Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini al Teatro Verdi di Trieste: una buona compagnia artistica onora l’opera di Bellini che mancava a Trieste da quasi cinquanta anni.

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la allocazione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (che mancavano a Trieste dal 1974, quando Giulietta fu una sfolgorante Katia Ricciarelli) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Nell’allestimento pensato da Arnaud Bernard, più volte recensito da OperaClick, la vicenda si svolge in una pinacoteca in cui si stanno svolgendo restauri. Gli operai vanno e vengono, spostano quadri, lavorano con gli strumenti del mestiere, fanno le pulizie. I quadri, prevalentemente in stile rinascimentale – molto bella la scena finale, con i protagonisti letteralmente incorniciati in un suggestivo gioco di luci – raccontano anche della storia degli sfortunati amanti veronesi.
L’idea non è particolarmente originale –  i tableaux vivants si vedono con una certa frequenza anche nel teatro di prosa – e funziona sino a un certo punto per un motivo molto semplice: troppo spesso i prefati lavoratori vagano per il palcoscenico e, detta fuori dai denti, sviano l’attenzione dalla musica, soprattutto all’inizio. Per il resto l’allestimento è di discreto livello, per quanto le interazioni tra i personaggi siano appena accennate e i costumi soffrano di cromatismi opachi poco valorizzati da un impianto luci piuttosto monotono.
Ma Bellini esprime se stesso nella musica, in quelle melodie lunghe amate da Wagner e Verdi, e da questo punto di vista la serata si può considerare riuscita tout court.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in ottima forma – brillanti tra l’altro le prestazioni delle prime parti, Paolo Rizzuto (corno), Marco Masini (clarinetto) e Matteo Salizzoni (violoncello) – è stato capace di ricreare quell’atmosfera onirica che è sempre presente in Bellini senza rendere il flusso sonoro sfilacciato o monotono, circostanze che affliggono spesso le esecuzioni belliniane dovute all’equivoco che tutto si possa risolvere con le prestazioni dei cantanti. Al contrario, se c’è un compositore che ha bisogno di nerbo e corpo orchestrale questo è proprio Bellini, solo così la compagnia di canto può respirare con l’orchestra e trovare gli accenti più corretti per le melodie di cui sopra.
Caterina Sala, da me recentemente ammirata come Nannetta all’inaugurazione della Fenice di Venezia, conferma qui di avere le doti per essere una belcantista di razza. Le manca solo ancora un po’ di maturità artistica, di esperienza, vista la giovane età. Però la sua Giulietta commuove ed è cantata con gusto e pertinenza stilistica, voce adatta alla parte, acuti facili, filati di scuola, legato impeccabile e fraseggio curato. La grande aria Oh quante volte è risolta con efficacia ed eloquenza anche nel bellissimo recitativo che la precede. Giustificato e meritato l’applauso a scena aperta che le ha tributato il pubblico. Inoltre è parso evidente l’affiatamento con Laura Verrecchia nei duetti (in cui davvero gli echi di Norma sono evidenti) e ha recitato con compostezza e intelligenza.
Romeo è notoriamente una parte difficile per tanti motivi: è lunga, piuttosto acuta ma soprattutto impegnativa dal lato interpretativo perché Romeo è personaggio ardimentoso e al contempo morbido negli slanci d’affetto. Il mezzosoprano ha vinto la sfida con grande autorevolezza grazie a una voce sonora, smagliante nel registro centrale e sicura negli acuti. Essenziale anche la capacità di essere eloquente senza troppe forzature veriste che con Bellini non c’entrano nulla. Anche per lei, in questa parte en travesti serotina, applausi a scena aperta più che giustificati.
Tebaldo, personaggio ingrato perché canta pochino e deve subito superare lo scoglio di un’aria famosa (È serbata a questo acciaro) che si presta a confronti ingenerosi, è stato intrepretato con garbo e sicurezza da Marco Ciaponi, tenore giovane e in ascesa che ha il grande pregio di essere sempre pertinente nell’accento e nello stile. Bellini si canta con grazia e sentimento, e gli slanci testosteronici sono del tutto inopportuni.
Bravo il solido Emanuele Cordaro (Lorenzo) e tutto sommato sufficiente anche la prova di Paolo Battaglia, Capellio forse non perfettamente a fuoco dal lato vocale ma efficace da quello scenico.
Bene il Coro, come sempre preparato da Paolo Longo.
Successo indiscutibile per questa prima, con il pubblico – teatro abbastanza affollato, ma non esaurito – che ha lungamente applaudito tutta la compagnia artistica e ha riservato un trionfo a Caterina Sala e Laura Verrecchia.

GiuliettaCaterina Sala
RomeoLaura Verrecchia
TebaldoMarco Ciaponi
CapellioPaolo Battaglia
LorenzoEmanuele Cordaro
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaArnaud Bernard
SceneAlessandro Camera
CostumiCarla Ricotti
LuciPaolo Mazzon
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
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Divulgazione semiseria dell’opera lirica: I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, da venerdì 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste.

A causa della mostra fotografica, ancora in essere perché prorogata a “furor di popolo” di una settimana, questa presentazione arriva solo il giorno prima della recita: me ne scuso con i miei happy few, ma le mie energie sono limitate (smile).

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la distribuzione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Ma quali sono le caratteristiche dell’opera, che debutterà venerdì prossimo 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste?
Innanzitutto la prevalenza delle parti femminili, perché persino la parte di Romeo è affidata a un mezzosoprano en travesti. Il tenore (Tebaldo) ha una parte difficile ma non particolarmente lunga, il basso (Capellio) è poco più che un comprimario. La situazione fa presagire che questa è opera da primadonna, Giulietta, appunto.
Assolutamente imprescindibile la presenza di un buon direttore (ma quando non lo è?) perché gli equilibri dinamici (più che agogici, a mio parere) sono fragilissimi.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (per brevità) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Conosco già l’allestimento che sarà proposto al Verdi perché l’ho visto alla Fenice di Venezia nel 2015: in quell’occasione non mi soddisfò per nulla ma ho la mente aperta, per cui magari rivisto in altro contesto e con interpreti diversi può essere che la situazione cambi radicalmente.
Lo sapremo, come sempre, dopo la recensione.

La musica espressionista: ovvero della mia mostra fotografica personale.

L’urlo di Edvard Munch
Lo sguardo rosso di Arnold Schönberg

Anche le peggiori catastrofi possono succedere: infatti, lunedì prossimo 6 febbraio ci sarà il vernissage della mia mostra fotografica intitolata “La musica espressionista”. A seguire il testo che ho scritto per la presentazione dell’evento (una volta gli eventi erano cose serie strasmile)

La musica espressionista

Erwartung e Pierrot Lunaire sono due “opere liriche” di Arnold Schönberg, compositore che è considerato il fondatore dell’espressionismo musicale. Da questi lavori ho elaborato la mostra fotografica che si snoda in due percorsi diversi.
Ho voluto trattare Erwartung per quello che è, una composizione musicale e perciò i titoli equivalgono a termini che si leggono nelle partiture. Nella seconda serie dedicata a Pierrot Lunaire, i titoli delle foto – tradotti in italiano – sono gli stessi dei Lied nel testo originale. Fa eccezione solo l’ultimo scatto, che è una mia interpretazione.
Nella esposizione che state per vedere è indispensabile seguire l’ordine cronologico delle foto per capire la narrazione (o almeno provarci!).
Le immagini sono una mia esegesi – tutt’altro che didascalica o calligrafica – di due vicende differenti. Ognuno trovi la propria chiave di lettura, perché l’Arte (non certo la mia, bensì quella di Schönberg) è in continuo movimento: parla in modo diverso a ciascuno di noi.
Quando, nei primi anni del Novecento, la musica era tutta “una gelida manina” e le ipertrofiche orchestre tardo romantiche erano una prassi – si pensi agli immensi organici di Mahler, Strauss e non solo – arrivò Arnold Schönberg insieme a una bella compagnia che comprendeva, tra gli altri, Anton Webern e Alban Berg. Il compositore austriaco mise tutto in un metaforico frullatore, miscelò per bene e ne uscì una musica che, al tempo, sembrò indigeribile e lo rimane ancora per quota parte non irrilevante del pubblico odierno. Pochi strumenti, canto declamato quando non parlato (Sprechgesang: cantar parlando, il contrario del recitar cantando), dissonanze anche sgradevoli, atonalità, nessuna melodia, pochissimo lirismo.
Erwartung (1909) e Pierrot Lunaire (1912) sono due tra le più famose sue composizioni: la prima in un atto, uno psicodramma la cui onirica ed esile trama sembra quasi scritta su testo di Freud, che pochi anni prima aveva pubblicato “L’interpretazione dei sogni”: una donna vestita di bianco cerca in un oscuro bosco il suo uomo (marito, compagno?) e tra simboli e paure alla fine lo trova.
La seconda un allucinato melologo in cui una persona disagiata vestita da Pierrot (nella mia interpretazione una donna en travesti, visto che la parte è scritta per voce femminile recitante) prova ogni sorta di esperienze. Due testi traumatici e non uso questo aggettivo a caso, perché in tedesco Traum – dal greco τραῦμα, ferita – significa sogno.
Il fil rouge che unisce i due lavori è l’alienazione, il rifiuto e il conflitto con se stessi, l’ambiguità, la distorsione dell’anima e le conseguenti immagini evocate.
“L’Arte è un campanello d’allarme”, sosteneva il compositore. E visto ciò che accadde pochi anni dopo nel mondo, direi che la definizione è tutt’altro che peregrina. Con queste due “opere liriche” Schönberg contribuì alla diffusione della koinè dell’Espressionismo, temperie culturale che attraversò sì la Musica ma anche la Pittura (Munch, Kandinskij, Klee) e non solo.
Buona visione, anzi, buon viaggio.

Paolo Bullo

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste

Direi che in prossimità del Macbeth di Giuseppe Verdi che debutterà venerdì 27 gennaio al Teatro Verdi di Trieste si può cominciare a dare il solito sguardo sbilenco a questo straordinario capolavoro che io amo particolarmente. In questo longform (che è il modo figo di dire lenzuolata) troverete molte citazioni da testi antichi; noterete errori di ortografia, che ho voluto lasciare perché così compaiono negli originali.
Dovete sapere che il giovane Amfortas da ragazzino era rimasto colpito dalle immagini del film di Orson Welles, che evidentemente devo aver visto in televisione una di quelle sere nelle quali non andai a dormire subito dopo Carosello, dal momento che dubito fortemente che l’abbiano passato al cinema dell’oratorio salesiano (smile). Nel film la scena dello sleepwalking – quella appunto che m’è rimasta tanto impressa – è da 1h05 circa, per chi volesse vedere questo momento incredibile.

L’immagine bellissima ma terrificante della “maschera” di Jeanette Nolan ha disturbato frequentemente le mie notti. In particolare m’impressionò la scena che poi, nell’opera di Verdi, è descritta nell’aria “Una macchia è qui tuttora” e cioè il momento in cui la Lady vede le sue mani sporche di un sangue che non riesce a lavare. Già prima il suo consorte Macbeth propone la metafora del mare e del sangue. Questi i versi di Shakespeare:

Will all great Neptune’s ocean wash this blood clean from my hand

Che nel libretto di Piave (e Maffei) diventa:

Non potrebbe l’Oceano queste mani a me lavar

Ma, chissà perché, a me fece più impressione la donna che si sfregava le mani, allucinata. Nel libretto del Macbeth verdiano la frase è “Chi poteva in quel vegliardo tanto sangue immaginar?”

In questa scena di sonnambulismo regna sovrana e credo che continuerà a farlo per sempre Maria Callas, che proprio non posso fare a meno di proporre, nonostante che in questa parte si siano poi distinte anche altre cantanti: dalla Gencer alla Scotto, dalla Nilsson alla Bumbry, anche se la mia preferita è quella matta di Elena Suliotis.



Quindi (ri)vedere il Macbeth è per me particolarmente emozionante, perché trovo sia una delle opere migliori di Verdi e anche perché mi ricorda la mia lontanissima infanzia che, sia detto per inciso, fu turbata anche dal film “Il trono di sangue” di Kurosawa, che del Macbeth è un adattamento cinematografico.
Fatta questa inutile premessa, ecco i principali protagonisti della prima rappresentazione di Macbeth, il 14 marzo 1847 a Firenze.

  1. Macbeth (Felice Varesi)
  2. Lady Macbeth (Marianna Barbieri-Nini)
  3. Banco (Nicola Benedetti)
  4. Macduff (Angelo Brunacci)

Vale la pena approfondire un minimo le personalità dei due protagonisti.

Macbeth

Il creatore del ruolo fu Felice Varesi, del quale apprendiamo dai sacri testi che era “basso, tarchiato, un po’ sbilenco” e che aveva una voce “vibrante, sonora e pastosa”.
Inoltre:
Fu istruito nelle belle lettere, nella matematica, nella fisica, nel disegno, nell’architettura, nelle lingue, e tra’ Maestri ebbe il celebre Abate Pozzoni. Dotato d’una voce baritonale agile, pastosa, robusta, intuonata, imparò il canto, e l’autunno 1834 esordi col Furioso e il Torquato al Teatro di Varese, nell’ Eden della Lombardia, ove in quella stagione sono raccolti i più bei fiori e le menti più squisite e gentili della Capitale. Non sapremmo quale città d’Italia non l’abbia udito e apprezzato, poichè pel volgere d’anni moltissimi ei mai non ebbe un momento di tregua, dall’uno all’altro teatro passando. Anche la Spagna, anche il Portogallo, anche Parigi lo reputarono sommo nel tragico, nel semi-serio, nel giulivo, nel buffonesco, attribuendogli la duplice e rara qualità di cantante attore. Coppola scrisse per esso Giovanna I, e Verdi lo volle a protagonista delle principali sue Opere.
Se il Cigno di Busseto avesse ancora degli artisti della sua intelligenza, non direbbe con tanta fermezza di non voler più scrivere.
A Varesi stesso si rivolge Verdi in una famosa lettera, nella quale spiega dettagliatamente come interpretare il personaggio di Macbeth.
Il celebre baritono poi legò il suo nome a due opere della trilogia popolare di Verdi: Rigoletto e Traviata, anche se nella parte di Giorgio Germont non ebbe, alla prima, un grande successo e anzi fu considerato concausa del tonfo all’esordio.

Lady Macbeth

Della terribile Marianna Barbieri-Nini ho già parlato più volte, ma giova riprenderne in questo caso i tratti salienti.
La Marianna Barbieri-Nini fu un soprano di fama pari solo alla sua bruttezza, poverina.
Giuseppina Strepponi, la seconda moglie di Verdi, la omaggiò di questo sintetico e viperino parere:

S’ella ha trovato marito non può disperar più nessuna di trovarlo.

Oddio, bellissima non era di certo, almeno a giudicare dalla documentazione disponibile, ma evidentemente era anche molto brava, tanto che fu la prima interprete di parti monstre come Lucrezia Contarini nei Due Foscari e della diabolica Lady nel Macbeth, sempre di Verdi, oltre che di numerose opere di Donizetti.
Francesco Regli, (autore del libro dal titolo più lungo del mondo e cioè Dizionario biografico dei più celebri poeti ed artisti melodrammatici, tragici e comici, maestri, concertisti, coreografi, mimi, ballerini, scenografi, giornalisti, impresari, ecc. ecc. che fiorirono in Italia dal 1800 al 1860.) la gratifica, tra gli altri complimenti, di questo giudizio:

Acclamatissima cantante fiorentina padre era impiegato alla Corte del Gran Duca di Toscana Il Maestro Cav Luigi Barbieri iniziolla il primo alla musica ea andò gloriosa d avere ad auspici e precettori una Giuditta Pasta il Vaccaj Dopo il felicissimo esperimento di due Teatri nel carnovale 1839 40 andò alla Scala di Milano ove apparve sotto spoglie d Antonina nel Belisario L Impresa si era sbagliata scelta del suo dèbut e poi per la ragione di tenerla a suoi stipendi non doveva esporre sopra scene di tanta esigenza una giovane principiante Non è dunque a maravigliare se la Barbieri ebbe la peggio L Appalto intanto da cui dipendeva anzichè sorreggerla la disanimò costringendola persino a cantare alla Ca nobbiana fra un atto e l altro della Commedia Però la Barbieri non si è prostrata sotto il pondo della sua sventura e fatti valere i suoi diritti in tribunale ne usci vincitrice si sciolse da quel malaugurato contratto e incominciò una nuova èra sotto gli auspici di Alessandro Lanari Da quell epoca non sapremmo quale Teatro non la festeggiasse in Italia ed all Estero Vi fu un momento nella professione musicale che non si parlava che della Barbieri La sua stupenda voce i suoi arditi slanci il suo esteso repertorio la resero per moltissimi anni la delizia e il sostegno dei Pubblici e degli Impresarii L Accademia di Santa Cecilia di Roma il Liceo di Belle Arti e la Filarmonica di Firenze tante altre accreditate Accademie la fecero loro Socia e il Gran Duca di Toscana la creò sua Cantante di camera Il Maestro Mabellini scrisse per essa Il Conte di Lavagna Giuseppe Verdi due Foscari Giovanni Pacini il Lorenzino de Medici Non sappiamo perchè da qualche tempo la si lasci oziosa nella sua nativa Firenze mentre potrebbe ancora prestare alle scene utili servigi.

Il fatto è che Verdi stesso scrisse che la sua Lady Macbeth doveva essere brutta e cattiva, dotata di una voce aspra, soffocata, cupa. E quindi la Barbieri-Nini, evidentemente, in questi panni faceva – come si suol dire elegantemente – la sua porca figura (smile).
Ora, mi chiedo, ovviamente scherzando, Silvia Dalla Benetta – la Lady di questa produzione triestina – avrà una voce brutta a sufficienza per cantare questa parte (strasmile)?

Festoso Concerto di fine anno al Teatro Verdi di Trieste. Teatro esaurito, ed è una bella notizia.

Il Concerto di fine anno del Verdi di Trieste, ultimo atto di un 2022 difficile, è stato un successo e, soprattutto, ha visto il ritorno del pubblico che ha gremito il teatro in ogni ordine di posti e ha applaudito tutta la compagnia artistica con convinzione. Probabilmente il dato saliente della serata è questo, il resto sono bazzecole, quisquilie e pinzillacchere, come diceva Totò.
Dopo una breve introduzione del Sovrintendente Giuliano Polo, che ha ringraziato le maestranze e le istituzioni e del Sindaco Roberto Dipiazza che ha professato ottimismo per il futuro della città e del teatro, è cominciato il concerto.
Il programma era, come sempre in queste circostanze, piuttosto incoerente nella scelta dei brani, ma qua e là è trapelato qualche richiamo alle radici storiche di Trieste, centro della Mitteleuropa. Sarebbe bello che questi concerti celebrativi fossero più legati al territorio, soprattutto nei casi di città come Trieste, appunto, che può vantare una multiculturalità e una storia singolari e comunque diversa da altre realtà italiane. Non si tratterebbe di provincialismo, anzi, ma di una virtuosissima operazione di recupero del patrimonio culturale locale.
Sul podio dell’Orchestra del Verdi, ieri in gran spolvero e affiancata dal Coro della fondazione preparato da Paolo Longo, ha ben figurato Pietro Rizzo il quale, nonostante il sopra segnalato programma eterogeneo che trovate in locandina, ha guidato con mano sicura la compagine triestina.
Rizzo si è disimpegnato con sicurezza tra le atmosfere un po’ decadenti dell’Austria felix (Johann Strauss jr. Lehár, von Suppé), che richiedono vaporosa leggerezza, alle più dense atmosfere della musica russa (Ciajkovskij, Rachmaninov) passando per il goliardico e spumeggiante Offenbach, il drammatico Bizet di Carmen e l’etereo Delibes di Lakmé. E tanto altro, perché non sono mancati Verdi, Puccini, Leoncavallo, il nordico Grieg, il sensuale Lara di Granada, il brillante valzer “da camera” di Arditi e il brio spensierato del musical (My fair lady).
La compagnia di canto era composta da giovani con l’eccezione di una cantante nella piena maturità artistica, il mezzosoprano Marina Comparato che ha dato un gustoso e impegnativo assaggio del suo repertorio attuale. Nata come belcantista nel senso più classico (Rossini, Mozart e non solo) Marina Comparato ha assecondato con attenzione l’evoluzione del suo strumento e ora si affaccia a parti più drammatiche, come Eboli e Carmen. Ottima l’intesa con il soprano nel “duetto dei fiori” da Lakmé e brillante il rendimento nell’aria di Orlowsky. L’esperienza scenica consente alla Comparato di “entrare” nel personaggio con pochi gesti e sguardi che fanno subito teatro anche in un concerto senza costumi.
Brava la spumeggiante Mariam Battistelli, che nonostante la giovane età ha messo in risalto, anche dal lato scenico, tutte le sue qualità di soprano leggero. Ottima intonazione, facilità nella salita agli acuti, assieme a una indubbia comunicativa gioiosa nel canto sono state le sue carte vincenti.
Riccardo Della Sciucca, 27 anni, ha una bella voce di tenore lirico che gli ha consentito di superare, pur con qualche patema, arie impegnative ed esposte a ingenerosi confronti come Nessun dorma e la cavatina di Oronte da I lombardi alla prima crociata di Verdi, oltre che fare da “spalla” nei panni di Don José nella Seguidille cantata da Marina Comparato.
Il basso Viacheslav Strelkov è sembrato assai rinfrancato dopo l’esibizione del concerto natalizio. Certo, qualche problemino – soprattutto di intonazione – rimane, ma gestire una voce così importante da vero basso profondo non è facile. E sicuramente l’aria di Gremin e la cavatina di Aleko (per quanto scritta per baritono) gli si addicono meglio di parti mozartiane piuttosto acute.

Il concerto, che ha ottenuto come ho scritto all’inizio un successo strepitoso, si è chiuso con l’inevitabile bis del Brindisi dalla Traviata.

Franz von SuppéOuverture da Cavalleria leggera
Johann Strauss jr.Aria di Orlowsky da Die Fledermaus
Johann Strauss jr.Schwipslied (Annen Polka)
Jacques OffenbachGlou glou glou da Les contes d’Hoffmann
Petr Il’ic CiajkovskiAria di Gremin da Evgenij Oneghin
Giuseppe VerdiLa mia letizia infondere da I Lombardi alla prima crociata
Giuseppe VerdiNel giardin del bello da Don carlos
Luigi ArditiParla!
Edvard GriegIn the hall of the mountain King da Peer Gynt
Sergej RachmaninovVes tabar spit da Aleko
Georges BizetSur la grève en feu da Les pecheurs de perles
Augustin LaraGranada
Georges BizetSeguidille d Carmen
Franz LehárMeine Lippen da Giuditta
Léo DelibesDuetto dei fiori da Lakmé
Giacomo PucciniNessun dorma
Ruggero LeoncavalloDon, din, don suona vespero da Pagliacci
Frederick LoeweI could have danced all night da My fair lady
  
DirettorePietro Rizzo
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
SopranoMariam Battistelli
MezzosopranoMarina Comparato
TenoreRiccardo Della Sciucca
BassoViacheslav Strelkov
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  

La Top Ten degli articoli più letti nel 2022

Anche quest’anno è arrivato il momento dei bilanci per questo vecchio canuto che è Di tanti pulpiti, uno dei blog più longevi di questo disgraziato Paese.
La Top ten degli articoli più letti di quest’anno è stata influenzata (ma era prevedibile) da un piccolo successo personale; a seguire, come ormai regolarmente dal 2017, le lugubri vicende che hanno accompagnato le tristi dimissioni dal Piccolo di Trieste.
Poi Trieste, Venezia, Lubiana: i vertici del mio personale triangolo delle Bermude operistico, dove nel corso degli anni sono stati sono inghiottiti registi, cantanti, direttori.
I lettori sono prevalentemente italiani. A seguire sloveni, austriaci, americani, spagnoli, francesi.
La chiave di ricerca più usata è “Paolo Bullo”. Moltissime volte la ricerca è “recensione di TITOLO OPERA”, spesso il classico “divulgazione semiseria” e, retaggio di un passato non lontanissimo “gabbiani assassini orrida Venezia” che, ovviamente, è quella che più mi fa piacere.
Insomma, eccola qui e auguri a tutti!

La zia quantistica

Le dimissioni dal Piccolo

Mario Brunello al Teatro Verdi di Trieste

Fidelio alla Fenice di Venezia

Francesca Dego e Alessandro Taverna a Portogruaro

Boris Godunov alla Scala

Beethoven alla Società dei concerti

La PSO e Hélène Grimaud a Lubiana

Il Requiem di Verdi a Lubiana

La Winterreise a Miramare per la Società dei concerti di Trieste

Natale 2022

Dopo due anni, finalmente, ho potuto rifare oltre al tradizionale albero natalizio anche quello virtuale, in cui gli addobbi sono le locandine delle serate a teatro cui ho presenziato quest’anno. Perciò nel fare gli auguri a tutti coloro che mi seguono su questo blog ormai giurassico, ringrazio anche in ordine sparso una sparuta minoranza di compositori che hanno contribuito a rendere la mia vita migliore: Beethoven, Verdi, Wagner, Ravel, Mahler, Britten, Stravinskij, Puccini, Donizetti, Bach e Brahms in rappresentanza di tutti gli altri.

Concerto di Natale al Teatro Verdi di Trieste: poche luci e molte, troppe ombre

I concerti natalizi e di fine anno, ovunque, sono accomunati da caratteristiche simili: lo stile è nazionalpopolare, i teatri sono addobbati a festa, politici e dirigenti si esibiscono in coacervi di luoghi comuni e pagine musicali eterogenee convivono a forza in programmi insensati, il pubblico applaude più o meno coinvolto e se ne va. È stato così anche a Trieste? La risposta è ni.
Non c’era l’ombra di un politico – non è un male – non c’era alcun dirigente del teatro (male), il programma era insensato al top, il pubblico più che plaudente e stanco non c’era o quasi e quelli che c’erano hanno applaudito sì con moderazione ma anche con convinzione in alcuni casi. Il teatro era spoglio, senza decori a parte un vaso di fiori non meglio identificato a lato del palcoscenico. Ora, è pur vero che non sono un critico di addobbi natalizi e non brillo per savoir-faire, ma forse qualcosa di più si poteva fare.
Si è cominciato con una novità, o meglio, un esperimento: due brani di Giovanni Gabrieli, compositore e organista vissuto nella seconda metà del 1500 arrangiati per dodici ottoni dal Primo trombone dell’orchestra triestina: l’ottimo Domenico Lazzaroni. Risultato: rivedibile, almeno a mio gusto, che non ho colto – ignoranza mia – altro merito che l’apertura di una strada che forse potrebbe produrre risultati interessanti in altre occasioni e che è invece ampiamente percorsa in diverse realtà mitteleuropee.
L’Orchestra del Verdi, diretta fiaccamente da Jacopo Brusa, ha dato prestazioni di sé più positive. Voglio dire che se l’Intermezzo di Cavalleria annoia e non emoziona…beh, qualcosa non ha funzionato. Se L’Ouverture delle Nozze di Figaro è scivolata via piatta, al pari di una soporifera Sinfonia dal Barbiere di Siviglia qualche problema c’è stato. Sono solo esempi, ma credo che una guida più appropriata sarebbe stata utile.
C’erano poi i solisti e, spiace dirlo, il basso Viacheslav Strelkov – forse non in perfetto stato di salute, peraltro non annunciato – non è stato all’altezza di un pubblico pagante. Non ci si presenta sul palco per cantare il duettino Là ci darem la mano con lo spartito; è una mancanza di rispetto per gli spettatori di chi ha approvato una simile scelta. Sospendo il giudizio sulle altre due arie di Rossini e Mozart.
Per fortuna, subito dopo si è esibita Marina Comparato nella cavatina di Rosina e finalmente abbiamo ascoltato una cantante vera e soprattutto un’Artista in gran forma, anche se impegnata in un repertorio che ormai frequenta poco. Il mezzosoprano ha poi confermato classe e professionalità sia nella Barcarola da Les contes d’Hoffman sia nell’aria di Fenena da Nabucco, interpretate con garbo e civilissima teatralità.
Brava anche Claudia Mavilia, che ha ben impersonato Zerlina e che ha cantato diligentemente le note di Mimì, ma dell’eroina pucciniana non ha il peso vocale né la maturità artistica per affrontare la parte neanche in concerto.
Buona la prestazione di Andrea Schifaudo, accorato Nemorino e divertito Arlecchino nella Serenata da Pagliacci: voce chiara, solare, buona dizione hanno confermato un rendimento più che sufficiente.
Alla fine due bis corelliani programmati e francamente non richiesti dal pubblico ci hanno fatto ricordare, più che altro, che a Trieste non ascoltiamo il Barocco da una vita.

Recensione polemica de La bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: ovvero la critica al pubblico oltre che quella allo spettacolo

Dopo il vernissage – tutto sommato felice – di qualche settimana fa con Otello, il Teatro Verdi di Trieste ha proposto La bohème di Giacomo Puccini in una produzione della fondazione che era stata cancellata nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19.
È stata una serata particolare, che mi ha suggerito una riflessione che spero non sia banale: mi sono trovato dimezzato, come il Visconte di calviniana memoria. L’allestimento, niente più che dignitoso, mi ha catapultato nel mondo della cosiddetta tradizione senza tempo – ma anche priva di particolari meriti – e non ben definita; le voci mi hanno riportato al 2022.
Mi spiego: la regia di Carlo Antonio De Lucia è inoffensiva, c’è tutto quello che ci si aspetta in una Bohème. La soffitta, i tetti di Parigi con tanto di Torre Eiffel sullo sfondo, i giovani squattrinati che dimagriscono di sogni e speranze, un Café Momus un po’ moscio ma pur sempre vivace, la Musetta soubrette, la neve alla barrière d’Enfer e qui mi fermo perché avrete capito.
Poi si comincia a cantare e appare evidente che le voci, peraltro educate, di alcuni protagonisti sono nel solco della liricizzazione delle parti che oggi impera in tutti i teatri del mondo.
Azer Zada – che ha sostituito last minute il previsto Alessandro Scotto Di Luzio, indisposto – non si sente, soprattutto all’inizio, nonostante in buca Christopher Franklin cerchi di contenere (così mi è parso) il volume dell’orchestra.
L’unica voce davvero “pucciniana” è quella di Lavinia Bini, che infatti lo sovrasta ogni volta che ne ha l’occasione; non per cattiveria ovviamente, è proprio una questione di volume.
Il tenore poi si rinfranca – essere catapultato in una compagnia di canto non deve essere facile – ma il suo Rodolfo manca di anima, di trasporto, di passione. Di sangue. Azer Zada è corretto, non stona, ha gusto, una buona dizione, ma impersonare Rodolfo, sia detto col massimo rispetto per un giovane e promettente artista, richiede un coinvolgimento anche emozionale diverso.
Dicevo dell’allestimento: le scene sono semplici, l’impianto luci essenziale, i costumi più o meno centrati, la caratterizzazione dei personaggi tranquillizzante. Però è proprio in questo tipo di messa in scena che tutto deve essere perfetto, altrimenti si nota subito l’incongruenza. Per esempio, i versi “s’accomodi un momento” e “la prego, entri” di Rodolfo a Mimì non hanno senso se Mimì è già entrata da un pezzo. Sono troppo puntiglioso? Se calligrafismo, perdonate la parolaccia, deve essere che lo sia sino in fondo altrimenti viva le bohème ambientate sulla Luna.
Christopher Franklin ha dato una lettura che definirei prudente della partitura, molto attenta all’accompagnamento ai cantanti e alle dinamiche, un po’ pigra nelle agogiche ma comunque efficace e coinvolgente. Nell’ambito di una narrazione coerente, mi è piaciuto molto il finale, una di quelle pagine in cui il genio di Puccini è abbagliante, con l’orchestra che riprende le note del primo incontro tra Mimì e Rodolfo in un contesto drammaticamente diverso. Inoltre Franklin ha ottenuto dalla brillante Orchestra del Verdi un suono caldo e limpido al contempo, in cui anche quando gli archi spingono i legni si sentono distintamente.
Lavinia Bini, credo al debutto nella parte, è stata pienamente convincente sia dal lato vocale – fraseggio curato, attenzione alla parola scenica – sia da quello attoriale. Ottima la gestione della respirazione, che le ha consentito di legare e alleggerire le note, di “dire” con efficacia ed eloquenza. La voce è ampia, sicura nei gravi, smagliante nel registro centrale e puntuta negli acuti che si espandono in sala grazie a un’emissione di alta scuola. Una Mimì di rilievo, a tutto tondo, molto italiana per passione e smarrimenti quasi adolescenziali.
Discreto anche il rendimento della dinamica Federica Vitali, Musetta giustamente sopra le righe che forse ha gridato un po’ troppo nella scena da Momus ma che ha palesato anche affinità col canto di conversazione più sommesso nel proseguo.
Bravo Leon Kim, Marcello gagliardo, spaccone e iracondo ma anche capace di ripiegamenti riflessivi assai efficaci e dotato di voce adatta per la parte.
Più che sufficienti Fabrizio Beggi, Colline spiritoso nella sua buffa retorica ma anche umanissimo e partecipe compagno di tutti, al pari di Clemente Antonio Daliotti, Schaunard divertente nel soliloquio del pappagallo.
Interessante l’interpretazione di Alessandro Busi, che ha caratterizzato con efficacia sia l’avido Alcindoro sia l’attualissimo Benȏit.
Come sempre solido il rendimento delle parti minori che trovate in locandina e brillanti i ragazzini del coro di voci bianche, ottimo il Coro.
Alla fine successo per tutti, in particolare, mi è sembrato, per Leon Kim e Lavinia Bini.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non straripante e partecipe come dovrebbe essere per un’opera così popolare. Lo spettatore triestino è pacato, sempre inamidato, spesso fané.  A questo punto, se fossi parte del management del teatro rischierei per la prossima stagione qualche titolo desueto e/o una spruzzata di novità con allestimenti che diano una scossa culturale a noi zombie. Erwartung di Schönberg in lingua originale con sottotitoli in cinese potrebbe essere una buona scelta. Una provocazione, la mia? Sì.

La locandina

MimìLavinia Bini
RodolfoAzer Zada 
MusettaFederica Vitali
MarcelloLeon Kim
CollineFabrizio Beggi
SchanaurdClemente Antonio Daliotti
Alcindoro/BenoitAlessandro Busi
ParpignolAndrea Schifaudo
Il sergente dei doganieriDamiano Locatelli
Un doganiereGiovanni Palumbo
Un venditore ambulanteAndrea Fusari
  
DirettoreCristopher Franklin
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaCarlo Antonio De Lucia
SceneCarlo Antonio De Lucia e Alessandra Polimeno
CostumiGiulia Rivetti
  
I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste




Recensione espressa e semiseria di Boris Godunov di Musorkskij al Teatro alla Scala: Boring Godunov? No!

Consueta premessa:

Questa recensione è frutto della visione televisiva della prima scaligera, perciò attenzione: solo dal vivo uno spettacolo può essere valutato in modo completo, per ragioni tanto evidenti che non sto neanche a elencare. Detto questo, andiamo avanti.

L’apertura di stagione del Teatro alla Scala con Boris Godunov di Musorgskij non è una novità, per quanto siano passati più di quarant’anni dal 7 dicembre1979, quando Claudio Abbado era sul podio dell’orchestra milanese e Riccardo Chailly suo assistente.
In un momento storico peculiare, la riproposta di Boris Godunov mi sembra sia stato un atto di coraggio e di grande valenza socio-culturale. La Cultura dovrebbe unire, non dividere i popoli e le nazioni.
Di cosa tratta, di là della trama, il capolavoro di Musorgskij? Di Potere, della lotta per il Potere, un tema che ritroviamo spesso nel teatro scespiriano, per esempio, ma non solo. Tratta anche, sottotraccia, di rimorso e senso di colpa; parla delle angosce del popolo russo, infine. Per questo considero il Boris il contraltare in musica di quell’altro monumento della cultura russa che è Delitto e castigo di Dostoevskij.
Certo, alcune analogie col Macbeth sono evidenti, ovviamente scarnificando al massimo, sottraendo epoche e personaggi, in un lavoro che punti al sottotesto, al significato più intimo dell’opera.
Dal lato prettamente musicale, invece, sono solari le suggestioni del grand-opéra di Meyerbeer ma anche del Don Carlos di Verdi.
Il regista Kasper Holten, che si è avvalso delle imponenti scene di Es Devlin, degli altalenanti costumi di Ida Marie Ellekilde e dell’efficace impianto luci di Jonas Bøgh, mi pare abbia fatto complessivamente un buon lavoro.
Ho trovato efficace questo allestimento, a partire dalla grandiosa scena iniziale, ricca di significati metaforici poi ripresi più volte nell’arco della serata. Riuscita anche la rappresentazione dell’iconografia ortodossa. Forse qualche particolare in stile grand guignol si poteva evitare, perché i tormenti di Boris sono nella sua mente, psicologici; acclararli non ha portato ad alcun plus valore allo spettacolo. In ogni caso una regia moderna, che guarda alla tradizione ma che al contempo si adegua alle nuove (?) esigenze del teatro in musica.

La direzione di Riccardo Chailly mi è sembrata strepitosa per pertinenza stilistica e gestione delle dinamiche e delle agogiche. La tensione emotiva che innerva tutta l’opera era sempre presente, anche nei momenti più grandiosi e magari pieni di una retorica voluta e ostentata, come nelle scene di massa in cui il Coro si è reso protagonista di una prova non meno che grandiosa. Allo stesso modo sono state sottolineate con efficacia le pochissime oasi liriche della partitura e valorizzata la parte coloristica, popolare, di un’opera assolutamente straordinaria, misconosciuta e spesso bistrattata colpevolmente.
Grande prestazione dell’Orchestra della Scala, all’altezza della sua prestigiosissima fama, con gli archi morbidissimi e una menzione particolare per le percussioni.
La compagnia di canto è stata complessivamente meritevole e, senza scendere in particolari, ho trovato molto buone le prove di tutti i coprotagonisti, compresi i ragazzini del coro di voci bianche.
Eccellente il Pimen di Ain Anger, giustamente caricaturale Stanislav Trofimov nei panni di Varlaam. Bene anche l’ambiguo Sujskij di Norbert Ernst, mentre ho trovato deboli, ma accettabili, le interpreti di Fedor e Ksenija. Buona la prestazione di Yaroslav Abaimov (L’Innocente).

Ildar Abdrazakov mi è parso un ottimo Boris, che ha interpretato con gusto e realismo controllato. L’artista, che potenzialmente avrebbe potuto spingere sul pedale di una spettacolarizzazione esteriore, ha invece scelto – per fortuna – la strada di una discesa agli inferi intima, riflettuta e riflessiva, che è la vera essenza di un Boris riuscito.
Insomma, buona la prima!
(se mi è scappato qualche orrore ortografico abbiate pazienza)

DirettoreRiccardo Chailly
RegiaKasper Holten
SceneEs Devlin
CostumiIda Marie Ellekilde
LuciJonas Bøgh
Video Luke Halls
CAST
Boris Godunov
Ildar Abdrazakov
Fëdor
Lilly Jørstad
Ksenija
Anna Denisova
La nutrice di Ksenija
Agnieszka Rehlis
Vasilij Šujskij
Norbert Ernst
Ščelkalov
Alexey Markov
Pimen
Ain Anger
Grigorij Otrepev
Dmitry Golovnin
Varlaam
Stanislav Trofimov
Misail
Alexander Kravets
L’ostessa della locanda
Maria Barakova
Lo Jurodivyi
Yaroslav Abaimov
Pristav, capo delle guardie
Oleg Budaratskiy
Mitjucha, uomo del popolo
Roman Astakhov
Un boiardo di corte
Vassily Solodkyy
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