Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione serena de La Messa di Requiem di Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Credo siano note a tutti le tristi e inquietanti vicende che riguardano Villa Verdi a Sant’Agata di Villanova in provincia di Piacenza, al centro di una lunga e inestricabile diatriba per questioni ereditarie.
Sono molte le realtà istituzionali e culturali che si sono attivate per rimediare a una situazione incresciosa e, tra le altre iniziative, anche le Fondazioni liriche stanno fornendo il loro contributo aderendo alla manifestazione “VIVA Verdi” che prevede la realizzazione di concerti straordinari i cui proventi andranno in beneficenza per sostenere il progetto della casa/museo di Verdi.
L’esecuzione della Messa di Requiem al Teatro Verdi di Trieste va inserita, meritoriamente, nel prefato contesto.
Il Sovrintendente Giuliano Polo ha sottolineato che la scelta è stata dettata dall’esigenza di valorizzare Orchestra e Coro locali e cantanti già presenti a Trieste per Turandot, con l’eccezione di Isabel De Paoli che però risiede in città e, per quello che può valere, ho trovato sensata questa scelta.
La direzione è stata affidata ad Alessandro Vitiello, anch’egli triestino e allievo del mai dimenticato Gianluigi Gelmetti che fu sul podio nel 2013 quando il capolavoro verdiano fu eseguito nell’ambito dei festeggiamenti per il centenario dalla nascita del Compositore.
Vitiello ha dato una lettura tesa e al contempo attenta a esaltare le caratteristiche spirituali, meditative, della straordinaria partitura verdiana, trovando un equilibrio interpretativo che ha esaltato sia la tellurica irruenza di pagine come il Dies Irae sia la serena compostezza dell’Hostias.
L’Orchestra del Verdi ha risposto con passione e competenza alle indicazioni del podio, esibendo soffice morbidezza negli archi, vigore controllato nelle percussioni e robusta precisione negli ottoni, ma tutte le sezioni sono sembrate in gran spolvero.
Buona anche la prova del Coro della Fondazione che ha cantato con gusto, raccoglimento e impeto, assecondando le mutevoli atmosfere psicologiche del testo liturgico.
La compagnia di canto era omogenea e tutti i solisti hanno ben figurato anche per l’indispensabile compostezza richiesta dalla circostanza.
Angela Nisi, nonostante qualche veniale forzatura, si è ben disimpegnata nella parte sopranile, palesando un’incisiva proiezione della voce.
Brillante Isabel De Paoli, che ha trovato gli accenti giusti per una parte onerosa che richiede anche affiatamento col soprano nel meraviglioso duetto Recordare.
Bravo anche Amadi Lagha, al debutto, che è riuscito a piegare il suo strumento vocale esuberante alle variegate dinamiche che richiede la parte senza sacrificare brillantezza negli acuti.
Autorevole Gabriele Sagona, chiaro nella dizione, severo al punto giusto nel Confutatis e austero nel fraseggio nell’arco della recita.
Pubblico piuttosto numeroso e assai felice degli esiti artistici della serata, che ha applaudito a lungo tutta la compagnia artistica più volte chiamata al proscenio.

DirettoreAlessandro Vitiello
Direttore del coroPaolo Longo
  
SopranoAngela Nisi
MezzosopranoIsabel De Paoli
TenoreAmadi Lagha
BassoGabriele Sagona
  
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
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Recensione severa di Turandot di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: tanto rumore per nulla (o quasi).

No, non è stata la “stessa” Turandot del 2019, per quanto la sostanza dell’impianto scenico e i due interpreti principali fossero gli stessi.
L’allestimento ha guadagnato molto dai nuovi costumi di Danilo Coppola, più vicini alla concezione registica di Davide Garattini Raimondi e, tutto sommato, meno scontati di quelli che a suo tempo furono ripresi dal Teatro di Odessa. La divisione – certo un po’ manicheista – tra buoni e cattivi, tra popolo e regale nobiltà è risultata più chiara. Allo stesso modo, il costume nero si prestava bene al teorico anonimato di Calaf, alla triste parabola della vita di Liù e all’accorata partecipazione del coro, notoriamente protagonista nell’opera al pari degli altri personaggi. Le tre maschere sono state dinamiche, sulfuree, com’è giusto che sia, Turandot fredda e distaccata, ma con qualche cedimento dopo la scena degli enigmi.
La versione scelta è stata, come a suo tempo, quella che si interrompe con la morte di Liù e a questo proposito ho trovato giusto il taglio – che si ascoltava con superstizioso disagio – della voce registrata che ricordava la morte di Puccini.
Le proiezioni invece dopo un po’ stufano, e se assolvono al loro dovere di dare tridimensionalità allo spettacolo al contempo non aggiungono nulla alla comprensione dello stesso, soprattutto quelle che sembravano uno spot per promuovere il Test di Rorschach.
Purtroppo, nonostante qualche criticità veniale, la parte migliore della serata è stato proprio l’allestimento, perché sul fronte musicale – nel teatro lirico bisogna pur cantare e suonare, e farlo bene – le cose non sono andate nel verso giusto.
Nulla da eccepire sulla prestazione dell’Orchestra del Verdi, i cui standard sono sempre elevati, mentre qualche perplessità ha suscitato la lettura di Jordi Bernàcer, decisamente orientata su dinamiche spaccatimpani, agogiche frettolose e poco attenta a valorizzare le parti meno estroverse di una partitura che vive sì di contrasti anche importanti ma che non deve essere ridotta a un’edonistica esibizione di suono bombastico.
Le percussioni erano spesso sovrastanti, almeno dalla mia posizione. Il Coro, disciplinato e puntuale dal lato scenico, ha cantato bene ma con troppa foga e forse di questo eccesso di decibel è responsabile proprio il podio. Bene i ragazzini del coro di voci bianche, preparati da Cristina Semeraro.
È auspicabile che nelle prossime recite si trovi un maggior equilibrio sonoro.
Kristina Kolar, eccellente nel 2019, ieri sera è sembrata meno convincente soprattutto nella sortita – certo, di rara difficoltà – in cui è sembrata disorientata e con un’intonazione non ineccepibile. Il soprano si è poi ripresa ma la sensazione è che possa fare molto meglio perché la voce resta adatta alla parte e di rilievo per volume e consistenza. Da migliorare invece la dizione e la pronuncia.
Amadi Lagha, convincente Calaf quattro anni fa, è stato al solito generoso ed empatico ma l’accento è parso generico, il fraseggio non approfondito e gli acuti, notoriamente punto di forza dell’artista e infatti esibiti con grande entusiasmo, privi di punta e più grossi che penetranti.
Liù è stata interpretata da Ilona Revolskaja che ha una voce assai particolare, di tinta quasi contraltile, che prende corpo negli acuti ma anche affetta da un vibrato stretto molto pronunciato e sostanzialmente inudibile nei registri medio e grave. Buone un paio di messe di voce, ma complici anche una partecipazione scenica dimessa e dizione e pronuncia rivedibili a essere generosi il personaggio non è uscito nella sua tragica grandezza.
Problematica anche la prestazione di Marco Spotti, Timur poco incisivo e ondivago nell’intonazione.
Molto buono il rendimento delle Tre Maschere che sono state ineccepibili sia dal lato vocale sia dal punto di vista attoriale. Un plauso particolare, non me ne vogliano gli altri colleghi, va al Ping del sempre solidissimo Nicolò Ceriani.
All’altezza del cimento anche le parti di contorno che trovate in locandina.
Teatro affollato da un pubblico che ha contestato – dal loggione – in modo piuttosto ingeneroso la regia e applaudito con moderazione una compagnia artistica che probabilmente migliorerà di molto il proprio rendimento nelle prossime recite.

TurandotKristina Kolar
CalafAmadi Lagha
LiùIlona Revolskaja
TimurMarco Spotti
PingNicolò Ceriani
PangSaverio Pugliese
PongEnrico Iviglia
L’Imperatore AltoumGianluca Sorrentino
MandarinoItalo Proferisce
Prima ancellaFederica Guina
Seconda ancellaLuisella Capoccia
Il Principe di PersiaMassimo Marsi
  
DirettoreJordi Bernàcer
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaDavide Garattini Raimondi
Scene e luciPaolo Vitale
CostumiDanilo Coppola
Assistente alla regia e movimenti sceniciAnna Aiello
  
Piccoli Cantori della città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
Orchestra di fiati Giuseppe Verdi
  
Orchestra e Coro del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Turandot di Giacomo Puccini.

Venerdì 12 maggio al Teatro Verdi di Trieste “va in onda” la prima di Turandot di Giacomo Puccini e ovviamente mi sento in dovere di scrivere qualche spigolatura sull’opera per i miei happy few.
Opera amatissima e popolare Turandot, lasciata incompiuta da Puccini, che morì mentre ne stava scrivendo le ultime due scene poi completate da Franco Alfano con la supervisione di Arturo Toscanini.
Ripensando a Turandot, la prima circostanza che mi colpisce è l’indicazione temporale in cui si svolge la vicenda: al tempo delle favole, a Pekino (sì, scritto così).
Se ci pensate è molto bello, rilassante, tornare per un paio d’ore al tempo delle favole: è proprio l’essenza di ciò che dovrebbe essere il teatro, una momentanea sospensione della (e dalla) realtà che, come ben sappiamo, non è che sia poi così allegra e spensierata per nessuno.
Il libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni fu tratto da una nota fiaba di Carlo Gozzi, già messa in musica con esiti alterni da Antonio Bazzini e Ferruccio Busoni.
Le cosiddette fiabe, lo affermo da sempre, andrebbero rilette con gli occhi di un adulto perché nascondono significati simbolici piuttosto inquietanti che per fortuna da bambini non si colgono. Pensate alla produzione dei fratelli Grimm o di Hans Christian Andersen, che non a caso sono definite fiabe iniziatiche. Per fortuna mio papà si è limitato a raccontarmi Il pesciolino d’oro di Aleksandr Puškin che, come potete vedere, effetti nefasti ne ha causati non pochi (strasmile).
Comunque, la trasposizione teatrale non segue fedelmente il testo originale, tanto che per esempio il personaggio di Liù – centrale in Puccini – è inventato di sana pianta e non esiste in Gozzi. Puccini aveva ben presente le esigenze teatrali e anzi si riteneva investito della missione di scrivere solo ed esclusivamente per il teatro. Di conseguenza grandi dibattiti, tantissima corrispondenza, qualche volta spiritosa, altre pungente, con i librettisti. I librettisti, poveri, sono proprio maltrattati per default dai compositori…si pensi a Verdi e Piave o Cammarano, solo per citare un caso.
Puccini si arrovellò tanto sul finale dell’opera, scrivendo e riscrivendo la musica, scartando molti versi che gli venivano proposti dai librettisti: non trovava una quadratura che lo soddisfacesse del tutto. Purtroppo la malattia che lo minava da tempo non indugiò, invece; morì il 29 novembre del 1924 per i postumi dell’operazione a cui era stato costretto.
Per l’editore Ricordi quindi ci fu il problema di affidare a qualcuno la scrittura del finale dell’opera, sulla base degli appunti lasciati da Puccini. La vicenda è complicata, non voglio farla troppo lunga.
Il compito fu affidato a Franco Alfano, supportato (o meglio, osteggiato) da Arturo Toscanini. Il risultato è che il finale probabilmente si avvicina abbastanza all’idea di Puccini ma ne confonde lo stile compositivo, anche nella versione rivista da Toscanini.
Ancora nel 2002 Ricordi affidò a un compositore contemporaneo la stesura di un altro finale. Luciano Berio, a parer mio, fece un gran lavoro proprio perché volle differenziare la “sua” musica da quella di Puccini. Ma queste sono speculazioni personali e perciò del tutto risibili.
In cuor mio sono del parere di Toscanini, che la sera della prima rappresentazione – Teatro alla Scala, 25 aprile 1926 – interruppe l’esecuzione dopo il corteo funebre che segue la morte di Liù: sono perciò molto soddisfatto che probabilmente sarà proprio questa la soluzione che si adotterà per la prima al Verdi.
Turandot è un’opera che si stacca nettamente, a mio parere, dal resto della produzione di Puccini, tanto che in molti si sono chiesti come mai sia diventata così popolare. La risposta sta nel genio di Sor Giacomo, capace di far convivere nella partitura elementi di assoluta novità insieme a certi stilemi più tradizionali. Le parti melodiche ci sono, ma paiono quasi dejà vu o meglio illusioni di una musica ormai estinta, fagocitata dal Moloch del Novecento, il secolo della follia. Non è un caso che Webern consideri “importante” Turandot, e lo scriva al suo maestro Schönberg, padre della musica seriale.
Le percussioni hanno un’importanza fondamentale e sono usate sia a scopi coloristici sia per tingere di esotico, di quell’oriente che era ai tempi l’ultimo grido della moda, la partitura. Il coro assume le vesti di un vero personaggio, e le sorti di una buona riuscita dell’opera passano in modo rilevante proprio per il coro.
In quanto ai cantanti le difficoltà sono notevoli, soprattutto per quanto riguarda la parte della “Principessa di gelo”: scrittura ostica, acuta e difficile anche dal lato interpretativo oltre che tecnico.
Il tenore è condannato, oggi, a un Nessun dorma che si avvicini all’idea che ha la vulgata di “Vincerò”, un’aria che non è mai stata scritta (strasmile).
Liù ha difficoltà vocali moderate, ma il fraseggio e l’accento devono essere convincenti, altrimenti il personaggio ne esce insipido. Tutto sommato abbordabile la parte da basso di Timur. Decisivo il rendimento delle “maschere” o ministri Ping, Pong e Pang: se la loro prestazione non è all’altezza sono problemi seri perché reggono in modo decisivo la parte centrale dell’opera.
Ovviamente il direttore deve trovare la giusta misura, soprattutto nelle dinamiche che possono essere insidiose. Come in tutto Puccini, fondamentale è il lavoro di concertazione che deve rendere preciso il canto di conversazione.
Un paio d’anni fa mi ricordai di Turandot in un momento difficile, era il periodo del lockdown severo causato dalla pandemia.
È tutto, per ora.

Recensione seria e disperata di Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro Verdi di Trieste: O vista, o vista orribile.

Orfeo ed Euridice, qui a Trieste proposta nella versione 1762 scritta per Vienna, è un’opera di svolta nella storia del melodramma perché rappresenta – insieme ad Alceste dello stesso Gluck – quella che è ormai nota come la riforma gluckiana e cioè il rinnovamento (o il primo tentativo di agire in tal senso) dell’opera seria italiana.
Ovviamente il discorso sarebbe ampio e da circostanziare ma la recensione di uno spettacolo non è la sede adatta e perciò mi limiterò alla cronaca di una serata che ha presentato luci e ombre.
Al Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice mancava dal 2015, quando il regista Giulio Ciabatti ne allestì un pregevole allestimento.
In questa occasione la regia è stata affidata a un promettente artista triestino, Igor Pison, che a mio discutibilissimo parere ha completamente frainteso il senso dell’opera sia dal lato della pertinenza stilistica sia dal punto di vista della realizzazione della propria idea.
Da sempre sostengo che certi allestimenti polverosi e ripetitivi fanno male al teatro lirico e perciò il mio disappunto non è certo legato al fatto che Pison abbia optato per una trasposizione temporale dell’opera, trasformando Orfeo in una rock star dei giorni nostri con problemi di dipendenza.
Il problema è che il dolore per la scomparsa di una persona cara – che è quello che dà la tinta all’opera – non si affronta in lustrini e vestiti sgargianti e sguaiati, senz’altro funzionali all’idea registica ma di gusto almeno dubbio, e che tanta abbondanza di colori contraddice lo spirito austero, severo e minimalista dell’opera, che è lo snodo di una riforma che voleva evitare proprio gli eccessi interpretativi e la pletora di ornamenti barocchi e baroccheggianti degli artisti.
Inoltre, le grandi rock star sono eccentriche, esagerate negli atteggiamenti, sovrabbondanti di gigioneria, è vero, ma lo sono sul palco e non nella vita privata in cui al contrario di frequente sono insicure, ipersensibili, spesso in conflitto con se stesse e con il mondo. Ne sono esempi proprio Kurt Kobain e Amy Winehouse, loro malgrado membri del Club dei 27, che Pison cita nella presentazione del suo lavoro nel libretto di sala. Quindi avrei preferito che Orfeo, pur rimanendo una rockstar, nel momento del dolore smettesse i panni del grande incantatore di folle e si presentasse in una veste straziata di vita vera e non ancora in quella, finta e artefatta, del palcoscenico.
Perciò, col massimo rispetto del lavoro di Pison, mi chiedo: che valore aggiunto ha apportato la sua regia? Mi ha illuminato su qualcosa? Ha indagato nei rapporti tra i personaggi trovando connessioni nascoste? La risposta a tutte queste domande è no e non solo, viste le prefate considerazioni l’opera ne è uscita impoverita nel suo intimo.
Poi, certo, nel contesto dell’allestimento ho apprezzato l’impianto luci, le scene di Nicola Reichert – soprattutto nella parte “infernale” – ,  ho trovato a tratti suggestive e ben eseguite le coreografie di Lukas Zuschlag in cui i due ballerini rappresentano i Doppelgänger dei protagonisti, mentre i costumi di Manuela Paladin mi sono risultati intrinsecamente indigeribili a prescindere da qualsivoglia considerazione, con l’eccezione delle ombre grigie dell’Ade. L’interazione tra i personaggi mi è sembrata ridotta al minimo e il coro una volta di più statico, con l’eccezione della scena delle Furie.
Enrico Pagano, direttore giovane, non ha ancora trent’anni, era alla testa dell’Orchestra del Verdi opportunamente ridotta nell’organico e ha risolto solo parzialmente la plastica maestosità neoclassica, quasi oratoriale, della partitura gluckiana. La sua è stata un’interpretazione equilibrata ma generica, con dinamiche e agogiche prudenti, pacate, che hanno però appiattito una partitura che invece gronda calore e sensualità. Cito solo l’esempio del quasi recitativo Che puro ciel (eccellente l’oboe) in cui Pagano non ha certo fatto all’orchestra triestina quello che la primavera fa ai ciliegi.
Daniela Barcellona, dopo un inizio prudente, è stata protagonista di una recita in crescendo in cui ha dimostrato totale padronanza del palcoscenico, la capacità di rendere espressivi e convincenti i lunghi recitativi e che per lei le parti en travesti sono quasi il pane quotidiano. La voce è sempre morbida e vellutata, adatta alla parte e gradevole, con alcune sfumature sombre cheimpreziosiscono da sempre il timbro dell’artista triestina.
Ruth Iniesta
era nei panni di Euridice che ha interpretato con una grazia e con un sentimento che facevano a pugni con il terribile costume e la spaventosa parrucca impostale dalla regia. Brava nell’accento e nel fraseggio, il soprano è stata all’altezza anche dal punto di vista scenico e attoriale.
Olga Dyadiv si è discretamente disimpegnata nella parte di Amore, qui tratteggiato dalla regia in modo eccessivamente petulante e frivolo.
Il Coro,
vero e proprio personaggio dell’opera, ha dato ulteriore prova della propria eccellenza.
Pubblico non certo numeroso, che ha applaudito anche con timing rivedibile (a metà dell’aria Che farò senza Euridice) e che alla fine ha apprezzato tutta la compagnia artistica e in particolare Daniela Barcellona, artista di casa. Qualche contestazione per la regia, che però ha anche incassato applausi convinti.
Si replica sino a sabato prossimo, secondo me è uno spettacolo da vedere, nonostante le criticità ampiamente espresse nelle righe precedenti.

OrfeoDaniela Barcellona
EuridiceRuth Iniesta
AmoreOlga Dyadiv
  
DirettoreEnrico Pagano
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaIgor Pison
SceneNicola Reichert
CostumiManuela Paladin
CoreografieLukas Zuschlag
Ballerini solistiAlexandru Ioan Barbu, Georgeta Capriarou
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Solisti del corpo di ballo della SNG Opera in Balet Ljubliana



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro Verdi di Trieste

Venerdì 14 aprile 2023 torna al Teatro Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice di Christoph Willibald Gluck e perciò mi accingo alla consueta opera di divulgazione semiseria.
Purtroppo il tempo è tiranno e mi devo limitare a poche notizie, che però potrebbero risultare interessanti soprattutto a chi sa poco o nulla di questa “azione drammatica in tre atti”.
I protagonisti sono un contralto (Orfeo) e due soprani (Euridice e Amore). C’è un altro personaggio di primo piano non dichiarato ed è il Coro, che nella fattispecie ha importanza fondamentale.
I personaggi sono tutti simbolici e fanno parte della mitologia greca.

1) Christoph Willibald Gluck (Erasbach 2 luglio 1714 – Vienna, 15 novembre 1787) è stato un compositore tedesco.

2) Ranieri de’ Calzabigi è il librettista dell’opera, ovviamente basata sulle vicende del mito di Orfeo, che da sempre ha ispirato legioni di artisti di tutte le arti. Personaggio dalla vita a dir poco avventurosa, passò dalla condanna per “veneficio” a Napoli alla carica di consigliere alla Camera dei Conti dei Paesi Bassi a Vienna. Chi mi conosce sa che una persona così è un mio idolo assoluto.

3) La riforma gluckiana (argomento che meriterebbe quei 2-3 anni di approfondimenti, strasmile) in sostanza è il tentativo di rinnovamento dell’opera seria italiana del Settecento. Per la successiva Alceste, che davvero realizzò in toto la riforma, Ranieri de’ Calzabigi scrisse una prefazione in cui “spiegava” le motivazioni della sua ansia rinnovatrice. Qui un estratto significativo:

Quando presi a far musica dell’Alceste mi proposi si spogliarla affatto di tutti quegli abusi che, introdotti o dalla mal intesa vanità dei Cantanti, o dalla troppa compiacenza de’Maestri, da tempo sfigurano l’Opera Italiana, e del più pomposo e bello degli spettacoli, ne fanno il più ridicolo e il più noioso.

4) Di Orfeo ed Euridice esistono ben quattro versioni “ufficiali”.
La “versione Vienna”, che debuttò nel 1762 appunto al Burghtheater di Vienna e che, credo, è quella che vedremo a Trieste.
C’è poi la versione del 1774 per Parigi, che differisce dalla prima perché è in francese e per l’aggiunta di arie per i protagonisti, brani corali e danze (indispensabili a quei tempi a…Paris, e non per motivi particolarmente nobili, strasmile). Orfeo, in questo caso, è cantato da un tenore haute-contre (contraltino). Il motivo è dovuto al fatto che i francesi mal digerivano i castrati (è la prima volta in vita mia che sono d’accordo con un francese, diciamolo).
Terza in ordine di tempo è la “versione Berlioz” del 1859, in cui per il protagonista si scelse la vocalità contraltile per la presenza della celeberrima Pauline Viardot.
Infine la “versione Ricordi”, una specie di fritto misto su testo della versione del 1774 tradotta in italiano con aggiunte dalla versione Berlioz.

5) Alla prima la parte di Orfeo fu interpretata dal famoso castrato Gaetano Guadagni.
Per fortuna i castrati non esistono più da tempo, ma ovviamente il motivo per cui negli anni la parte di Orfeo è stata affidata a baritoni, tenori, controtenori, mezzosoprani e contralti è da ricercarsi soprattutto alla decisione, comune a quei tempi, di affidare la parte a un cantore evirato.

Questo è tutto, almeno per il momento, perché sabato sarà il momento della consueta recensione più seria.

Un saluto a tutti, alla prossima!

La Grande Messe des morts di Hector Berlioz a Lubiana.

A Lubiana è cominciato, ieri sera, un marzo particolarmente interessante dal punto di vista musicale.
Il protagonista è stato e sarà Charles Dutoit il quale, alla verde età di 87 anni, dirigerà cinque concerti sul podio dell’Orchestra Filarmonica Slovena con cui ha un rapporto continuativo.
Il primo appuntamento prevedeva l’esecuzione della fantasmagorica Grande messe des morts di quel compositore eccentrico, visionario e geniale che risponde al nome di Hector Berlioz.
Questo lavoro mastodontico, composto nel 1837, cambiò, diciamo così, destinazione d’uso; nelle intenzioni doveva essere dedicato alla memoria di un soldato, il Maresciallo Mortier, ma poi per ragioni politiche l’opera fu indirizzata a onorare la memoria di un altro militare, il Generale Damrémont: insomma, così narrano le cronache del tempo.
Resta il fatto che si tratta di una composizione folle – giustamente definita qualche volta come un vero e proprio Requiem di cui segue il testo liturgico – che fa riconsiderare a chi l’ascolta per la prima volta il concetto di fortissimo, tanta è la potenza di decibel esplosa da una compagine che fa scomparire anche le orchestre tardo romantiche richieste per un Mahler o uno Strauss.
In alcuni momenti la musica ha poco di quel raccoglimento tipico della musica sacra e anzi sembra quasi a puntare a effetti spettacolari, come se Berlioz volesse autoincensare il proprio ego eccentrico. In altre occasioni, invece, pare davvero di essere immersi nell’Empireo e anche la scartatrice di caramelle vicina di posto assume le sembianze di un angelo.
Ho contato circa 140 artisti del coro, o meglio dei quattro cori che hanno cantato che trovate in locandina: il loro rendimento, soprattutto per quanto riguarda la parte femminile, è stato superlativo.
Eccellente anche la prova della Filarmonica Slovena, ma purtroppo – non so se sia dipeso dalla mia collocazione in parterre, l’acustica del Cankarjev Dom è peculiare – spesso è stata coperta dal coro nonostante Dutoit sollecitasse archi e legni in modo veemente.
Ma si tratta di fisime da critico, perché comunque resteranno nella mia memoria di ascoltatore appassionato il tenebroso attacco degli archi gravi nel Dies irae, la dirompente potenza delle percussioni nel Tuba mirum, il meraviglioso supporto dei flauti nell’Offertorium, il tremolo degli archi nel Sanctus – forse il momento più riuscito della serata, in cui ho apprezzato molto la bellissima voce del tenore David Jagodic, posto in alto in galleria quasi fosse un angelo dal cielo – e, soprattutto, il soave incanto del coro femminile che canta a cappella il Quaerens me.
In galleria erano inoltre disposte due sezioni di ottoni che, nonostante le ovvie difficoltà logistiche dovute alla lontananza dal podio, sono intervenute con efficacia.
Pubblico numeroso, attento e partecipe, che alla fine ha tributato un trionfo colossale alla serata con un quarto d’ora di applausi e ripetute chiamate al proscenio per tutti.

Hector BerliozGrande Messe des Morts
  
DirettoreCharles Dutoit
TenoreDavid Jagodic
  
Orchestra Filarmonica Slovena
Coro dell’Orchestra Filarmonica Slovena
Coro da camera Ave
Coro della Filarmonica di Monaco
Coro Virtuosi del Festival

Recensione de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini al Teatro Verdi di Trieste: una buona compagnia artistica onora l’opera di Bellini che mancava a Trieste da quasi cinquanta anni.

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la allocazione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (che mancavano a Trieste dal 1974, quando Giulietta fu una sfolgorante Katia Ricciarelli) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Nell’allestimento pensato da Arnaud Bernard, più volte recensito da OperaClick, la vicenda si svolge in una pinacoteca in cui si stanno svolgendo restauri. Gli operai vanno e vengono, spostano quadri, lavorano con gli strumenti del mestiere, fanno le pulizie. I quadri, prevalentemente in stile rinascimentale – molto bella la scena finale, con i protagonisti letteralmente incorniciati in un suggestivo gioco di luci – raccontano anche della storia degli sfortunati amanti veronesi.
L’idea non è particolarmente originale –  i tableaux vivants si vedono con una certa frequenza anche nel teatro di prosa – e funziona sino a un certo punto per un motivo molto semplice: troppo spesso i prefati lavoratori vagano per il palcoscenico e, detta fuori dai denti, sviano l’attenzione dalla musica, soprattutto all’inizio. Per il resto l’allestimento è di discreto livello, per quanto le interazioni tra i personaggi siano appena accennate e i costumi soffrano di cromatismi opachi poco valorizzati da un impianto luci piuttosto monotono.
Ma Bellini esprime se stesso nella musica, in quelle melodie lunghe amate da Wagner e Verdi, e da questo punto di vista la serata si può considerare riuscita tout court.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in ottima forma – brillanti tra l’altro le prestazioni delle prime parti, Paolo Rizzuto (corno), Marco Masini (clarinetto) e Matteo Salizzoni (violoncello) – è stato capace di ricreare quell’atmosfera onirica che è sempre presente in Bellini senza rendere il flusso sonoro sfilacciato o monotono, circostanze che affliggono spesso le esecuzioni belliniane dovute all’equivoco che tutto si possa risolvere con le prestazioni dei cantanti. Al contrario, se c’è un compositore che ha bisogno di nerbo e corpo orchestrale questo è proprio Bellini, solo così la compagnia di canto può respirare con l’orchestra e trovare gli accenti più corretti per le melodie di cui sopra.
Caterina Sala, da me recentemente ammirata come Nannetta all’inaugurazione della Fenice di Venezia, conferma qui di avere le doti per essere una belcantista di razza. Le manca solo ancora un po’ di maturità artistica, di esperienza, vista la giovane età. Però la sua Giulietta commuove ed è cantata con gusto e pertinenza stilistica, voce adatta alla parte, acuti facili, filati di scuola, legato impeccabile e fraseggio curato. La grande aria Oh quante volte è risolta con efficacia ed eloquenza anche nel bellissimo recitativo che la precede. Giustificato e meritato l’applauso a scena aperta che le ha tributato il pubblico. Inoltre è parso evidente l’affiatamento con Laura Verrecchia nei duetti (in cui davvero gli echi di Norma sono evidenti) e ha recitato con compostezza e intelligenza.
Romeo è notoriamente una parte difficile per tanti motivi: è lunga, piuttosto acuta ma soprattutto impegnativa dal lato interpretativo perché Romeo è personaggio ardimentoso e al contempo morbido negli slanci d’affetto. Il mezzosoprano ha vinto la sfida con grande autorevolezza grazie a una voce sonora, smagliante nel registro centrale e sicura negli acuti. Essenziale anche la capacità di essere eloquente senza troppe forzature veriste che con Bellini non c’entrano nulla. Anche per lei, in questa parte en travesti serotina, applausi a scena aperta più che giustificati.
Tebaldo, personaggio ingrato perché canta pochino e deve subito superare lo scoglio di un’aria famosa (È serbata a questo acciaro) che si presta a confronti ingenerosi, è stato intrepretato con garbo e sicurezza da Marco Ciaponi, tenore giovane e in ascesa che ha il grande pregio di essere sempre pertinente nell’accento e nello stile. Bellini si canta con grazia e sentimento, e gli slanci testosteronici sono del tutto inopportuni.
Bravo il solido Emanuele Cordaro (Lorenzo) e tutto sommato sufficiente anche la prova di Paolo Battaglia, Capellio forse non perfettamente a fuoco dal lato vocale ma efficace da quello scenico.
Bene il Coro, come sempre preparato da Paolo Longo.
Successo indiscutibile per questa prima, con il pubblico – teatro abbastanza affollato, ma non esaurito – che ha lungamente applaudito tutta la compagnia artistica e ha riservato un trionfo a Caterina Sala e Laura Verrecchia.

GiuliettaCaterina Sala
RomeoLaura Verrecchia
TebaldoMarco Ciaponi
CapellioPaolo Battaglia
LorenzoEmanuele Cordaro
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaArnaud Bernard
SceneAlessandro Camera
CostumiCarla Ricotti
LuciPaolo Mazzon
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, da venerdì 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste.

A causa della mostra fotografica, ancora in essere perché prorogata a “furor di popolo” di una settimana, questa presentazione arriva solo il giorno prima della recita: me ne scuso con i miei happy few, ma le mie energie sono limitate (smile).

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la distribuzione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Ma quali sono le caratteristiche dell’opera, che debutterà venerdì prossimo 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste?
Innanzitutto la prevalenza delle parti femminili, perché persino la parte di Romeo è affidata a un mezzosoprano en travesti. Il tenore (Tebaldo) ha una parte difficile ma non particolarmente lunga, il basso (Capellio) è poco più che un comprimario. La situazione fa presagire che questa è opera da primadonna, Giulietta, appunto.
Assolutamente imprescindibile la presenza di un buon direttore (ma quando non lo è?) perché gli equilibri dinamici (più che agogici, a mio parere) sono fragilissimi.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (per brevità) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Conosco già l’allestimento che sarà proposto al Verdi perché l’ho visto alla Fenice di Venezia nel 2015: in quell’occasione non mi soddisfò per nulla ma ho la mente aperta, per cui magari rivisto in altro contesto e con interpreti diversi può essere che la situazione cambi radicalmente.
Lo sapremo, come sempre, dopo la recensione.

La musica espressionista: ovvero della mia mostra fotografica personale.

L’urlo di Edvard Munch
Lo sguardo rosso di Arnold Schönberg

Anche le peggiori catastrofi possono succedere: infatti, lunedì prossimo 6 febbraio ci sarà il vernissage della mia mostra fotografica intitolata “La musica espressionista”. A seguire il testo che ho scritto per la presentazione dell’evento (una volta gli eventi erano cose serie strasmile)

La musica espressionista

Erwartung e Pierrot Lunaire sono due “opere liriche” di Arnold Schönberg, compositore che è considerato il fondatore dell’espressionismo musicale. Da questi lavori ho elaborato la mostra fotografica che si snoda in due percorsi diversi.
Ho voluto trattare Erwartung per quello che è, una composizione musicale e perciò i titoli equivalgono a termini che si leggono nelle partiture. Nella seconda serie dedicata a Pierrot Lunaire, i titoli delle foto – tradotti in italiano – sono gli stessi dei Lied nel testo originale. Fa eccezione solo l’ultimo scatto, che è una mia interpretazione.
Nella esposizione che state per vedere è indispensabile seguire l’ordine cronologico delle foto per capire la narrazione (o almeno provarci!).
Le immagini sono una mia esegesi – tutt’altro che didascalica o calligrafica – di due vicende differenti. Ognuno trovi la propria chiave di lettura, perché l’Arte (non certo la mia, bensì quella di Schönberg) è in continuo movimento: parla in modo diverso a ciascuno di noi.
Quando, nei primi anni del Novecento, la musica era tutta “una gelida manina” e le ipertrofiche orchestre tardo romantiche erano una prassi – si pensi agli immensi organici di Mahler, Strauss e non solo – arrivò Arnold Schönberg insieme a una bella compagnia che comprendeva, tra gli altri, Anton Webern e Alban Berg. Il compositore austriaco mise tutto in un metaforico frullatore, miscelò per bene e ne uscì una musica che, al tempo, sembrò indigeribile e lo rimane ancora per quota parte non irrilevante del pubblico odierno. Pochi strumenti, canto declamato quando non parlato (Sprechgesang: cantar parlando, il contrario del recitar cantando), dissonanze anche sgradevoli, atonalità, nessuna melodia, pochissimo lirismo.
Erwartung (1909) e Pierrot Lunaire (1912) sono due tra le più famose sue composizioni: la prima in un atto, uno psicodramma la cui onirica ed esile trama sembra quasi scritta su testo di Freud, che pochi anni prima aveva pubblicato “L’interpretazione dei sogni”: una donna vestita di bianco cerca in un oscuro bosco il suo uomo (marito, compagno?) e tra simboli e paure alla fine lo trova.
La seconda un allucinato melologo in cui una persona disagiata vestita da Pierrot (nella mia interpretazione una donna en travesti, visto che la parte è scritta per voce femminile recitante) prova ogni sorta di esperienze. Due testi traumatici e non uso questo aggettivo a caso, perché in tedesco Traum – dal greco τραῦμα, ferita – significa sogno.
Il fil rouge che unisce i due lavori è l’alienazione, il rifiuto e il conflitto con se stessi, l’ambiguità, la distorsione dell’anima e le conseguenti immagini evocate.
“L’Arte è un campanello d’allarme”, sosteneva il compositore. E visto ciò che accadde pochi anni dopo nel mondo, direi che la definizione è tutt’altro che peregrina. Con queste due “opere liriche” Schönberg contribuì alla diffusione della koinè dell’Espressionismo, temperie culturale che attraversò sì la Musica ma anche la Pittura (Munch, Kandinskij, Klee) e non solo.
Buona visione, anzi, buon viaggio.

Paolo Bullo

Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: le pulsioni sessuali inibite alla meta portano a disastri.

Opera ricca di simboli, di oscuri presagi, notturna, livida, piena di atmosfere oniriche e di pulsioni sessuali inibite alla meta: queste sono le caratteristiche che danno il mood al Macbeth di Verdi tratto dalla tragedia di Shakespeare. È da qui che bisogna partire per capire la brama di potere e di sangue che avvolge e distrugge la coppia protagonista e la rende perfetto archetipo della banalità del male.
Non c’è interpretazione registica che prescinda da queste considerazioni e non vale solo per la lirica, ma anche per il cinema; si pensi al film di Orson Welles o dell’adattamento in stile giapponese del Trono di sangue di Akira Kurosawa.
Al Teatro Verdi di Trieste è stato ripreso dopo dieci anni lo storico allestimento restaurato da Benito Leonori – le scene sono di Josef Svoboda –  e diretto da Henning Brockhaus, con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Sinceramente non ricordo se siano state apportate modifiche allo spettacolo, ma di certo nel caso non sono risultate sostanziali. Per questo motivo riporto ciò che scrissi a suo tempo anche se, obiettivamente – sarà l’età, mia intendo – le lunghe pause e gli intervalli per i cambi di scena mi sono parsi assai invadenti: tre ore e mezza per Macbeth sono davvero tante.


Brockhaus lavora per sottrazione, con pochi elementi scenici e molte buone idee coniuga felicemente l’esigenza di evidenziare il lato onirico e psicanalitico del dramma, che è ovunque striato di incubi e allucinazioni, contrapponendolo a una specie di manovalanza meccanica del male che mi ha ricordato l’incedere narrativo di qualche film di Michael Haneke in cui la malvagità diventa folle normalità.
Tutto è pervaso da un’atmosfera di malato e tetro erotismo, di gusto quasi gotico alla quale contribuiscono anche le interessanti proiezioni, lo splendido impianto luci (sempre di Brockhaus) e gli scarni ma funzionali costumi di Nanà Cecchi. La chiave di lettura della regia balza agli occhi all’entrata della Lady, la quale striscia sul palco, mi verrebbe da dire, strega tra le streghe.
Streghe che sono ossessivamente presenti (anche con acrobatiche evoluzioni aeree), veri e propri personaggi del dramma com’è sacrosanto che sia.
Mi sento di fare solo un appunto alla regia, e cioè la scelta di far leggere il testo della lettera da entrambi i protagonisti  – espediente non nuovissimo peraltro, da Strehler in poi – interpretati da voci registrate, ma siamo proprio a livello di sensibilità personali. L’allestimento, nel complesso, tradisce l’età (l’originale nasce nel 1995) solo per i cambi scena piuttosto lunghi che tendono a smorzare un po’ l’attenzione.

Fabrizio Maria Carminati, ben noto e apprezzato a Trieste, è uno degli ultimi custodi della nobile tradizione esecutiva italiana e anche in questa circostanza ne ha dato prova evidente. L’Orchestra del Verdi – eccellente in tutte le sezioni – ha nel DNA quel quid che risponde al nome di suono verdiano, ma le dinamiche sono sembrate spesso attenuate e uniformi. Il che, tanto per intendersi, è pur sempre meglio di clangori ed esplosioni bandistiche che con la musica di Verdi non c’entrano nulla. Forse, ma potrebbe essere che la mia infelice collocazione in un angolo in terza fila incida sul mio parere, al Macbeth di Carminati sono mancati un po’ di sangue, un pizzico di pancia, una spruzzata di ruvidezza. Del resto alle prime è spesso così, il direttore prende le misure ed eventualmente apporta aggiustamenti.
Straordinaria la prova del Coro, assai impegnato anche scenicamente, che ha cantato in modo splendido nonostante gli ormai cronici problemi di organico. Paolo Longo, alla testa del coro triestino, può essere più che soddisfatto del suo lavoro.

Ho trovato buona Silvia Dalla Benetta nella parte della diabolica Lady. Il soprano negli ultimi anni ha cambiato repertorio assecondando la naturale evoluzione del suo strumento. La pasta vocale è però pur sempre quella di soprano leggero di coloratura e di conseguenza le agilità di forza richieste dalla parte sono sembrate non proprio fluide ma comunque convincenti. Il registro centrale è sontuoso, gli acuti ancora brillanti ma con meno “punta” di un tempo. Però, e dal mio punto di vista è ciò che conta, la sua Lady emoziona per il coinvolgimento scenico e lo scavo sulla parola. Lo sleepwalking mi è sembrato riuscito, caratterizzato da un fraseggio mobilissimo e da colori cangianti del timbro che a volte – opportunamente – assumeva connotazioni infantili, come di una donna in preda a un’angosciante regressione psicologica.
Convincente anche il rendimento di Giovanni Meoni il quale, pur arrivando affaticato al finale della grande aria del quarto atto, ha creato un personaggio credibile nella sua pavida dipendenza dalla consorte che, come noto, lo manovra in modo spietato. Meoni è nel pieno della maturità artistica e perciò a proprio agio anche in una recitazione rattenuta e minimalista che ben si attaglia a una parte ombrosa, cupa, che il baritono completa con un canto sommesso e sussurrato.



Ragguardevole la prova di Dario Russo, che ha interpretato con voce da vero basso verdiano il personaggio di Banco; l’artista è sembrato a proprio agio anche dal lato scenico nella bellissima scena dell’agguato e nelle successive apparizioni.
Molto bravo Antonio Poli nei panni, sempre piuttosto difficili da indossare, di Macduff. Tutti aspettano l’aria del quarto atto, che il tenore ha portato a termine con efficacia nell’acuto finale ma facendosi apprezzare anche nel recitativo.
Sufficiente Gianluca Sorrentino, Malcolm corretto ma meno incisivo del solito.
Bene i coprotagonisti: Cinzia Chiarini (Dama della Lady) e Francesco Musinu (Medico) che con i loro pertichini hanno dato ulteriore tensione alla scena del sonnambulismo.
Le parti minori, che trovate in locandina, sono state al pari dei numerosi mimi e figuranti all’altezza di una serata che ha raccolto un notevole successo in un teatro pressoché esaurito.

MacbethGiovanni Meoni
Lady MacbethSilvia Dalla Benetta
MacduffAntonio Poli
BancoDario Russo
Dama di Lady MacbethCinzia Chiarini
MalcolmGianluca Sorrentino
MedicoFrancesco Musinu
Domestico di Macbeth/ApparizioneDamiano Locatelli
Sicario/ApparizioneGiuliano Pelizon
AraldoFrancesco Paccorini
  
ApparizioniIsabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella, Crisanthi Narain
  
DirettoreFabrizio Maria Carminati
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaHenning Brockhaus
SceneJosef Svoboda
Ricostruzione dell’allestimento scenicoBenito Leonori
CostumiNanà Cecchi
CoreografieValentina Escobar
  
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro



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