Entrare in un teatro sostanzialmente esaurito fa sempre un certo effetto, anche un pessimista cronico come me ha inaspettati bagliori di fiducia nel futuro e la fila all’ingresso non risulta gravosa. Comincio la mia cronaca del secondo appuntamento della stagione sinfonica con questa considerazione estemporanea, perché credo che il teatro e la cultura forse non salveranno il mondo ma per certo lo renderanno un posto meno inospitale di quanto sia ora. Con qualche minuto di ritardo, dovuto a qualche inconveniente che deve aver sofferto il venerabile Konzertmeister Stefano Furini, la serata è principiata con l’OuvertureEgmont di Beethoven, lacerto delle musiche di scena scritte per l’omonimo dramma di Goethe. Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi ultimamente rinvigorita dalla presenza di alcuni giovani soprattutto nella sezione degli archi, ne ha dato un’interpretazione convincente, maschia, in linea con l’ispirazione eroica che permea il brano. In quest’ambito, ho apprezzato il particolare vigore dei contrabbassi. Giuseppe Gibboni, giovane artista che ha vinto nientemeno che il Premio Paganini nel 2021, è stato il protagonista assoluto della seconda parte della serata. Bella forza, si potrebbe chiosare, era il Primo concerto per violino e orchestra in re maggiore di Paganini! La realtà, come sempre succede, è un po’ più complessa perché suonare e interpretare sono due cose affatto diverse e ho visto non pochi violinisti limitarsi a compitare note in modo meccanico: belli senz’anima. Gibboni invece, tanto è composto in scena, nulla concedendo a facili effetti coreografici, tanto è espressivo col suo Balestrieri che sembra un prolungamento del corpo e soprattutto dell’anima. Ma c’è anche l’orchestra, che soprattutto nell’introduzione dell’Allegro iniziale prepara benissimo l’ingresso del solista; ingresso che è folgorante e ci porta subito nel mondo di quel controverso personaggio che fu Paganini. Salti di ottava violenti e arditi arpeggi sono gestiti non solo con impagabile perizia tecnica, ma anche con un pieno controllo delle fantasmagoriche dinamiche richieste. Il virtuosismo non è mai esibito ma sempre indirizzato a un’esuberanza interpretativa controllata, circostanza poi confermata dal più cantabile Adagio successivo in cui si percepiscono echi di un romanticismo mosso, quasi turbato da oscuri baluginii presaghi di morte. Bellissimo poi il Rondò finale, di difficoltà tecnica suprema, che mi ha ricordato – chiedo scusa – certi lunari personaggi felliniani e, addirittura, la feroce ironia circense della Quarta di Mahler. Eccellente il dialogo con direttore e orchestra – belli i pizzicati degli archi – , una comunicazione fatta anche di sorrisi e approvazione di sguardi. I tre bis finali, i primi due ovviamente capricciosissimi, seguiti da un Preludio bachiano hanno messo il sigillo a un’esibizione strepitosa e trionfale con il pubblico in stato di delirante esaltazione. Dopo l’intervallo è stata la volta di un grande classico, la Sinfonia n.4 in mi minore di Brahms, che per me è la vetta del pur straordinario lascito del compositore. Nella sua apparente semplicità, in quei tratti melodiosi scoperti, la pagina musicale nasconde tesori di inventiva che non è certo il caso di analizzare in una semplice recensione di carattere divulgativo. Dietro al celeberrimo incipit si nascondono abissi da cui si riemerge parzialmente solo alla fine del lunghissimo primo movimento, mentre nell’Andante che segue si percepisce un afflato quasi religioso poi stemperato da un Allegro che cela anche contegnose mestizie. Nell’ultimo severo movimento, ricco di cromatismi che trascolorano con stupefacente liquidità e impreziosito da un intervento del flauto – ottima la performance di Giorgio Di Giorgi – si ha quasi la sensazione di essere preda di un turbamento onirico. Anche in questo caso Calesso ha diretto in modo efficace, privilegiando dinamiche morbide e agogiche rilassate ma non slentate per favorire il fluire omogeneo della musica. Ottimo il rendimento dell’orchestra, che mi pare davvero in grande crescita artistica e ha confermato, una volta di più, un carattere impetuoso ma controllato. Il pubblico, come detto all’inizio numerosissimo, ha giustamente acclamato a lungo il direttore e la compagine locale.
Ludwig van Beethoven
OuvertureEgmont
Niccolò Paganini
Primo concerto per violino e orchestra in re maggiore
Sergej Krylov e l’Orchestra del Teatro Verdi trionfano a Trieste in un emozionante concerto. Teatro esaurito per la seconda volta consecutiva. Il Covid-19 resta a casa (strasmile).Leggi il resto dell’articolo
Come ho titolato, spero efficacemente, su OperaClick, ieri sera al Teatro Verdi aleggiava uno spirito ed era, indovinate un po’, quello di Jimi Hendrix!
Ora invece, mentre mi sto stendendo questa piccola introduzione alla cronaca di ieri sera, è il momento di ricordare che oggi 14 ottobre, nel 1990, ci lasciava per sempre Lenny Bernstein, che di Gustav Mahler è stato uno dei più grandi intrepreti di cui ci sia traccia.
Io continuo ad adorare entrambi questi due giganti, e spero che l’accostamento non suoni irrispettoso per nessuno dei miei happy few. Sono due delle tante facce di questo blogger che si chiama Amfortas aka Notung aka Paolo Bullo.
So che mi amate (?) anche per questo.
Un saluto a tutti!
Dopo la sosta della settimana scorsa, dovuta alla furiosa sarabanda della regata Barcolana che monopolizza la città fagocitando l’interesse per qualsiasi altro evento, al Teatro Verdi è ripresa la stagione sinfonica. E, lo sottolineo subito, teatro finalmente affollato come dovrebbe essere sempre.
Gli Angeli e demoni – tema conduttore di quest’anno – avevano per l’occasione l’aspetto sulfureo di Niccolò Paganini e quello soave di Gustav Mahler colto in una delle opere più morbide, anche se io definirei più realisticamente ambigua la sua Quarta sinfonia.
Di Paganini mi piace ricordare un’istantanea del grande Heinrich Heine il quale, nelle Florentinische Nächte, descrive così il musicista durante un’esibizione:
Dietro a lui s’agitava uno spettro, la fisionomia del quale rivelava una beffarda natura di caprone e talvolta vedevo due lunghe mani pelose (le sue, pareva) toccare le corde dello strumento suonato da Paganini. Talvolta esse gli guidavano pure la mano onde reggeva l’arco e risate belanti d’applauso accompagnavano i suoni che sgorgavano dal violino sempre più dolorosi e cruenti.Leggi il resto dell’articolo
Hanno detto: