Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La musica espressionista: ovvero della mia mostra fotografica personale.

L’urlo di Edvard Munch
Lo sguardo rosso di Arnold Schönberg

Anche le peggiori catastrofi possono succedere: infatti, lunedì prossimo 6 febbraio ci sarà il vernissage della mia mostra fotografica intitolata “La musica espressionista”. A seguire il testo che ho scritto per la presentazione dell’evento (una volta gli eventi erano cose serie strasmile)

La musica espressionista

Erwartung e Pierrot Lunaire sono due “opere liriche” di Arnold Schönberg, compositore che è considerato il fondatore dell’espressionismo musicale. Da questi lavori ho elaborato la mostra fotografica che si snoda in due percorsi diversi.
Ho voluto trattare Erwartung per quello che è, una composizione musicale e perciò i titoli equivalgono a termini che si leggono nelle partiture. Nella seconda serie dedicata a Pierrot Lunaire, i titoli delle foto – tradotti in italiano – sono gli stessi dei Lied nel testo originale. Fa eccezione solo l’ultimo scatto, che è una mia interpretazione.
Nella esposizione che state per vedere è indispensabile seguire l’ordine cronologico delle foto per capire la narrazione (o almeno provarci!).
Le immagini sono una mia esegesi – tutt’altro che didascalica o calligrafica – di due vicende differenti. Ognuno trovi la propria chiave di lettura, perché l’Arte (non certo la mia, bensì quella di Schönberg) è in continuo movimento: parla in modo diverso a ciascuno di noi.
Quando, nei primi anni del Novecento, la musica era tutta “una gelida manina” e le ipertrofiche orchestre tardo romantiche erano una prassi – si pensi agli immensi organici di Mahler, Strauss e non solo – arrivò Arnold Schönberg insieme a una bella compagnia che comprendeva, tra gli altri, Anton Webern e Alban Berg. Il compositore austriaco mise tutto in un metaforico frullatore, miscelò per bene e ne uscì una musica che, al tempo, sembrò indigeribile e lo rimane ancora per quota parte non irrilevante del pubblico odierno. Pochi strumenti, canto declamato quando non parlato (Sprechgesang: cantar parlando, il contrario del recitar cantando), dissonanze anche sgradevoli, atonalità, nessuna melodia, pochissimo lirismo.
Erwartung (1909) e Pierrot Lunaire (1912) sono due tra le più famose sue composizioni: la prima in un atto, uno psicodramma la cui onirica ed esile trama sembra quasi scritta su testo di Freud, che pochi anni prima aveva pubblicato “L’interpretazione dei sogni”: una donna vestita di bianco cerca in un oscuro bosco il suo uomo (marito, compagno?) e tra simboli e paure alla fine lo trova.
La seconda un allucinato melologo in cui una persona disagiata vestita da Pierrot (nella mia interpretazione una donna en travesti, visto che la parte è scritta per voce femminile recitante) prova ogni sorta di esperienze. Due testi traumatici e non uso questo aggettivo a caso, perché in tedesco Traum – dal greco τραῦμα, ferita – significa sogno.
Il fil rouge che unisce i due lavori è l’alienazione, il rifiuto e il conflitto con se stessi, l’ambiguità, la distorsione dell’anima e le conseguenti immagini evocate.
“L’Arte è un campanello d’allarme”, sosteneva il compositore. E visto ciò che accadde pochi anni dopo nel mondo, direi che la definizione è tutt’altro che peregrina. Con queste due “opere liriche” Schönberg contribuì alla diffusione della koinè dell’Espressionismo, temperie culturale che attraversò sì la Musica ma anche la Pittura (Munch, Kandinskij, Klee) e non solo.
Buona visione, anzi, buon viaggio.

Paolo Bullo

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Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: le pulsioni sessuali inibite alla meta portano a disastri.

Opera ricca di simboli, di oscuri presagi, notturna, livida, piena di atmosfere oniriche e di pulsioni sessuali inibite alla meta: queste sono le caratteristiche che danno il mood al Macbeth di Verdi tratto dalla tragedia di Shakespeare. È da qui che bisogna partire per capire la brama di potere e di sangue che avvolge e distrugge la coppia protagonista e la rende perfetto archetipo della banalità del male.
Non c’è interpretazione registica che prescinda da queste considerazioni e non vale solo per la lirica, ma anche per il cinema; si pensi al film di Orson Welles o dell’adattamento in stile giapponese del Trono di sangue di Akira Kurosawa.
Al Teatro Verdi di Trieste è stato ripreso dopo dieci anni lo storico allestimento restaurato da Benito Leonori – le scene sono di Josef Svoboda –  e diretto da Henning Brockhaus, con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Sinceramente non ricordo se siano state apportate modifiche allo spettacolo, ma di certo nel caso non sono risultate sostanziali. Per questo motivo riporto ciò che scrissi a suo tempo anche se, obiettivamente – sarà l’età, mia intendo – le lunghe pause e gli intervalli per i cambi di scena mi sono parsi assai invadenti: tre ore e mezza per Macbeth sono davvero tante.


Brockhaus lavora per sottrazione, con pochi elementi scenici e molte buone idee coniuga felicemente l’esigenza di evidenziare il lato onirico e psicanalitico del dramma, che è ovunque striato di incubi e allucinazioni, contrapponendolo a una specie di manovalanza meccanica del male che mi ha ricordato l’incedere narrativo di qualche film di Michael Haneke in cui la malvagità diventa folle normalità.
Tutto è pervaso da un’atmosfera di malato e tetro erotismo, di gusto quasi gotico alla quale contribuiscono anche le interessanti proiezioni, lo splendido impianto luci (sempre di Brockhaus) e gli scarni ma funzionali costumi di Nanà Cecchi. La chiave di lettura della regia balza agli occhi all’entrata della Lady, la quale striscia sul palco, mi verrebbe da dire, strega tra le streghe.
Streghe che sono ossessivamente presenti (anche con acrobatiche evoluzioni aeree), veri e propri personaggi del dramma com’è sacrosanto che sia.
Mi sento di fare solo un appunto alla regia, e cioè la scelta di far leggere il testo della lettera da entrambi i protagonisti  – espediente non nuovissimo peraltro, da Strehler in poi – interpretati da voci registrate, ma siamo proprio a livello di sensibilità personali. L’allestimento, nel complesso, tradisce l’età (l’originale nasce nel 1995) solo per i cambi scena piuttosto lunghi che tendono a smorzare un po’ l’attenzione.

Fabrizio Maria Carminati, ben noto e apprezzato a Trieste, è uno degli ultimi custodi della nobile tradizione esecutiva italiana e anche in questa circostanza ne ha dato prova evidente. L’Orchestra del Verdi – eccellente in tutte le sezioni – ha nel DNA quel quid che risponde al nome di suono verdiano, ma le dinamiche sono sembrate spesso attenuate e uniformi. Il che, tanto per intendersi, è pur sempre meglio di clangori ed esplosioni bandistiche che con la musica di Verdi non c’entrano nulla. Forse, ma potrebbe essere che la mia infelice collocazione in un angolo in terza fila incida sul mio parere, al Macbeth di Carminati sono mancati un po’ di sangue, un pizzico di pancia, una spruzzata di ruvidezza. Del resto alle prime è spesso così, il direttore prende le misure ed eventualmente apporta aggiustamenti.
Straordinaria la prova del Coro, assai impegnato anche scenicamente, che ha cantato in modo splendido nonostante gli ormai cronici problemi di organico. Paolo Longo, alla testa del coro triestino, può essere più che soddisfatto del suo lavoro.

Ho trovato buona Silvia Dalla Benetta nella parte della diabolica Lady. Il soprano negli ultimi anni ha cambiato repertorio assecondando la naturale evoluzione del suo strumento. La pasta vocale è però pur sempre quella di soprano leggero di coloratura e di conseguenza le agilità di forza richieste dalla parte sono sembrate non proprio fluide ma comunque convincenti. Il registro centrale è sontuoso, gli acuti ancora brillanti ma con meno “punta” di un tempo. Però, e dal mio punto di vista è ciò che conta, la sua Lady emoziona per il coinvolgimento scenico e lo scavo sulla parola. Lo sleepwalking mi è sembrato riuscito, caratterizzato da un fraseggio mobilissimo e da colori cangianti del timbro che a volte – opportunamente – assumeva connotazioni infantili, come di una donna in preda a un’angosciante regressione psicologica.
Convincente anche il rendimento di Giovanni Meoni il quale, pur arrivando affaticato al finale della grande aria del quarto atto, ha creato un personaggio credibile nella sua pavida dipendenza dalla consorte che, come noto, lo manovra in modo spietato. Meoni è nel pieno della maturità artistica e perciò a proprio agio anche in una recitazione rattenuta e minimalista che ben si attaglia a una parte ombrosa, cupa, che il baritono completa con un canto sommesso e sussurrato.



Ragguardevole la prova di Dario Russo, che ha interpretato con voce da vero basso verdiano il personaggio di Banco; l’artista è sembrato a proprio agio anche dal lato scenico nella bellissima scena dell’agguato e nelle successive apparizioni.
Molto bravo Antonio Poli nei panni, sempre piuttosto difficili da indossare, di Macduff. Tutti aspettano l’aria del quarto atto, che il tenore ha portato a termine con efficacia nell’acuto finale ma facendosi apprezzare anche nel recitativo.
Sufficiente Gianluca Sorrentino, Malcolm corretto ma meno incisivo del solito.
Bene i coprotagonisti: Cinzia Chiarini (Dama della Lady) e Francesco Musinu (Medico) che con i loro pertichini hanno dato ulteriore tensione alla scena del sonnambulismo.
Le parti minori, che trovate in locandina, sono state al pari dei numerosi mimi e figuranti all’altezza di una serata che ha raccolto un notevole successo in un teatro pressoché esaurito.

MacbethGiovanni Meoni
Lady MacbethSilvia Dalla Benetta
MacduffAntonio Poli
BancoDario Russo
Dama di Lady MacbethCinzia Chiarini
MalcolmGianluca Sorrentino
MedicoFrancesco Musinu
Domestico di Macbeth/ApparizioneDamiano Locatelli
Sicario/ApparizioneGiuliano Pelizon
AraldoFrancesco Paccorini
  
ApparizioniIsabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella, Crisanthi Narain
  
DirettoreFabrizio Maria Carminati
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaHenning Brockhaus
SceneJosef Svoboda
Ricostruzione dell’allestimento scenicoBenito Leonori
CostumiNanà Cecchi
CoreografieValentina Escobar
  
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro



Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che debutterà venerdì 27 gennaio al Teatro Verdi di Trieste si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che io amo particolarmente. In questo longform (che è il modo figo di dire lenzuolata) troverete molte citazioni da testi antichi; noterete errori di ortografia, che ho voluto lasciare perché così compaiono negli originali.
Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile). Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h05 circa, per chi volesse vedere questo momento incredibile.

L’immagine bellissima ma terrificante della “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti. In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare. Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:

Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand

Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:

Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar

Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”

In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry, anche se la mia preferita è quella matta di Elena Suliotis.



Quindi (ri)vedere il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia che, sia detto per inciso, fu turbata anche dal film “Il trono di sangue” di Kurosawa, che del Macbeth è un adattamento cinematografico.
Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.

  1. Macbeth (Felice Varesi)
  2. Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)
  3. Banco (Nicola Benedetti)
  4. Macduff (Angelo Brunacci)

Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti.

Macbeth

Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”.
Inoltre:
Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere.
Se il Cigno di Busseto avesse ancora degli artisti della sua intelligenza, non direbbe con tanta fermezza di non voler più scrivere.
A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth.
Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.

Lady Macbeth

Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti.
La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina.
Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:

S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.

Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti.
Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:

Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.

Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile).
Ora, mi chiedo, ovviamente scherzando, Silvia Dalla Benetta – la Lady di questa produzione triestina – avrà una voce brutta a sufficienza per cantare questa parte (strasmile)?

Lo strano dittico Pagliacci/Al mulino ottiene un buon successo al Teatro Verdi di Trieste. Al mulino, opera di Ottorino Respighi in prima mondiale, è una piacevole sorpresa.

Ultimo appuntamento della stagione del Verdi – è stato aggiunto in luglio un estemporaneo Pipistrello, probabilmente per dare un contentino agli appassionati dell’operetta -, il dittico Pagliacci/Al mulino si è rivelato interessante e coinvolgente. Unica criticità, a mio parere, l’eccessiva lunghezza della serata che si è conclusa a mezzanotte.
Forse il teatro di una città che sta diventando turistica dovrebbe prendere esempio proprio dal modello di Venezia a cui, a torto o ragione, si ispira apertamente e programmare l’inizio degli spettacoli almeno un’ora prima del classico orario delle 20.30, o perlomeno farlo quando la durata supera le tre ore.
Pagliacci di Leoncavallo mancava dal teatro triestino da vent’anni e perciò vale la pena, credo, spendere due parole su quest’opera che un’intera generazione di autoctoni non ha potuto vedere sul palcoscenico di casa.
Fortunatissima da subito, Pagliacci all’esordio a Milano il 21 maggio 1892 beneficiò della direzione di Arturo Toscanini e l’aria più famosa, Vesti la giubba, fu incisa in tempi pioneristici (1903) da Enrico Caruso per la casa statunitense Victor, vendendo qualcosa come un milione di copie.
Erano i tempi in cui cavalcando l’onda del successo di Cavalleria rusticana di Mascagni si componevano opere con soggetti ispirati – a dire il vero con una certa libertà – al movimento culturale del Verismo. Giordano, Cilea, Mascagni e, tirandolo per i capelli, anche Puccini in parte della sua produzione sono da considerarsi compositori veristi.
Personaggi di basso stato spesso sordidi e marginali, ambientazioni fortemente legate a territori specifici, vicende cruente, sono le caratteristiche salienti dell’opera verista.
Nei Pagliacci convergono numerose anime. Può essere vista come un grande esperimento di metateatro, con il famoso Prologo che ci spiega come “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mentre lo svilupparsi la vicenda ci dice il contrario. E, del resto, sembra che per quanto artatamente mascherato il fatto di sangue – l’ennesimo femminicidio e un omicidio – di cui si narra sia realmente accaduto in un paesino calabrese.
Ruggero Leoncavallo, wagneriano fradicio, prese dal nume tutelare la convinzione che un compositore dovesse scrivere il libretto per la sua musica e infatti così è per Pagliacci. Ma se Wagner è ermetico, visionario, criptico ed elegiaco nei suoi versi, al contrario Leoncavallo è diretto, sanguigno, astutamente volgare nel suo libretto. E altrettanto empatica, emotivamente coinvolgente è la sua musica che asseconda e rinforza le parole forti dei versi.
Valerio Galli, sul podio di un’Orchestra del Verdi che si è ben disimpegnata in tutte le sezioni, ha interpretato la partitura con equilibrio e in linea con la regia di Victor Garcia Sierra, a sua volta ben supportata dai costumi tradizionali e colorati di Giada Masi, dalle scene di Paolo Vitale e dall’impianto luci di Stefano Gorreri : i contrasti dinamici e agogici intensi ma calibrati hanno dato rilievo sia ai momenti più tragici sia alle brevi oasi liriche dell’opera. Non è, Pagliacci, opera da salotti raffinati bensì da polverose piazze popolari; il suono rude, grasso ed epidermico è uno stile, come nelle rozze fotografie di strada di Bruce Gilden che immortalano un’umanità borderline stravolta da un flash sparato in faccia.
Nella regia, ridondante solo nelle proiezioni iniziali e con qualche sospetto di horror vacui qua e là, si ritrova tutto ciò che nell’immaginario collettivo deve esserci in uno spettacolo di strada itinerante: donne barbute, figuranti con i trampoli, giostre e accalcarsi di persone col tasso alcolico elevato immerse in un microclima sociale che palesa disagio ed emarginazione. C’è chi vuole qualcosa di più, come Nedda e Silvio, chi ci sguazza come Canio e chi, come Tonio, contribuisce con rabbia a inchiodare a terra le aspirazioni degli altri per vendicarsi di una natura che gli è stata matrigna.
In questo senso, Devid Cecconi colora il suo Tonio con la disperata prepotenza di un personaggio di Dostoevskij: non si può salvare il mondo con la bellezza? Beh, allora portiamolo al livello più sordido con l’abominio morale e l’odio. Un’interpretazione intensa, alla quale il baritono aggiunge una vocalità straripante ma controllata e una recitazione misurata nei gesti e nella mimica.
Valeria Sepe, voce di soprano che si espande negli acuti, è una Nedda minuta e fragile che si fa amare per il suo tragico e inesausto desiderio di guardare le stelle anche se immersa nel fango. Si concede non a Silvio, ma al miraggio di una vita migliore.
Amadi Lagha è un Canio di tradizione, sobrio nella recitazione in una parte che si presterebbe a eccessi e dotato di voce di buon volume e colore mediterraneo. Gli manca, forse, una personalità artistica più marcata che renda incisivo il fraseggio, ma il personaggio è risolto compiutamente.
Senza due bravi interpreti di Silvio e Beppe Pagliacci è monca e l’accorato Min Kim interpreta bene il sogno di Nedda allo stesso modo dell’elegante Blagoj Nacoski nell’insidiosa parte dell’Arlecchino. Completavano dignitosamente il cast Damiano Locatelli e Francesco Paccorini.
Molto bene il Coro, purtroppo ancora costretto alla mascherina, ed eccellente la prova dei ragazzini del coro di voci bianche.
Successo pieno per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio da un pubblico magari non foltissimo ma partecipe.
Dopo un lungo intervallo è stata la volta della sofferta opera di Ottorino Respighi, Al mulino, rimasta incompiuta. Nel libretto di sala si spiega con dovizia di particolari quali sono state le strategie e le motivazioni di Paolo Rosato e Fabrizio Da Ros – sul podio dell’orchestra in questa prima mondiale – per completare dopo più di un secolo la partitura. Un lavoro ancora in fieri, a detta dei prefati protagonisti.
Dal mio punto di vista l’opera soffre di qualche lungaggine e di un libretto un po’ troppo verboso nel linguaggio, ma questa prima uscita mi ha convinto perché la musica è coinvolgente nella sua enfatica solennità che non affonda mai nelle melmose spiagge della magniloquenza stentorea.
La vicenda è semplice e si svolge In Russia ai primi del Novecento in una famiglia contadina disagiata, dove un padre padrone (Anatolio) maltratta per ignoranza e maschile paternalismo spinto la giovane figlia Aniuska la quale, ovviamente, si innamora di un ribelle oppositore del regime zarista, Sergio. Nicola, operaio segretamente innamorato della bella mugnaia, non vuole in alcun modo che la giovane realizzi il suo sogno e fa il delatore rivelando all’ordine costituito il nascondiglio del fuggitivo Sergio. Aniuska sbrocca alla grande e annega tutti, buoni e cattivi, nelle acque del fiume che alimenta il mulino.
Ed è appunto il mulino protagonista della messinscena di Daniele Piscopo, che firma appunto regia, scene e costumi. Allestimento pienamente riuscito nella sua relativa semplicità, che con la sua cupezza incombente macina i sentimenti dei protagonisti e accompagna una musica spesso tetra, violenta e minacciosa dall’incessante incedere.
I cantanti, “costretti” a un declamato teso e agitato, sono stati tutti all’altezza della situazione sia dal lato vocale sia da quello scenico ma, almeno dalla mia posizione, alcuni sono sembrati sottodimensionati per volume perché l’orchestra è parsa davvero un muro difficile da superare.
A Domenico Balzani non fa certo difetto il volume e con la sua interpretazione ha dato rilievo al viscido Nicola.
Zi Zhao Guo (Sergio) è uscito tutto sommato bene da una parte tenorile che mi è sembrata impervia, mentre Afag Abbasova-Budagova Nurahmed (Aniuska), brava dal lato attoriale, ha palesato i limiti di una voce forse troppo esile e ha risolto il personaggio per impegno e partecipazione emotiva.
Ancora brillante Blagoj Nacoski (Ufficiale) e accettabile, ma meno centrata, la prestazione di Min Kim nei panni del crudele Anatolio. Funzionale allo spettacolo il rendimento di Cristian Saitta (Pope), Anna Evtekhova (Maria) e Giuliano Pelizon (Soldato), mentre nella breve ma impegnativa parte tenorile (“Solo”) è stato eccellente Francesco Cortese. Buona la prova del Coro.
Fabrizio Da Ros ha diretto con grande pathos la compagine triestina, anche in questa occasione brillante, ed è riuscito a trasmettere quella sensazione angosciosa di catastrofe imminente che mi pare la cifra distintiva dell’opera.
Alla fine anche in questo caso il pubblico ha applaudito tutta la compagnia artistica, decretando così un franco successo a questa nuova produzione del Verdi.

Pagliacci
  
Canio/PagliaccioAmadi Lagha
Nedda/ColombinaValeria Sepe
Tonio/TaddeoDevid Cecconi
Beppe/ArlecchinoBlagoj Nacoski
SilvioMin Kim
Un contadinoDamiano Locatelli
Altro contadinoFrancesco Paccorini
  
DirettoreValerio Galli
Maestro del coroPaolo Longo
RegiaVictor Garcia Sierra
ScenePaolo Vitale
CostumiGiada Masi
LuciStefano Gorreri
  
Coro dei Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro
  
Al mulino
  
AniuskaAfag Abbasova-Bugadova Nurahmed
NicolaDomenico Balzani
SergioZi Zhao Guo
PopeCristian Saitta
AnatolioMin Kim
MariaAnna Evtekhova
SoloFrancesco Cortese
SoldatoGiuliano Pelizon
  
DirettoreFabrizio Da Ros
Regia, scene e costumiDaniele Piscopo
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  




La top ten degli articoli del 2021 su Di tanti pulpiti.

Siamo ai saluti con il 2021, perciò tocca il rito degli articoli più letti su questo blog giurassico che, nonostante ormai ci siano più social media che varianti Covid-19 (strasmile), continua a essere letto e frequentato. Ovviamente compaiono anche articoli degli anni precedenti, a conferma che il blog è vivo!
Non mi dilungo su altre situazioni, che probabilmente meriterebbero qualche riflessione non banale, e mi limito ad augurare a tutti un felicissimo anno nuovo.

1. Macbeth alla Scala di Milano

2. Fidelio alla Fenice di Venezia

3. Considerazioni sulla musica barocca

4. Intervista a Federico Maria Sardelli

5. La scomparsa del Maestro Gianluigi Gelmetti

6. Concerto della violinista Francesca Dego

7. Recital del tenore Jonas Kaufmann a Lubiana

8. L’annosa polemica con Il Piccolo, quotidiano di Trieste

9. Paolo Isotta, chi era costui?

10. Il barbiere di Siviglia a Trieste

Le chiavi di ricerca più strane – i termini che portano in questi lidi i lettori – sono al solito esilaranti.
Ne segnalo qualcuno: si va da “gabbiano assassino” a “Gloria Swanson viale del tramonto”, da “Alberto Mattioli cena a due” a “Aida Verona elefanti” sino a “acconciature brutte” e “seduta spiritica”.
Non so che dire, ancora auguri a tutti!

 

La Top 10 degli articoli del 2018.

Anche quest’anno siamo ai titoli di coda e perciò si impone (si fa per dire) il solito post di chiusura in cui evidenzio gli articoli più letti nel corso del 2018.
Intanto desidero ringraziare tutti i fedelissimi lettori perché si soffermano a leggere le mie recensioni o altro: sono scritte in un italiano stentato, inutilmente prolisse e autoreferenziali (strasmile). Credo che – nonostante tutto – la famosa cloaca a cielo aperto chiamata Facebook in qualche modo mi favorisca perché in quella sede la gente fa di peggio: non è facile, ma ci riescono agevolmente (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Recensione semiseria de I puritani di Bellini al Teatro Verdi di Trieste: Gene Simmons dei Kiss cerca di nascondersi tra le damigelle, ma viene riconosciuto subito.

Già alla generale di mercoledì avevo percepito qualche stranezza tra le damigelle della corte degli Stuart, ma solo ieri, alla prima, sono riuscito a realizzare cosa mi solleticava la fantasia. Ebbene sì, tra le pudiche castellane s’era intrufolato il trasgressivo Gene Simmons dei Kiss. Non mi sfugge nulla (strasmile) e proprio non riesco a essere serio, soprattutto. Abbiate pazienza (smile).
Segnalo anche che lo spostamento delle rotative fuori Trieste ha portato un beneficio ai lettori del quotidiano Il Piccolo: quest’anno non ci è stata inflitta l’umiliazione di leggere la recensione sul giornale un minuto dopo la fine dello spettacolo: no xe un mal senza un ben, si dice in vernacolo (strasmile).

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Il sonno della ragione genera mostri, ma anche il letargo del corpo non è granché.

Come alcuni dei miei happy few sanno, quando sono andato alla Risiera di Trieste per corredare di alcune foto l’articolo per la Giornata della Memoria sono incorso in uno spiacevole incidente.

Mai distrarsi!

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Il flauto magico al Teatro Verdi di Trieste: animali fantastici e dove trovarli. Superman compreso.

Die Zauberflöte ossia Il flauto magico di Mozart mancava dal Teatro Verdi di Trieste da vent’anni. Ieri sera il ritorno, gustoso per molti versi.
Come potrete leggere più avanti, a buona parte del pubblico la regia di Valentina Carrasco non è piaciuta. Succede. Peccato che la Carrasco stessa non l’abbia presa benissimo, per usare un eufemismo (strasmile).
Voglio dire, postulare a gesti una generale infedeltà dei partner del pubblico – correttamente senza distinzioni di genere, va detto – non è proprio il massimo (strasmile).
Tra l’altro suggerisco alla regista una collocazione più coerente di Nembo Kid: poteva farlo intervenire quando c’era in scena la cabina telefonica, no? Almeno si spiegava – visto che il minilocale era occupato dalla Regina della notte – la precipitosa fuga del supereroe dietro le quinte.
cabinasuperman

Le cose migliori però si sono viste in platea e nel foyer all’intervallo, perché io e un’amica (ciao Maria Teresa) che abbiamo perso la dignità da tempo immemorabile abbiamo mimato i movimenti dei robottini/fanciulli tra gli sguardi più preoccupati che divertiti dei giurassici spettatori della prima. È stato uno spettacolo orribile al quale un altro amico pusillanime (ciao Paolo) ha voluto colpevolmente sottrarsi. E sì che pure lui, quanto a dignità, non ha molto da perdere.
Personalmente mi sono sempre sentito come un animale – sentimento condiviso da chiunque mi conosca –  ma da oggi mi sento anche di attribuirmi l’aggettivo fantastico. Da qui il triste titolo di questo post che sarà apprezzato, credo, per affinità animalesca elettiva da molti dei lettori di questa tana…ehm…blog.
Insomma, alla prossima e un saluto a tutti!entrata-papa Leggi il resto dell’articolo

Amfortas vede gente e fa cose.

Questo è un post diverso dal solito, nel senso che si parla sì di musica ma – e non ricordo di averlo fatto altre volte – c’è pure una mia foto. Non una foto qualsiasi e ora vi spiego.
Un paio di giorni fa il Sindaco di Trieste, Roberto Dipiazza, ha deciso con gesto autonomo di levare lo striscione con  la scritta “Verità per Giulio Regeni” che faceva bella mostra di sé sul balcone del municipio in Piazza Unità. Dice, il Signor Sindaco, che c’era assuefazione visiva e che perciò quel simbolo non era più efficace. A dire il vero ha affermato anche – con una certa eleganza –  che lo striscione era un dente cariato e che ha voluto toglierselo.  Ovviamente c’è stata una vera e propria sollevazione da parte di molti cittadini, anche di coloro che hanno votato per l’attuale Sindaco.
Il quotidiano Il Piccolo è uscito con la prima pagina che rappresentava il volantino di Amnesty International appunto raffigurato sullo striscione.
Ho pensato: Io cosa posso fare? Ma non mi veniva nulla, e sì che sono un creativo mica da poco (strasmile).
Ieri sera c’era il concerto per la stagione sinfonica, però, e allora ho deciso così, d’emblée, che avrei potuto pacificamente manifestare il mio dissenso per la scellerata decisione. Perciò mi sono stampato il volantino e, con la manualità straordinaria che mi distingue me lo sono appiccicato alla giacca con tre graffette. E me ne sono andato in teatro come se niente fosse a esercitare il mio diritto/dovere di critico musicale.paolo-2
Come potete leggere su La Classica Nota, non è stata una serata esaltante, ma io sono uscito da teatro ugualmente soddisfatto.
Un saluto a tutti, alla prossima.

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