manifestazione che si rivolge a un pubblico vasto qual è la kermesse slovena. Arie e pagine musicali notissime, quindi, tratte esclusivamente dal repertorio italiano più classico: Verdi, Puccini, Leoncavallo, Giordano e nessuna escursione nel Belcanto. Leggi il resto dell’articolo

La Bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: uno sguardo semiserio.

Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e poco serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni –  comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini. Leggi il resto dell’articolo

Recensione semiseria di Pagliacci e Cavalleria rusticana alla Scala di Milano: AAA tenori cercasi!

Serata dall’esito contrastato alla Scala di Milano per il dittico Cavalleria-Pagliacci.

Premetto che ho seguito l'opera in televisione, su RAI5.

La regia di entrambe le opere è stata firmata da Mario Martone che non ha lasciato certo un segno indelebile.
Pagliacci rimestati nella solita salsa vista e stravista mille volte, senza un’identità precisa, ambientati suppongo in un generico presente (c’era un’automobile in scena) e considerevolmente intristiti da costumi, a cura di Ursula Patzak, da trovarobato squallido. Luci insignificanti di Pasquale Mari e scene banali di Sergio Tramonti.
Spero che non ci sia ancora qualcuno che faccia buon viso allo stantio gioco del presunto metateatro, solo perché il tenore punta il coltello alla gola ad uno spettatore che stava in un palco vicino al proscenio.
Dal punto di vista vocale questi Pagliacci sono stati un disastro, perché a cantare discretamente sono stati in due su cinque.
Pessima, indecente, la prestazione di José Cura, il tenore che ha interpretato Canio, una sofferenza per chiunque ami la lirica. Ululati, cachinni, stonature, tutto il campionario di quello che non si vorrebbe sentire da un cantante. Una sbobba indecorosa e indigesta, sulla quale non dico nulla di più perché non vale neanche la pena che mi sprema per descriverla.
Poco meglio il soprano Oksana Dyka, che però mi ha dato al sensazione di non aver idea di cosa stesse cantando, tanto era monotona nel fraseggio e piatta nell’accento. E Nedda, al contrario, è personaggio vivo che esprime lacerazioni interiori e sentimenti forti.
Voce anonima e acuti gridati e presenza scenica tendente allo zero. Vabbè.
Ambrogio Maestri discreto Tonio sia vocalmente sia dal lato attoriale, anche se certo non si può affermare che tratteggi un personaggio memorabile. Bene il Prologo, seppure cantato tutto forte.
Forse poteva evitarci qualche effettaccio, ma in un’opera come questa ci può stare, forse.
Male anche il baritono Mario Cassi, un Silvio spesso stonato e calante, del quale si può innamorare solo una patata lessa come la Nedda di stasera. Povera, tra Canio e Silvio era messa proprio male (strasmile).
Abbastanza buona la prova di Celso Albelo quale Beppe/Arlecchino, che è parso, a confronto del resto della compagnia di canto, una specie di divinità canora.
Davvero splendida la direzione di Daniel Harding, perché ha dimostrato che si può dirigere un’opera come Pagliacci senza ricorrere a clangori e spargere retorica ridondante ad ogni nota. Anzi, proprio nei momenti più drammatici è risultato asciutto ma vigoroso e pure nell’accompagnamento ai cantanti (si fa per dire) si è dimostrato sobrio, mai prevaricante. Merito anche di un’Orchestra della Scala magnifica, che evidentemente, un po’ come tutte le orchestre, ha bisogno di una personalità forte sul podio per rendere al meglio.
Il pubblico ha contestato vivacemente tutti, prendendosela in particolare con Cura, salvando inspiegabilmente Massi e fischiando stupidamente Harding. I fischi al direttore sono stati uno scandalo vero e proprio.
Le cose sono andate meglio in Cavalleria rusticana.
In questo caso la regia di Martone e il lavoro dei suoi collaboratori (gli stessi dei Pagliacci) mi ha convinto. Molto belle le luci, appropriati i costumi, scene dignitose. Un allestimento tradizionale ma con una personalità piuttosto marcata.
Il Turiddu di Salvatore Licitra non è stato, per usare un eufemismo, particolarmente convincente. Il tenore ha una voce assai bella ma a me sembra inerte dal lato interpretativo e vocalmente sempre al limite (e qualche volta oltre) dell’urlo. Ci si potrebbe addentrare in speculazioni tecniche ma non mi pare il caso. Diciamo che per ora continua a sfruttare il capitale che madre natura gli ha regalato, con risultati alterni.
E poi, caro Salvatore, non si può dire Francoforte invece di Francofonte, dai!

Nel complesso brava Luciana D’Intino, anche se la parte di Santuzza non le si addice nonostante ce l’abbia in repertorio da molto. Spesso gli acuti erano ghermiti e la sensazione di fatica piuttosto evidente. Il personaggio però è centrato ed esce piuttosto bene.
Claudio Sgura mi è sembrato sottotono ma non ha certo sfigurato. C’è da considerare che Compar Alfio non offre il destro per particolari introspezioni, è un personaggio semplice, lineare.
Per me Elena Zilio, Mamma Lucia, era impresentabile. Nessuno nega il suo passato ma ormai può fare solo qualche comparsata che non preveda difficoltà vocali, suvvia.
Discreta Giuseppina Piunti nei panni di Lola.
Harding anche in questo caso mi è piaciuto molto, specialmente nell’Intermezzo, mentre l’Orchestra della Scala ha presentato qualche sbavatura negli archi: nulla d’irrimediabile.
Molto bene sia in Cavalleria sia in Pagliacci il Coro della Scala.
Il pubblico ha fischiato, giustamente, Licitra, e applaudito senza troppi entusiasmi il resto della compagnia di canto. Molto festeggiato pure Harding, per fortuna.
Contestata piuttosto vivacemente la regia di Martone, non so se più per i Pagliacci o per Cavalleria Rusticana.
Una piccola chiosa sulla regia televisiva: non male, però i primi piani nella lirica sono sempre a rischio. Stasera Ambrogio Maestri ha esalato un catarro di dimensioni ragguardevoli e non sono cose belle (smile).
Bene, buonanotte! 
P.S.
Scritto in fretta, segnalate errori che poi domani, anzi oggi, correggo.

Il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci alla Scala di Milano: la prima salta per sciopero.

Avevo appena pubblicato il post ed ecco che sul sito della Scala è comparsa la conferma dello sciopero. Se ne riparla martedì 18, quindi.

Domenica prossima, al Teatro Alla Scala di Milano, dovrebbe  essere di scena il dittico Cavalleria Rusticana e I pagliacci, che incredibilmente manca nel teatro milanese da trent'anni.

Scrivo dovrebbe, perché le possibilità che la prima salti per sciopero (ovviamente per le note vicende dei tagli alla cultura di questo governo) è molto alta. Vi terrò aggiornati, anche perché la recita sarà trasmessa (anche in streaming? Non si sa e dopo la figura pessima della volta scorsa non mi va di fare previsioni) sul nuovo canale digitale RAI5 dalle ore 20.
Nonostante un cast non entusiasmante che si distingue solo per la presenza dell’ottimo direttore Daniel Harding (il grande ed esigente Daland, di cui mi fido ciecamente, ne dice qui assai bene), l’attesa tra gli appassionati è piuttosto alta. Insomma, sono opere popolari nella migliore accezione del termine e appartengono a quel periodo culturale noto come verismo.
I lavori sono effettivamente contemporanei, Cavalleria di Mascagni debuttò nel 1890, Pagliacci di Leoncavallo nel 1892.
Entrambi i compositori fanno parte di quella che è chiamata la Giovane Scuola, una corrente musicale che ha dominato per un decennio e che presenta alcune caratteristiche comuni e anche molti luoghi comuni, il più fastidioso dei quali è che le opere debbano essere cantate con la bava alla bocca, digrignando i denti e urlando come bestie. E in effetti molto spesso i cantanti cadono in quest’errore, con risultati rivedibili.
Una cosa è essere vigorosi, incisivi, ben altra essere sguaiati e volgari.
Per fortuna, nella discografia soprattutto, c’è sempre qualche esempio chiarificatore.
E proprio ai dischi ricorro questa volta per la mia breve presentazione delle opere in questione, non prima di farvi vedere come si presentava il Cortile delle Milizie del Castello di San Giusto nel 1937, proprio in occasione di una Cavalleria Rusticana.
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Come potete vedere, un delirio di folla tra la quale si nascondeva anche il mio papà che mi ha da poco lasciato, allora tredicenne.
Dal punto di vista discografico, dicevo, c'è un'incisione di riferimento assoluto, dalla quale non si può prescindere pur nel rispetto dei gusti personali e, guarda caso, quest'incisione porta la firma di tale Herbert von Karajan. Destino cinico e baro, quello dei direttori davvero grandi, e cioé di essere sempre una specie d'aggregante di talenti, un marchio di fabbrica di qualità.
In entrambe le opere Karajan lavora con l'Orchestra e il Coro del Teatro alla Scala di quei tempi, che erano compagini di livello stratosferico.
E allora ecco che la musica scorre carica di sensualità senza che ci sia mai neanche il sospetto di volgarità. Allo stesso tempo le pagine più patetiche non risultano mai lacrimevoli e zuccherose, ma sono sempre ammantate di una scabra dignità popolare oggi perduta, travolta dall'esibizione coatta del dolore televisivo.
Certo, in entrambe le opere va in onda l'omicidio efferato, ma quasi ce ne scordiamo.
Dopo il direttore, protagonista assoluto è il tenore Carlo Bergonzi che interpreta le parti di Turiddu e Canio e addirittura, a mio personalissimo parere, ci lascia le sue prove migliori in assoluto e lo fa proprio perché affronta personaggi che sembrano lontani dal suo repertorio d'elezione, che è quello verdiano.
La registrazione è del 1965, nel pieno della maturità dell'artista che doveva essere in un periodo di forma straordinario, come si può facilmente constatare dall'ascolto di contemporanee registrazioni dal vivo. Acuti eccellenti, dizione più a posto del solito e un fraseggio e un accento memorabili.
Nei Pagliacci poi abbiamo anche il miglior Tonio di sempre (parere mio, ovvio) e cioé uno spettacolare Giuseppe Taddei che canta un Prologo da brividi.
Bravi anche Rolando Panerai (Silvio) e Ugo Benelli (Beppe).
Ad un livello inferiore si pone la caratterizzazione di Joan Carlyle nei panni della sfortunata Nedda, ma probabilmente la prestazione impressionante degli uomini ne evidenzia i limiti d'accento.
In Cavalleria da rilevare l'eccellente prova di Fiorenza Cossotto quale Santuzza. La temperamentosa artista (spesso criticata, a ragione, per una certa tendenza a strafare) qui tratteggia un personaggio davvero magnifico, dignitoso nella certezza del tradimento ma essenziale, dal dolore trattenuto e sorvegliato e mai sfacciatamente esibito.
Rilevante anche la prestazione di Gian Giacomo Guelfi, il baritono che interpreta Compar Alfio.
Quindi, in attesa di aggiornamenti (sia per lo sciopero sia per la trasmissione via web) che vi darò in neretto all'inizio del post, ci rileggiamo per la recensione semiseria.
Buon fine settimana a tutti.

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