Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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La Grande Messe des morts di Hector Berlioz a Lubiana.

A Lubiana è cominciato, ieri sera, un marzo particolarmente interessante dal punto di vista musicale.
Il protagonista è stato e sarà Charles Dutoit il quale, alla verde età di 87 anni, dirigerà cinque concerti sul podio dell’Orchestra Filarmonica Slovena con cui ha un rapporto continuativo.
Il primo appuntamento prevedeva l’esecuzione della fantasmagorica Grande messe des morts di quel compositore eccentrico, visionario e geniale che risponde al nome di Hector Berlioz.
Questo lavoro mastodontico, composto nel 1837, cambiò, diciamo così, destinazione d’uso; nelle intenzioni doveva essere dedicato alla memoria di un soldato, il Maresciallo Mortier, ma poi per ragioni politiche l’opera fu indirizzata a onorare la memoria di un altro militare, il Generale Damrémont: insomma, così narrano le cronache del tempo.
Resta il fatto che si tratta di una composizione folle – giustamente definita qualche volta come un vero e proprio Requiem di cui segue il testo liturgico – che fa riconsiderare a chi l’ascolta per la prima volta il concetto di fortissimo, tanta è la potenza di decibel esplosa da una compagine che fa scomparire anche le orchestre tardo romantiche richieste per un Mahler o uno Strauss.
In alcuni momenti la musica ha poco di quel raccoglimento tipico della musica sacra e anzi sembra quasi a puntare a effetti spettacolari, come se Berlioz volesse autoincensare il proprio ego eccentrico. In altre occasioni, invece, pare davvero di essere immersi nell’Empireo e anche la scartatrice di caramelle vicina di posto assume le sembianze di un angelo.
Ho contato circa 140 artisti del coro, o meglio dei quattro cori che hanno cantato che trovate in locandina: il loro rendimento, soprattutto per quanto riguarda la parte femminile, è stato superlativo.
Eccellente anche la prova della Filarmonica Slovena, ma purtroppo – non so se sia dipeso dalla mia collocazione in parterre, l’acustica del Cankarjev Dom è peculiare – spesso è stata coperta dal coro nonostante Dutoit sollecitasse archi e legni in modo veemente.
Ma si tratta di fisime da critico, perché comunque resteranno nella mia memoria di ascoltatore appassionato il tenebroso attacco degli archi gravi nel Dies irae, la dirompente potenza delle percussioni nel Tuba mirum, il meraviglioso supporto dei flauti nell’Offertorium, il tremolo degli archi nel Sanctus – forse il momento più riuscito della serata, in cui ho apprezzato molto la bellissima voce del tenore David Jagodic, posto in alto in galleria quasi fosse un angelo dal cielo – e, soprattutto, il soave incanto del coro femminile che canta a cappella il Quaerens me.
In galleria erano inoltre disposte due sezioni di ottoni che, nonostante le ovvie difficoltà logistiche dovute alla lontananza dal podio, sono intervenute con efficacia.
Pubblico numeroso, attento e partecipe, che alla fine ha tributato un trionfo colossale alla serata con un quarto d’ora di applausi e ripetute chiamate al proscenio per tutti.

Hector BerliozGrande Messe des Morts
  
DirettoreCharles Dutoit
TenoreDavid Jagodic
  
Orchestra Filarmonica Slovena
Coro dell’Orchestra Filarmonica Slovena
Coro da camera Ave
Coro della Filarmonica di Monaco
Coro Virtuosi del Festival
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Divulgazione semiseria dell’opera lirica: I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, da venerdì 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste.

A causa della mostra fotografica, ancora in essere perché prorogata a “furor di popolo” di una settimana, questa presentazione arriva solo il giorno prima della recita: me ne scuso con i miei happy few, ma le mie energie sono limitate (smile).

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la distribuzione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Ma quali sono le caratteristiche dell’opera, che debutterà venerdì prossimo 24 febbraio al Teatro Verdi di Trieste?
Innanzitutto la prevalenza delle parti femminili, perché persino la parte di Romeo è affidata a un mezzosoprano en travesti. Il tenore (Tebaldo) ha una parte difficile ma non particolarmente lunga, il basso (Capellio) è poco più che un comprimario. La situazione fa presagire che questa è opera da primadonna, Giulietta, appunto.
Assolutamente imprescindibile la presenza di un buon direttore (ma quando non lo è?) perché gli equilibri dinamici (più che agogici, a mio parere) sono fragilissimi.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (per brevità) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Conosco già l’allestimento che sarà proposto al Verdi perché l’ho visto alla Fenice di Venezia nel 2015: in quell’occasione non mi soddisfò per nulla ma ho la mente aperta, per cui magari rivisto in altro contesto e con interpreti diversi può essere che la situazione cambi radicalmente.
Lo sapremo, come sempre, dopo la recensione.

Recensione polemica de La bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: ovvero la critica al pubblico oltre che quella allo spettacolo

Dopo il vernissage – tutto sommato felice – di qualche settimana fa con Otello, il Teatro Verdi di Trieste ha proposto La bohème di Giacomo Puccini in una produzione della fondazione che era stata cancellata nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19.
È stata una serata particolare, che mi ha suggerito una riflessione che spero non sia banale: mi sono trovato dimezzato, come il Visconte di calviniana memoria. L’allestimento, niente più che dignitoso, mi ha catapultato nel mondo della cosiddetta tradizione senza tempo – ma anche priva di particolari meriti – e non ben definita; le voci mi hanno riportato al 2022.
Mi spiego: la regia di Carlo Antonio De Lucia è inoffensiva, c’è tutto quello che ci si aspetta in una Bohème. La soffitta, i tetti di Parigi con tanto di Torre Eiffel sullo sfondo, i giovani squattrinati che dimagriscono di sogni e speranze, un Café Momus un po’ moscio ma pur sempre vivace, la Musetta soubrette, la neve alla barrière d’Enfer e qui mi fermo perché avrete capito.
Poi si comincia a cantare e appare evidente che le voci, peraltro educate, di alcuni protagonisti sono nel solco della liricizzazione delle parti che oggi impera in tutti i teatri del mondo.
Azer Zada – che ha sostituito last minute il previsto Alessandro Scotto Di Luzio, indisposto – non si sente, soprattutto all’inizio, nonostante in buca Christopher Franklin cerchi di contenere (così mi è parso) il volume dell’orchestra.
L’unica voce davvero “pucciniana” è quella di Lavinia Bini, che infatti lo sovrasta ogni volta che ne ha l’occasione; non per cattiveria ovviamente, è proprio una questione di volume.
Il tenore poi si rinfranca – essere catapultato in una compagnia di canto non deve essere facile – ma il suo Rodolfo manca di anima, di trasporto, di passione. Di sangue. Azer Zada è corretto, non stona, ha gusto, una buona dizione, ma impersonare Rodolfo, sia detto col massimo rispetto per un giovane e promettente artista, richiede un coinvolgimento anche emozionale diverso.
Dicevo dell’allestimento: le scene sono semplici, l’impianto luci essenziale, i costumi più o meno centrati, la caratterizzazione dei personaggi tranquillizzante. Però è proprio in questo tipo di messa in scena che tutto deve essere perfetto, altrimenti si nota subito l’incongruenza. Per esempio, i versi “s’accomodi un momento” e “la prego, entri” di Rodolfo a Mimì non hanno senso se Mimì è già entrata da un pezzo. Sono troppo puntiglioso? Se calligrafismo, perdonate la parolaccia, deve essere che lo sia sino in fondo altrimenti viva le bohème ambientate sulla Luna.
Christopher Franklin ha dato una lettura che definirei prudente della partitura, molto attenta all’accompagnamento ai cantanti e alle dinamiche, un po’ pigra nelle agogiche ma comunque efficace e coinvolgente. Nell’ambito di una narrazione coerente, mi è piaciuto molto il finale, una di quelle pagine in cui il genio di Puccini è abbagliante, con l’orchestra che riprende le note del primo incontro tra Mimì e Rodolfo in un contesto drammaticamente diverso. Inoltre Franklin ha ottenuto dalla brillante Orchestra del Verdi un suono caldo e limpido al contempo, in cui anche quando gli archi spingono i legni si sentono distintamente.
Lavinia Bini, credo al debutto nella parte, è stata pienamente convincente sia dal lato vocale – fraseggio curato, attenzione alla parola scenica – sia da quello attoriale. Ottima la gestione della respirazione, che le ha consentito di legare e alleggerire le note, di “dire” con efficacia ed eloquenza. La voce è ampia, sicura nei gravi, smagliante nel registro centrale e puntuta negli acuti che si espandono in sala grazie a un’emissione di alta scuola. Una Mimì di rilievo, a tutto tondo, molto italiana per passione e smarrimenti quasi adolescenziali.
Discreto anche il rendimento della dinamica Federica Vitali, Musetta giustamente sopra le righe che forse ha gridato un po’ troppo nella scena da Momus ma che ha palesato anche affinità col canto di conversazione più sommesso nel proseguo.
Bravo Leon Kim, Marcello gagliardo, spaccone e iracondo ma anche capace di ripiegamenti riflessivi assai efficaci e dotato di voce adatta per la parte.
Più che sufficienti Fabrizio Beggi, Colline spiritoso nella sua buffa retorica ma anche umanissimo e partecipe compagno di tutti, al pari di Clemente Antonio Daliotti, Schaunard divertente nel soliloquio del pappagallo.
Interessante l’interpretazione di Alessandro Busi, che ha caratterizzato con efficacia sia l’avido Alcindoro sia l’attualissimo Benȏit.
Come sempre solido il rendimento delle parti minori che trovate in locandina e brillanti i ragazzini del coro di voci bianche, ottimo il Coro.
Alla fine successo per tutti, in particolare, mi è sembrato, per Leon Kim e Lavinia Bini.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non straripante e partecipe come dovrebbe essere per un’opera così popolare. Lo spettatore triestino è pacato, sempre inamidato, spesso fané.  A questo punto, se fossi parte del management del teatro rischierei per la prossima stagione qualche titolo desueto e/o una spruzzata di novità con allestimenti che diano una scossa culturale a noi zombie. Erwartung di Schönberg in lingua originale con sottotitoli in cinese potrebbe essere una buona scelta. Una provocazione, la mia? Sì.

La locandina

MimìLavinia Bini
RodolfoAzer Zada 
MusettaFederica Vitali
MarcelloLeon Kim
CollineFabrizio Beggi
SchanaurdClemente Antonio Daliotti
Alcindoro/BenoitAlessandro Busi
ParpignolAndrea Schifaudo
Il sergente dei doganieriDamiano Locatelli
Un doganiereGiovanni Palumbo
Un venditore ambulanteAndrea Fusari
  
DirettoreCristopher Franklin
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaCarlo Antonio De Lucia
SceneCarlo Antonio De Lucia e Alessandra Polimeno
CostumiGiulia Rivetti
  
I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste




Divulgazione semiseria dell’opera lirica: La Bohème di Puccini, da venerdì 9 novembre al Teatro Verdi di Trieste. Di puccinismi, pornazzi e baracconate di regime.

Sempre cercando di mantenere uno stile divulgativo e non serioso – ne sento particolarmente il bisogno, in questi giorni – comunico che venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste va in onda, per l’ennesima volta, la Bohème di Giacomo Puccini.

Di un’opera così popolare e nota è ancora più difficile scrivere qualcosa non voglio dire di originale, ma almeno che non sia scontato.

Ci provo.
Qual è il principale problema, oggi e sempre, nell’allestire una Bohème?

Il primo credo sia non cadere nella trappola del puccinismo, che è una malattia grave e greve che rischia di rovinare il piacere dell’ascolto di quest’opera straordinaria. Ne possono essere afflitti tutti: direttore d’orchestra, regista e compagnia artistica.
Il puccinismo si manifesta in modo subdolo, con alcuni sintomi che all’inizio possono passare inosservati ma che poi si rivelano per ciò che sono: i prodromi di una devastazione artistica in piena regola.
Soprani che assumono dall’entrata pose che avrebbero fatto apparire Eleonora Duse come un’attrice sobria e morigerata negli accenti, direttori che mugolano dal podio, imponendo calamitosi rallentando all’orchestra e/o gonfiandone il suono con l’anabolizzante di archi strappalacrime, paurose tempeste di decibel alla chiusura del secondo quadro, registi che mettono in scena un migliaio di persone, compresi amanti e parenti. Sono solo esempi, potrei continuare a lungo.
In realtà la vicenda narrata è semplice e non richiederebbe tanta enfasi: quattro studenti in soffitta, per non parlare della fioraia.
Il secondo problema, che si manifesta con sintomi abbastanza simili al primo, è di sprofondare nel verismo più deteriore –a conferma che dagli “ismi” vari è sempre meglio diffidare – perché Bohème è un’opera estranea all’estetica verista.
Una delle grandi novità di questo lavoro pucciniano è infatti il canto di conversazione che per sua natura deve risultare sommesso, lieve, anni luce distante dalle grida e dai drammi di un’opera verista. Una novità così spiazzante che fece dire a uno studioso e critico come Eduard Hanslick “sembra che parlino invece di cantare”. Appunto, a conferma che i critici assai spesso prendono lucciole per lanterne. Al pari del pubblico, peraltro, che alla prima del 1° febbraio 1896 al Teatro Regio di Torino restò un po’ titubante, per poi ravvedersi già alle prime repliche.
L’opera poi esplose artisticamente in tutto il mondo dall’Europa agli USA.
Allora, per evitare la consueta routine sulla genesi dell’opera e relativa vivisezione della partitura ho pensato di scrivere:

Dieci cose semiserie da sapere sulla Bohème di Puccini.

1)      La vicenda è narrata in un romanzo di Henri Murger (Scènes de la vie de bohème), dal quale Giuseppe Giacosa e Luigi Illica trassero il libretto, riuscitissimo perché calibra magnificamente momenti di spensieratezza a quelli più drammatici.

2)      Esiste anche una Bohème composta da Ruggero Leoncavallo, tratta dalla stessa fonte (Murger). Debuttò alla Fenice di Venezia il 6 maggio 1897. Tra le due Bohème, Gustav Mahler non solo preferiva quella di Leoncavallo, ma disprezzava apertamente l’altra.

3)      Puccini e Leoncavallo bisticciarono per la Bohème. Rivelando il suo spirito toscano Puccini chiamava il collega e rivale Leonbestia!
Addirittura, quando il grande Giacomo seppe che il pubblico veneziano non gradì troppo la Bohème del rivale, scrisse una non memorabile poesiola:
Il Leone fu trombato,
il Cavallo fu suonato
di Bohème ce n’è una
tutto il resto è una laguna

4)      Giulio Ricordi, editore di Puccini, per ragioni cabalistiche volle che Bohème debuttasse a Torino, nello stesso giorno nel quale, tre anni prima, vide la luce Manon Lescaut, primo successo clamoroso di Puccini.

5)      Il compositore francese Claude Debussy disse, testualmente: “Non conosco nessuno che abbia descritto la Parigi di quel tempo tanto bene come Puccini nella Bohème”

6)      La prima fu diretta da Arturo Toscanini, che all’epoca aveva 29 anni.

7)      Ci sono pochissime incisioni discografiche che sono considerate “di riferimento” dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Una di queste è la Bohème incisa nel 1972 per la Decca, protagonisti tra gli altri Mirella Freni e Luciano Pavarotti, assolutamente straordinari. Addirittura mirabolante la direzione di Herbert von Karajan.

8)      Sempre a proposito di dischi, nella perfida (per me) incisione diretta da Georg Solti, protagonisti Placido Domingo e Montserrat Caballé, c’è un momento esilarante.
Quando i due cercano la chiave caduta sul pavimento della soffitta, le loro mani si sfiorano e Mimì deve emettere una specie di sospiro di sorpresa. La Caballé, alla quale piaceva strafare, sostanzialmente finge un orgasmo, producendosi in un imbarazzante ahhhhhhh che potrebbe benissimo appartenere a qualche pornazzo.
Provare per credere (l’incisione, non i pornazzi).

9)      Il mio verso preferito della Bohème, che rispecchia perfettamente la mia ottimistica filosofia di vita è: Già dell’apocalisse appariscono i segni, che ripeto come un mantra da quasi 67 anni.

10)   La Bohème favorisce gigionate di gusto rivedibile. Tra le più nefande e note, questa qui sotto, in cui vediamo Domingo&Pavarotti in versione “le star fanno comunque audience e quindi chissenefrega”.

Vi lascio alla visione di questa baracconata di regime, in puro stile trash amerikano e a rileggerci presto. Qui Pavarotti e Domingo vanno fuori tempo, gigioneggiano come nessuno, inventano di tutto. Forse fanno spettacolo, boh.
It’s all folks

Mario Brunello torna al Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste e raccoglie un enorme successo. Nino Rota non sfigura affatto accanto alla famiglia Bach. Il buongusto sacrificato in piazza per la crudele dea Barcolana

Nell’imminenza della Barcolana, che notoriamente smuove masse di folla inconsuete per Trieste – ieri spostarsi in città era una cosa molto vicina a un girone infernale – si è svolto il quarto appuntamento della stagione sinfonica triestina.
Il protagonista è stato Mario Brunello, violoncellista e artista a tutto tondo, oltre che uomo di cultura impegnato felicemente da molti anni nel sociale.
In una bella intervista al quotidiano locale Brunello ha paragonato il suono del violoncello piccolo – il suo strumento per il concerto a Trieste – a quello della voce di controtenore. Entrambi, violoncello piccolo e controtenore, sono stati coinvolti nei cambiamenti di gusto del pubblico, il primo a favore dello strumento quale lo conosciamo oggi, il secondo travolto dalla comparsa della voce femminile di soprano. Ricordo che le donne non hanno potuto per secoli esibirsi in pubblico, tanto che la Chiesa le considerava nella migliore delle ipotesi meretrices honestae.
Il programma prevedeva nella prima parte due pagine musicali: il Concerto in re magg. BWV 1054 (dal Concerto per violino BWV 1042 di J. S. Bach) e il Concerto in la magg. per violoncello piccolo e orchestra H 439 (W 172) di Carl Philipp Emanuel Bach, quinto dei venti figli di Johann Sebastian. In questi due brani, quasi come un bonario convitato di pietra, emerge prepotente la figura di Antonio Vivaldi, il prete rosso, che della musica barocca è stato esponente sublime.
Padre, figlio e padre spirituale, uniti dalla koinè del Barocco.
E anche i due brani proposti confermano la stretta parentela di sangue artistico e storico: la struttura in tre movimenti, con il secondo a fare da cerniera emotiva (Largo mesto, Adagio, ovviamente entrambi in minore) tra i due Allegri lo conferma.
L’Orchestra del Verdi, ovviamente in formazione cameristica d’archi e supportata dalla bravissima Adele D’Aronzo al clavicembalo, ha assecondato con precisione e gusto l’estro interpretativo di Brunello, che per l’occasione era anche direttore.
Per quanto riguarda appunto Mario Brunello, non voglio neanche soffermarmi troppo per non risultare pleonastico: è in simbiosi col suo violoncello piccolo (il violinone, come l’ha definito) dal quale estrae passione, vitalità, inventiva. Il virtuosismo, ovviamente stellare, è solo la parte più esteriore della sua arte. Sono il controllo delle dinamiche, la capacità di trarre note dolenti e al contempo luminose, il lirismo controllato scevro della ricerca di facili effetti che delineano la statura dell’interprete.
Pubblico in visibilio, ulteriormente eccitato dai bis, entrambi trascrizioni per violoncello: un’anticipazione del programma della seconda parte dedicato a Nino Rota (Improvviso, Un dialogo sentimentale) e un grande classico bachiano (Andante Seconda sonata per violino).

Sono davvero grato al Teatro Verdi e a Mario Brunello – che nella prefata intervista esprime la necessità che la musica dialoghi con la quotidianità – per le scelte della seconda parte del programma, dedicato alla musica di quell’artista straordinario che è stato Nino Rota.
Troppo spesso liquidate come “musica da film” – una locuzione ignorante che puzza di diminutio eche scorda come la musica fosse strutturale ai tempi del muto-  le composizioni di Rota sono invece pagine musicali che reggono benissimo la serata anche se private di immagini cinematografiche, perché sono frutto dell’Arte di un artista di primo livello che si è cimentato con successo in generi musicali diversi, dall’opera lirica alla musica sacra.
Simpaticamente sceneggiata dalla compagine triestina, con i professori d’orchestra che hanno citato Fellini all’inizio e in chiusura hanno abbandonato un po’ alla volta il palcoscenico a concerto in corso, la musica di Rota è stata eseguita mirabilmente. L’ascolto attento ha rivelato come il compositore fosse capace non solo di venire incontro alle esigenze dei registi ma anche di catturarne l’anima in una specie di portfolio emotivo. Il gusto per il grottesco di Fellini, il sentimentalismo un po’ mieloso di Zeffirelli, la briosa decadenza di Visconti.
Eccellente la prestazione dell’Orchestra del Verdi, che se nella prima parte del concerto aveva palesato la morbidezza degli archi, nel proseguo ha convinto pienamente in tutte le sezioni con ottoni e percussioni in grande evidenza. Ci tengo a citare, in particolare, lo splendido rendimento di Paola Fundarò, primo oboe della fondazione triestina.
Chiudo con una nota di amarezza: all’uscita dal teatro sono ripiombato nel girone infernale dantesco che ho citato all’inizio. La Dea Barcolana richiede sacrifici e, maledizione, il buongusto è stato giustiziato ferocemente coram populo in Piazza Verdi.

Johann Sebastian BachConcerto in re magg. BWV 1054 (dal Concerto per violino BWV 1042 di J. S. Bach)
Carl Philipp Emanuel Bach
 
Concerto in la magg. per violoncello piccolo e orchestra H 439 (W 172)
Nino RotaSuite dai film Prova d’orchestra e Romeo e Giulietta, Ballabili dal film Il Gattopardo
  
Violoncello e DirettoreMario Brunello
  
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste


 

Qualche considerazione a caldo sulla nuova stagione di Lirica e Balletto al Teatro Verdi di Trieste.

È stata presentata oggi la nuova stagione di Lirica e balletto del Teatro Verdi di Trieste. Prima di pubblicare, a seguire, il comunicato stampa, volevo esprimere un paio di opinioni.
Sarà che sono vecchio – dico davvero – e ho visto un po’ di tutto ma il cartellone lirico non mi soddisfa e i motivi sono quelli di sempre: si tratta di una fotocopia di cartelloni standard che si possono vedere o si sono visti ovunque in Italia, magari con cast più attraenti. Ma i cantanti e le regie si valutano di volta in volta e ho la serenità per farlo senza pregiudizi.
Detto francamente, io di Bohème e Turandot non ne posso più, il Macbeth è lo stesso di una decina di anni fa con la regia bella, ma ormai stantia e superata, di Brockhaus.
Otello con Oren sul podio…boh…può essere qualsiasi cosa. Bene I Capuleti e i Montecchi di Bellini e Orfeo e Euridice di Gluck. Sono sei titoli più un balletto, Romeo and Juliet di Prokofiev, che sarà sicuramente di livello perché viene da Lubiana dove nella danza – e non solo – sono bravissimi.
Sono felicissimo di risentire Daniela Barcellona, Ruth Iniesta e Marco Ciaponi: soprattutto sono contento che torni a Trieste Silvia Dalla Benetta, uno dei soprani più sottovalutati degli ultimi vent’anni. I direttori d’orchestra sono potenzialmente buoni per un teatro come quello triestino.
Mancano, invece, i nomi di molti cantanti che a Trieste hanno fatto bene e hanno in repertorio opere in cartellone.
Se invece di essere triestino fossi di un’altra città non vedrei motivi per venire a Trieste, che oltretutto è carissima e servita in modo abominevole dalle ferrovie.
Non mi metto neanche a fare la lista leporelliana dei compositori e le opere che non sono presenti da anni al Verdi di Trieste.
Ora, ben consapevole che criticare è facile, soprattutto quando non si conoscono le disponibilità finanziarie, le esigenze geopolitiche e tutto il resto, a me pare chiaro che manchi, clamorosamente, una programmazione meditata a medio termine, un progetto generale e si continui a vivere alla giornata.
Non mi farò nuovi amici con questo mio intervento e, anzi, forse ne perderò qualcuno, ma pazienza.
Scrivo in rete dal 1996 e mi sono costruito una credibilità che mi consente, spero, anche qualche esuberanza caratteriale.
A seguire il comunicato stampa.

COMUNICATO STAMPA

La Stagione Lirica e di Balletto 2022-23 del Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste apre il 4 novembre con Otello, titolo fondante per la storia musicale della città e mancante in cartellone da ben 12 anni. In totale verranno presentati sei titoli d’opera e uno di balletto, fra cui una nuova Bohème, un nuovo allestimento del barocco Orfeo ed Euridice e in chiusura Turandot, opera sempre di grande richiamo popolare. Titoli e cast sono stati pensati nello spirito di rafforzare il ruolo di Trieste come crocevia di culture, potenziando le collaborazioni oltre confine, proseguendo la ricerca di nuovi talenti dai territori emergenti nel mondo ormai globalizzato dell’opera, attività di scouting che ha già portato in passato future star internazionali al loro debutto italiano proprio al Verdi. Senza dimenticare la valorizzazione delle migliori intelligenze della regione e un occhio di riguardo al pubblico con incentivi economici per il ritorno alla normale vita d’arte e cultura in città e non solo.

L’Otello di Verdi, fra i titoli più rappresentati nella storia del Teatro Verdi, ha portato in città alcune delle voci apicali della storia del bel canto novecentesco, è quindi chiaro che la sua riproposizione in apertura di stagione, dopo ben 12 anni di assenza, sia un passo importante per l’offerta culturale della città: il regista sarà lo stesso Giulio Ciabatti che affiancò il direttore Nello Santi nel riuscito, ultimo allestimento del 2010. Forte di un’importante carriera internazionale e di un solido rapporto con il pubblico triestino che ha nel tempo potuto apprezzare le sue regie per importanti titoli d’opera – fra cui Lucia di Lammermoor, Madama Butterfly, Il barbiere di Siviglia, La traviata – per titoli contemporanei come La voix humaine, I sette peccati capitali, Mr. Hyde e anche per spettacoli più singolari come il Piccolo Flauto Magico per le marionette dei Piccoli di Podrecca al Teatro Rossetti, Ciabatti rileggerà la tragedia più popolare del Mare Adriatico con creatività ma senza forzature, come è nel suo stile. Il primo Otello a presentarsi al pubblico del Verdi sarà Arsen Soghomonyan, tenore armeno di indiscutibile prestigio internazionale, soprattutto nei teatri slavi, anglosassoni e tedeschi, incluse le sue collaborazioni con Metha, Petrenko e i Berliner, ma rarissimo sui palchi italiani. Otello di assoluto riferimento Soghomonyan si alternerà nel ruolo al giovane talento Mikheil Sheshaberidze, georgiano ma cresciuto nelle accademie italiane, con un forte legame col nostro Nord Est, avendo già debuttato ad Arena di Verona e studiando sotto la direzione di Giancarlo Del Monaco. Lianna Haroutounian, considerata uno dei migliori soprani verdiani della sua generazione e ospitata nei migliori palchi del mondo, dalla Royal Opera House al Metropolitan a fianco di star di prima grandezza come Jonas Kaufmann, completa il cast dell’inaugurazione, guidato da Daniel Oren, uno dei direttori più amati dalla città e di solida fama internazionale. Sul podio Oren si alternerà all’italiano Ivan Ciampa, tra i direttori più stimati nel mondo sul grande repertorio di tradizione italiana. Da notare inoltre nel cast lo Jago del baritono russo Roman Burdenko, vera sorpresa dell’ultima stagione areniana dove ha sostituito Domingo ottenendo critiche entusiastiche da parte di tutta la stampa.

La Fondazione porta in scena Otello al Teatro Giovanni da Udine di Udine il 14 gennaio 2023 e al Teatro Comunale Giuseppe Verdi Pordenone il 26 maggio 2023.

A Otello, ricco di sorprese vocali e robuste certezze, seguirà a dicembre il nuovo allestimento, la pucciniana Bohème firmata da Carlo Antonio De Lucia, ex tenore e produttore, da anni dedito alle regie liriche. Già noto al pubblico triestino e di certo tra i più solidi sostenitori di uno stile registico atto ad esaltare le voci, De Lucia verrà affiancato sul podio da Christopher Franklin, direttore statunitense cresciuto nei migliori teatri italiani ed europei, nonché bacchetta ben conosciuta in città. Opera di gioventù per eccellenza, la nuova Bohème  inanella un cast fresco, vocalmente ed esteticamente convincente, guidato dalle belle voci e dai bei volti del soprano Lavinia Bini, in staffetta con Filomena Fittipaldi, del musicista e tenore Alessandro Scotto di Luzio, in alternanza con il portoghese Carlos Cardoso per il ruolo di Rodolfo: voci giovani ma sicure che contribuiranno certamente ad una resa convincente di un testo che ha visto in passato sul palco triestino nomi davvero iconici del ‘900 e merita dunque la massima attenzione.

Il 2023 si aprirà invece il 27 gennaio con la ripresa dell’allestimento del 2013 del Macbeth di Verdi, in coproduzione con Fondazione Pergolesi Spontini di Jesi e Fondazione Teatro Carlo Felice di Genova. L’interpretazione del regista Henning Brockhaus, fra le più vissute e celebrate sui palchi del globo tanto da essere considerato un grande classico del teatro, racconta un mondo violento, incomprensibile, usurato dalla brama di potere e in questo contesto correttamente oscuro si muoverà la Lady Macbeth del soprano vicentino Silvia Dalla Benetta, premio Abbiati 2021 nel ruolo per la sua interpretazione al Festival Verdi di Parma, in alternanza al soprano olandese Gabrielle Mouhlen, già allieva di Monserrat Caballé e nota al pubblico del Verdi grazie a Turandot. Macbeth vedrà sul palco sia il solido baritono italiano Giovanni Meoni sia il giovane coreano Leon Kim, vera rivelazione degli ultimi anni ed ennesima conferma di quanto sia il peso dei nuovi territori che si affacciano ai teatri di tradizione con importanti scuole di canto e grande passione di pubblico. Antonio Poli e Riccardo Rados completano il cast per un eccellente Macduff di provata esperienza, guidato dal Direttore Fabrizio Maria Carminati.

A febbraio si avrà poi la ripresa di un altro caposaldo del teatro lirico internazionale, I Capuleti e I Montecchi di Bellini firmati dal regista francese Arnaud Bernard nell’allestimento della Fondazione Arena di Verona in coproduzione con il Teatro la Fenice di Venezia e con la Greek National Opera. Sul podio il Direttore trevigiano Enrico Calesso, nome perfetto per attirare il turismo culturale austriaco data la sua solida reputazione oltralpe, ed un cast giovane ed internazionale con il mezzosoprano russo Anna Goryachova, illustre belcantista, in alternanza con l’ancor più giovane georgiana Sofia Koberidze, senza dimenticare la giovanissima Caterina Sala, già applaudita in Scala, e la ben conosciuta ucraina Olga Dyadiv nel ruolo di Giulietta. Di nuovo dunque, come in Bohème, un cast che rispecchia l’età immaginata dal testo dell’opera in ossequio ai principi del Maestro Giorgio Strehler, il quale amava ripetere che “alcune storie d’amore sono rese credibili solo quando chi le interpreta non ha ancora vissuto l’esperienza del disincanto amoroso tipico della maturità”. Come per Otello, anche per I Capuleti e I Montecchi è prevista una ulteriore recita che si terrà a Udine il 10 marzo nell’ambito della programmazione artistica 2022-2023 del Teatro Nuovo Giovanni da Udine.

Marzo sarà dedicato al grande balletto e soprattutto ai rapporti di collaborazione sempre più stretti che legheranno da quest’anno il Teatro Verdi con il corpo di ballo dell’Opera di Ljubljana, al fine non solo di incentivare gli scambi culturali con la vicina capitale in continua crescita artistica, ma anche di potenziare lo sviluppo di un pubblico comune, nonché riportare stabilmente il grande balletto in città, ora che la danza vive una nuova stagione di notevole popolarità dopo anni difficili. Dunque con il Romeo and Juliet di Prokofiev proseguirà la riflessione sulle elaborazioni artistiche di un mito fondante della cultura occidentale, questa volta affidato alla coreografia di Renato Zanella, cresciuto artisticamente tra Francia, Austria e Germania, già collaboratore di Roberto Bolle e Giuseppe Picone, etoile del Teatro San Carlo di Napoli.

Aprile sarà invece dedicato al barocco tedesco di Gluck con l’eterno mito di Orfeo ed Euridice, forse l’opera settecentesca non mozartiana più eseguita al mondo e mai scomparsa dalle scene anche in tempi di scarso interesse per l’opera barocca. Sul podio il giovanissimo Enrico Pagano, stimato barocchista, fondatore dell’orchestra cameristica Canova, direttore in residenza alla IUC di Roma, nella svizzera Verbano e considerato da Forbes tra i 100 giovani under 30 Leader of the Future. Il nuovo allestimento sarà curato dal regista triestino Igor Pison, già coordinatore artistico del Teatro Stabile Sloveno, noto in città per i suoi lavori in prosa al Rossetti, laureato in Germanistica a Trieste e cresciuto artisticamente tra Germania, paesi slavi e Italia, perfetta epitome del ruolo multiculturale che la città deve continuare a giocare in Europa. Il cast vede un’icona intramontabile del repertorio barocco come Daniela Barcellona nel ruolo di Orfeo alternarsi con l’ottima Antonella Colaianni, mentre Euridice vedrà sul palco la solida Ruth Iniesta e la più giovane ma già stimata soprano di Modica Chiara Notarnicola.

Chiude a maggio la stagione la Turandot firmata dal regista italiano Davide Garattini Raimondi, esperto conoscitore delle maestranze e del palco del Verdi per cui disegnò la fortunata messa in scena del 2019. La direzione sarà affidata allo spagnolo Jordi Bernàcer, solida bacchetta invitata dalle migliori orchestre e teatri internazionali. In un cast di nuovo fortemente internazionale il pluripremiato soprano Kristina Kolar sarà Turandot in staffetta con Maida Hundeling voce eminentemente wagneriana, ma dalle intense sfumature che la rendono perfetta anche per il grande repertorio liederistico, nonché nome di riferimento nei migliori teatri, come la Royal Opera House. In Turandot si è esibita con grande successo sia all’Arena di Verona sia all’opera di Pechino nel ’20.

Commenta così la nuova stagione il Sovrintendente Giuliano Polo: “Considero questa stagione una vera ripartenza, dove dobbiamo onorare alcuni impegni presi e poi rimandati causa pandemia, ma dove c’è anche una forte concentrazione di nuove produzioni, che daranno luce alle maestranze del Verdi, nonché progetti di collaborazione che spero diventino legami artistici sempre più forti per il futuro. E per incoraggiare il pubblico di Trieste a credere in una nuova normalità e soprattutto ad una vera ripartenza, abbiamo voluto venire incontro alle esigenze di economia che discende dalla difficile situazione contemporanea. L’impegno di divulgazione del teatro è chiaro e non vi è certo divulgazione con scelte economiche elitarie: il sollievo che la bellezza regala deve essere alla portata di tutti, soprattutto in tempi complessi e di incertezza. Mi preme inoltre sottolineare come il Teatro Verdi, in sintonia con le principali istituzioni italiane a partire dalla Scala, continua a considerare il proprio palco un crocevia di cultura, esperienze artistiche, creatività che non può mai venir limitato da altre ragioni che non siano al servizio del bello e del genius loci della città”

La Campagna abbonamenti inizia giovedì 15 settembre 2022 e si conclude martedì 15 novembre 2022. I turni di abbonamento sono sei, come nelle passate stagioni e le giornate di spettacolo, con l’eccezione dell’opera di inaugurazione, sono organizzate nel corso di due fine settimana con tre spettacoli in orario pomeridiano.

La Fondazione per agevolare il ritorno del pubblico a Teatro dopo il difficile periodo della pandemia, ha assunto la decisione di rimodulare la tabella prezzi, di favorire la sottoscrizione degli abbonamenti garantendo agli stessi una maggiore economicità e di presentare una nuova modalità di acquisto per i palchi. Rimangono sempre attive le agevolazioni più vantaggiose per pubblico degli studenti e i giovani fino a 34 anni.

La vendita dei biglietti per i singoli spettacoli ha inizio il 25 ottobre 2022.

La Stagione viene presentata al pubblico mercoledì 21 settembre ore 18 nella Sala principale con un evento ad ingresso libero che prevede la proiezione di brevi filmati e la partecipazione dell’Orchestra e del Coro della Fondazione.

ufficiostampa@teatroverdi-trieste.com

http://www.teatroverdi-trieste.com

Trieste, 15 settembre 2022



Trieste – Teatro Verdi: primo concerto della stagione sinfonica. Il teatro lancia un segnale positivo alla città.

Proprio nel giorno di una grande manifestazione sindacale dovuta alla vicenda della crisi alla Wärtsilä, che rischia di terremotare del tutto l’economia di una città già gravemente provata, è partita la Stagione sinfonica 2022/2023 del Teatro Verdi di Trieste che prevede sei concerti sino alla fine di novembre.
Se le preoccupazioni per la città, fuori dal teatro, sono più che legittime, piace sottolineare che il Verdi, almeno per il vernissage della stagione, è sembrato godere di buona salute perché il pubblico è stato numeroso anche grazie a una politica dei prezzi aggressiva in generale e riduzioni soprattutto per i giovani.
Si tratta di una considerazione importante, perché il teatro, qualsiasi teatro, è sempre uno dei gangli vitali della vita cittadina, non un’isola di privilegio che vive avulsa dalla realtà.
È stato Franz Schubert, con la sua Sinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D. 485 ad aprire la stagione.
La sinfonia esordì a Vienna nel 1841, ma la composizione nasce molto prima, a metà degli anni Venti dell’Ottocento. Si tratta perciò di una musica ancora di transizione, che guarda a Mozart e Haydn ovviamente, ma raccoglie anche qualche pallida suggestione di Beethoven, dal quale si differenzia per una visione generale meno imponente temperata dal Romanticismo.
La sinfonia, affatto priva di retorica, trasmette una sensazione di intima serenità screziata saltuariamente da sprazzi meno luminosi che restano però isolati, quasi come domande irrisolte.
Strutturata nei classici quattro movimenti, la pagina musicale mantiene comunque un respiro giovanile – Schubert era meno che ventenne –  e quasi cameristico.
Già dall’incipit e dal melodioso Andante del secondo movimento si percepisce quella leggerezza tipica di certe atmosfere settecentesche, poi confermata dal Minuetto. Il brio, la contenuta esuberanza del Rondò finale confermano poi la felice ispirazione del giovane Schubert.
Hartmut Haenchen, con gesto elegante ed equilibrato, trae il meglio da una splendida Orchestra del Verdi, che ha brillato sia per la bellezza del suono degli archi sia per l’ottima prestazione di legni e fiati.

Con la seconda parte del concerto siamo sempre a Vienna, ma nel 1877, quando la Sinfonia n. 3 in re minore (Wagner-Symphonie) di Anton Bruckner fu eseguita per la prima volta – ottenendo un clamoroso fiasco, che il solito Hanslick sottolineò ferocemente –  ma il microclima musicale è del tutto diverso.
Anton Bruckner, qui colto in una delle sinfonie più opulente, è compositore che conta ammiratori e detrattori in uguale misura proprio per la sua caratteristica principale:  l’estroversa, e talora ridondante, ricchezza di ispirazione.
Già il fatto che la Terza sia dedicata a Wagner, per il quale il compositore nutriva una vera e propria venerazione, dice molto anche all’ascoltatore distratto. E se la sinfonia di Schubert eseguita nella prima parte è stata definita “senza trombe e timpani”, certo non si può affermare lo stesso del lavoro di Bruckner, basti pensare al mastodontico primo movimento.
Meno stentoreo l’Adagio seguente, in cui l’atmosfera si fa più riflessiva, ma sempre nell’ambito di un afflato sinfonico monumentale che si ritrova anche nello Scherzo successivo, ricco di riferimenti folclorici.
Nel Finale, poi, si torna alla maestosità un po’ esibita della prima parte. Ben gestiti i numerosi pizzicati degli archi e anche le frequenti pause ad effetto, cui Bruckner teneva tanto. Ottimo il rendimento degli ottoni.
Anche in questo caso l’Orchestra del Verdi, ovviamente rinforzata rispetto alla formazione quasi cameristica della prima parte, ha suonato benissimo. Merito, certo, dei professori d’orchestra, ma anche di Haenchen il quale, sempre con una contegnosa compostezza, è riuscito a mantenere limpido e omogeneo il flusso sonoro in una pagina musicale in cui basta poco per affossare tutto in un indistinto magma sonoro.
Il pubblico non ha avuto esitazioni e ha sommerso di applausi la compagine triestina e il “grande vecchio” sul podio.


ranz SchubertSinfonia n. 5 in si bemolle maggiore D. 485
Anton BrucknerSinfonia n. 3 in re minore
  
DirettoreHartmuth Haenchen
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste

I’m in Bayreuth state of mind 2022

Loge, hor! Lausche hieher!

Ecco, mi senti ora, Loge? Un po’ avresti rotto le palle eh?
(chi capisce capisce)

Foto Michele Crosera

Nel disinteresse generale – forse mai come quest’anno, mi pare – riparte lunedì prossimo 25 luglio il Festival di Bayreuth 2022.
Il programma prevede come vernissage una nuova produzione di Tristan und Isolde e, a seguire nei giorni successivi, il (quasi) nuovo Ring per la regia di Valentin Schwarz e i già noti Lohengrin, Tannhäuser e Der fliegende Holländer. Inoltre, a cavallo (non di Grane, si fa per dire) di agosto e settembre si svolgerà un concerto di arie e ouverture wagneriane diretto da Andris Nelsons.

I cantanti e i direttori, complice il Covid, sono i soliti degli ultimi anni: non posso affermare che mi entusiasmino, sinceramente. In generale, a mio gusto, mi pare che le donne abbiano una statura artistica superiore agli uomini.
Sto cercando di capire se RADIO3 trasmetterà qualcosa, ma mi pare di capire di no. Direi che anche questo è un segno dei (pessimi) tempi che stiamo vivendo.
Nel frattempo, visto che mi sono preso anch’io il morbo così di moda – ma ne sto uscendo, anche se mi è costato quattro bei concerti – nei giorni scorsi mi sono assemblato il mio Bayreuth personale attingendo alle migliaia di dischi che mi ritrovo per casa.
Che dire? Ogni edizione che ho ascoltato aveva il suo fascino, anche se in generale preferisco quelle imperfette registrate dal vivo, anche con mezzi e conseguenti rese sonore ormai obsolete.
Qualche volta mi sono soffermato su passaggi specifici, mettendo a confronto dinamiche e agogiche di direttori diversi e fantasticando sulla valenza emotiva che dovevano avere certe voci straordinarie dal vivo. Esercizio ozioso, peraltro. La musica è figlia del suo tempo non solo nella composizione ma anche nell’esecuzione e nell’interpretazione.
Premessa questa considerazione, se avessi una macchina del tempo mi piacerebbe assistere a una recita della Valchiria con Hans Hotter oppure a un’esibizione di Astrid Varnay nei panni di Ortrud.
Quanto al Loge col quale ho cominciato, beh, insuperabile Gerhard Stolze.
Se riesco ad ascoltare qualcosa magari ne scrivo, ma dubito.

Recensione addolorata del Barbiere di Siviglia di Rossini al Teatro Verdi di Trieste: bravi gli artisti, ma il pubblico non c’è!

Spiace, spiace molto segnalare che il teatro è stato quasi disertato dal pubblico. E sì che di svago abbiamo bisogno…

È noto che la prima del Barbiere di Siviglia, il 20 febbraio 1816 a Roma, fu un disastro. I motivi di tale tonfo non furono esclusivamente artistici e l’aneddotica del fiasco della prima è ricca e spumeggiante: dal tenore Manuel Garcia che rompe una corda della chitarra mentre canta l’aria di entrata, all’interprete di Basilio che scivola, si rompe il naso e continua a cantare sanguinante per finire con un gatto nero che salta sul palco e molesta i cantanti. Eppure, a più di duecento anni di distanza il Barbiere continua a essere una delle opere più rappresentate in tutto il mondo, perché il tempo è (quasi) sempre galantuomo e soprattutto la musica di Rossini galleggia nell’empireo dell’Arte.
Massimo Luconi, che firma regia e scene dello spettacolo al Verdi di Trieste, asseconda il libretto di Sterbini nel solco della tradizione e con un occhio alla Commedia dell’Arte, ambientando la vicenda in un non luogo in cui i personaggi si muovono con leggerezza in uno spazio con pochi elementi scenografici. L’interazione tra i caratteri è scarna ma curata e al resto pensano gli artisti, tutti o quasi veterani delle loro parti.


Ne esce un allestimento poverello ma gradevole e onesto, di quelli che non lasciano il segno e non disturbano , che ha il pregio di accompagnare il pubblico nella cortese commedia degli equivoci rossiniana. Non manca un garbato accenno all’attuale schiavitù delle mascherine.
Nel solco della tradizione anche la direzione di Francesco Quattrocchi, che sceglie una lettura forse un po’ pigra nelle agogiche ma attenta a non essere troppo esuberante nelle dinamiche. Ben eseguita la famosa Ouverture, brillanti i concertati, preciso l’accompagnamento ai cantanti. Ottima la prestazione dell’Orchestra del Verdi, al pari di quella del Coro maschile preparato da Paolo Longo e della bravissima Adele D’Aronzo, maestro collaboratore.
La compagnia di canto è sembrata affiatata, omogenea e divertita e tutti gli artisti si sono espressi a un buon livello.
Mi piace segnalare l’ottima prova del soprano Elisa Verzier (Berta) che ha cantato bene l’aria di sorbetto Il vecchiotto cerca moglie e ha svettato con la sua voce limpida e cristallina nei concertati.
Antonino Siragusa è ormai vicino alle quattrocento recite nei panni del Conte di Almaviva ed è stato una volta di più convincente in una parte piena di asperità tecniche certo, ma che richiede anche la capacità di cantare dolcemente, come si addice al tenore rossiniano amoroso. Il pubblico gli ha tributato numerosi applausi a scena aperta, meritatissimi.
Buona anche la prestazione di Paola Gardina (Rosina), che ha connotato il suo personaggio di grazia e civetteria con misura, senza ricorrere a effetti plateali troppo accentuati. La voce è di bel timbro e la linea di canto pulita anche nelle agilità.
Bravo Mario Cassi nei panni di un Figaro esuberante e giovanile, vitale nella continua ricerca di stratagemmi e inganni che aiutino l’amico Almaviva alla conquista di Rosina. Ottima la cavatina iniziale ma di là delle indubbie qualità vocali il baritono ha colpito per la padronanza del palcoscenico.
Fabio Previati ha caratterizzato il suo Bartolo con intelligenza, evitando atteggiamenti ormai datati e puntando su una recitazione sobria, agile e al contempo divertente. Nell’aria A un dottor della mia sorte si è apprezzata la confidenza con il sillabato rossiniano.
Guido Loconsolo, voce di basso imponente, si è distinto per la bella interpretazione di Don Basilio, strappando applausi nella famosa aria della calunnia.
Apprezzabili anche i contributi di Giuseppe Esposito (solido Fiorello) e Armando Badia (Ufficiale).
In una serata divertente e riuscita l’unica nota stonata da registrare è la scarsa presenza di pubblico: è davvero doloroso vedere un teatro con pochi spettatori. Certo la contingenza, con tutte le incertezze che conosciamo, non è favorevole, ma forse sarebbe bene provare una strategia di comunicazione più aggressiva e anche una programmazione più varia.
Successo indiscutibile per tutta la compagna di canto e ovazioni, meritate, a tutti gli artisti.

Il Conte d’AlmavivaAntonino Siragusa
RosinaPaola Gardina
FigaroMario Cassi
BartoloFabio Previati
BasilioGuido Loconsolo
BertaElisa Verzier
FiorelloGiuseppe Esposito
Un UfficialeArmando Badia
  
DirettoreFrancesco Quattrocchi
Direttore del CoroPaolo Longo
  
Regia e sceneMassimo Luconi
  
Orchestra e Coro del Teatro Giuseppe Verdi di Trieste



Dal nostro inviato speciale al Festival di Bayreuth!

Come sapete da qualche anno Di tanti pulpiti ha un agente segreto all’interno del Festival di Bayreuth. L’inviato speciale ci racconta i retroscena del Festival esprimendo le sue opinioni: ecco il primo dossier (strasmile).

Ripartire non è stato facile ma era, a dir poco, necessario. Sarà per tutti noi che lavoriamo qui un festival da ricordare e, al contempo, da dimenticare. Stringatamente:

1) Tampone quotidiano obbligatorio (tornerò a casa con le narici di un equino!).

2) Ingressi ed uscite dal palcoscenico, sala coro, camerini etc.etc differenziati (della serie: si entra da una parte e si esce dall’altra che, solitamente dista circa un km. Tornerò con i polpacci di un maratoneta)

3) Il coro è diviso in due gruppi ciascuno di 70 elementi. Un gruppo canta dalla sala coro con tanto di microfono ed il tutto viene trasmesso in tempo reale in palcoscenico. L’ altro gruppo è in palcoscenico e..”muove la bocca”. Si, hai letto bene: cantiamo in…playback”. Risultati, durante le prove, discutibili. Tornerò a casa con uno spiccato sviluppo della muscolatura facciale.

4) Abbiamo fatto tutte le prove in palcoscenico con la mascherina 😷😠in sala coro hai visto come siamo stati “ingabbiati”. Per fortuna a partire dalle prove di assieme abbiamo potuto liberare il nostro volto… 5) Riguardo Holländer: ottima a dire poco la Grigorian anche se, a mio avviso, troppo “temperamentosa”. Ciò, in alcuni momenti va a scapito della voce ma glielo perdono. Direttrice d’orchestra molto in gamba che riesce a tenere testa ad un’orchestra che, con i direttori, sa essere molto critica e lo manifesta apertamente. Ciò fino ad ora non è avvenuto. Regia: mi farebbe piacere sapere che cosa mai hanno passato nella loro infanzia e adolescenza i registi attuali…Tutto sommato non è male ma c’è tanto Freud e non troppo Wagner…Ma qui si usa così…

6) Le altre opere sono collaudate e non c’è molto da dire se non che sono state ridimensionate scenicamente e registicamente per un coro dimezzato…

7) Non so come risulti, all’ascolto, il tutto. Posso giudicare solo ciò che arriva in palcoscenico e preferisco non farlo.

8) Non mi viene, per il momento, in mente altro 🤔..Ah! Sì! Nei Meistersinger, Festwiese, noi, meschini! che sediamo negli ultimi banchi abbiamo in dotazione anche i tappi per le orecchie perché abbiamo alle nostre spalle i riporti…

9) Tutto è terribilmente triste e non solo per quanto ho detto ma perché si avverte un tentativo forzato di ritorno alla normalità. Già il fatto di non vedere pubblico alle generali non è stato bello. Spero che con gli spettacoli la cosa cambi. Gli spettatori in sala saranno 900, salvo restrizioni dettate dall’andamento dei contagi. Il resto me lo dovrete dire voi che ascolterete. Io potrò solo darvi notizia di quanto accadrà…

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