Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Grande serata di musica a Lubiana: Charles Dutoit dirige con l’energia di un ragazzino la splendida Orchestra Filarmonica Slovena.

Charles Dutoit, dopo il primo concerto di qualche giorno fa, ha intrapreso la seconda tappa del suo percorso alla testa dell’Orchestra Filarmonica slovena.
Il programma, raffinato e interessante, prevedeva come prima pagina musicale una sua personale selezione dalla Suite Romeo e Giulietta di Sergej Prokofiev, che attingeva a due delle tre versioni scritte dall’Autore.
Notoriamente il brano non segue le vicende degli sfortunati amanti: lo scopo è di rendere invece la drammaticità della trama accostando temi molto diversi per valenza emotiva in un intrecciarsi continuo di contrasti espressivi anche violenti.
L’operazione, considerata la felicissima serata della compagine slovena, è riuscita pienamente. Dutoit opta per dinamiche vivacissime e agogiche altrettanto tese che però non hanno intaccato la serena bellezza dei passi più lirici e malinconici.
Eccellente il lavoro dei legni – i flauti in particolare – e degli ottoni; morbidissimi gli archi, arrembanti le percussioni. I quaranta minuti di musica sono volati e alla fine il pubblico – meno numeroso del solito, ma era la seconda recita del concerto – ha tributato a tutti un grandissimo successo.
Tutt’altra atmosfera, più morbida e rilassata, per il celeberrimo Prélude a l’après-midi d’un faune di Claude Debussy, eseguito dopo la pausa.
Trasparenza e leggerezza sono state le caratteristiche dell’esecuzione che Dutoit ha cesellato con gesto morbido ma deciso, ben recepito dall’orchestra nella quale, ovviamente, ha brillato di luce fulgente il primo flauto che ha creato un’atmosfera sensuale, sognante e sospesa ma del tutto priva di eccessivi manierismi. Ottimo anche il rendimento delle arpe e delle altre sezioni che hanno dato equilibrio al delicato acquerello ispirato dalle rime di Mallarmé.
È toccato poi a Modest Musorgskij, compositore geniale e sfortunatissimo, chiudere il concerto con quella che probabilmente è la sua composizione più famosa: Quadri di un’esposizione nella versione per orchestra firmata da Ravel.
È una musica visionaria, piena di un’ironia graffiante e di ripiegamenti cupi, tenebrosi se non addirittura macabri, che quasi costringono a un ascolto teso e concentrato. L’andamento, solo parzialmente stemperato dalla ricorrente Promenade, è davvero schizofrenico. Ma è questa la forza del brano, che sorprende praticamente a ogni nota.
Anche in questo caso Dutoit ha scelto una lettura drammatica ma flessibile, capace di valorizzare i momenti più lirici senza che la tensione cali o si afflosci. Ancora una volta è stata fondamentale la straordinaria prestazione dell’orchestra che ha potuto contare sulle eccellenti performance degli ottoni (la tromba!), sul suono corposo e morbido al contempo degli archi gravi e, naturalmente, sulla precisione delle devastanti percussioni che qui Musorgskij schiera con doviziosa abbondanza.
Pubblico in visibilio, che ha ripetutamente chiamato al proscenio Charles Dutoit e omaggiato con scroscianti acclamazioni la compagine di casa.
Il trittico di concerti si concluderà la settimana prossima con Beethoven e Berlioz.

Sergej ProkofievSelezione dalla Suite Romeo e Giulietta
Claude DebussyPrélude a l’après-midi d’un faune
Modest MusorgskijQuadri di un’esposizione
  
DirettoreCharles Dutoit
  
Orchestra Filarmonica Slovena
  





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Trieste – Teatro Verdi: il Quintetto di Kolja Blacher per la Società dei Concerti

Vado molto meno di quanto vorrei alla Società dei Concerti di Trieste, ed è un peccato perché le serate sono sempre di gran livello.

Credo di averlo scritto già altre volte, nella musica (da camera, nella fattispecie) il Quintetto è una scuola di vita: tutti gli interpreti concorrono alla bontà del risultato finale, senza prevaricazioni, ma al contempo il loro contributo è scoperto, evidente, al contrario di quanto avviene nella musica sinfonica dove i singoli scompaiono nell’opima abbondanza di flusso sonoro.
Questa banale considerazione ha avuto conferma nel concerto di ieri sera dove è stato appunto il Quintetto, declinato dalle diverse sensibilità di Amédée-Ernest Chausson e Johannes Brahms, a essere protagonista con l’ensemble di Kolja Blacher che comprende tre componenti dei Berliner Philharmoniker (Christoph Strueli, Christoph von der Nanhmer e Kyoungmin Park) e altri due solisti di assoluto valore (Claudio Bohorquez e Özgür Aydan).
In un Teatro Verdi piuttosto affollato, considerato che era una serata organizzata dalla Società dei Concerti, si è cominciato con il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21 di Chausson, strutturato in quattro movimenti ed eseguito per la prima volta nel 1892.
Sono rimasto molto colpito dalla fresca e felice inventiva del compositore francese, che mi è sembrato in alcune occasioni (certi arpeggi del pianoforte, in particolare)  anticipare suggestioni dell’Impressionismo di Debussy e l’Espressionismo di Ravel, oltre che rifarsi ai cromatismi wagneriani mantenendo un certo esprit tipicamente francese che si è manifestato specialmente nel quarto movimento (Très animé).
L’andamento emotivo della pagina musicale è fluido, ma alterna con efficacia sprazzi vivaci ad altri più malinconici – il Grave del terzo movimento – mantenendo una narrazione tesa e vibrante.
Eccellente, ça va sans dire, il rendimento dei solisti che hanno dialogato ritagliandosi momenti virtuosistici di grande impatto, come nei rimandi tra violino e pianoforte.
Dopo l’intervallo è stata la volta del Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34 di Brahms, che esordì dopo una genesi travagliatissima nel 1866.
In questo caso si è percepita evidente un’atmosfera più saldamente legata all’Ottocento, sia nell’architettura complessiva della composizione sia nella drammaticità spinta di alcuni tratti che hanno ricordato apertamente la monumentalità quasi geometrica di Beethoven.
Il pianoforte è usato in modo del tutto diverso, per esempio, con severa drammaticità e anche con una presenza più corposa di decibel. Interessante, a questo proposito, il saggio di Enzo Beacco contenuto nel libretto di sala, che si sofferma sulle problematiche della corda percossa da un martelletto e quella accarezzata sulla cordiera.
Nella pagina Brahmsiana, di struttura poderosa che tradisce in qualche modo l’originale provenienza sinfonica, convivono echi di danza popolare e oasi riflessive anche drammatiche, ma sempre nell’ambito di un’esposizione che tiene alta la tensione ritmica.
I due movimenti estremi acclarano in modo palese, con la loro simmetricità, la provenienza beethoveniana dell’ispirazione ma al contempo la rendono emotivamente mossa e sorprendente.
Anche in questo caso l’esecuzione è stata eccellente e ha messo in mostra la qualità dell’insieme degli interpreti.
Successo pieno per l’ottavo appuntamento della stagione della Società dei Concerti triestina, con ripetute chiamate al proscenio dei protagonisti che hanno generosamente donato un bis al partecipe pubblico in cui ho notato, con grande soddisfazione, una notevole presenza di giovani.

médée-Ernest ChaussonConcerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21
Johannes BrahmsQuintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34
  
Koliah Blacher Quintett
  
ViolinoKolja Blacher
ViolinoChristoph Strueli
ViolinoChristoph von der Nanhmer
ViolaKyoungmin Park
VioloncelloClaudio Bohorquez
PianoforteÖzgür Aydan

La Grande Messe des morts di Hector Berlioz a Lubiana.

A Lubiana è cominciato, ieri sera, un marzo particolarmente interessante dal punto di vista musicale.
Il protagonista è stato e sarà Charles Dutoit il quale, alla verde età di 87 anni, dirigerà cinque concerti sul podio dell’Orchestra Filarmonica Slovena con cui ha un rapporto continuativo.
Il primo appuntamento prevedeva l’esecuzione della fantasmagorica Grande messe des morts di quel compositore eccentrico, visionario e geniale che risponde al nome di Hector Berlioz.
Questo lavoro mastodontico, composto nel 1837, cambiò, diciamo così, destinazione d’uso; nelle intenzioni doveva essere dedicato alla memoria di un soldato, il Maresciallo Mortier, ma poi per ragioni politiche l’opera fu indirizzata a onorare la memoria di un altro militare, il Generale Damrémont: insomma, così narrano le cronache del tempo.
Resta il fatto che si tratta di una composizione folle – giustamente definita qualche volta come un vero e proprio Requiem di cui segue il testo liturgico – che fa riconsiderare a chi l’ascolta per la prima volta il concetto di fortissimo, tanta è la potenza di decibel esplosa da una compagine che fa scomparire anche le orchestre tardo romantiche richieste per un Mahler o uno Strauss.
In alcuni momenti la musica ha poco di quel raccoglimento tipico della musica sacra e anzi sembra quasi a puntare a effetti spettacolari, come se Berlioz volesse autoincensare il proprio ego eccentrico. In altre occasioni, invece, pare davvero di essere immersi nell’Empireo e anche la scartatrice di caramelle vicina di posto assume le sembianze di un angelo.
Ho contato circa 140 artisti del coro, o meglio dei quattro cori che hanno cantato che trovate in locandina: il loro rendimento, soprattutto per quanto riguarda la parte femminile, è stato superlativo.
Eccellente anche la prova della Filarmonica Slovena, ma purtroppo – non so se sia dipeso dalla mia collocazione in parterre, l’acustica del Cankarjev Dom è peculiare – spesso è stata coperta dal coro nonostante Dutoit sollecitasse archi e legni in modo veemente.
Ma si tratta di fisime da critico, perché comunque resteranno nella mia memoria di ascoltatore appassionato il tenebroso attacco degli archi gravi nel Dies irae, la dirompente potenza delle percussioni nel Tuba mirum, il meraviglioso supporto dei flauti nell’Offertorium, il tremolo degli archi nel Sanctus – forse il momento più riuscito della serata, in cui ho apprezzato molto la bellissima voce del tenore David Jagodic, posto in alto in galleria quasi fosse un angelo dal cielo – e, soprattutto, il soave incanto del coro femminile che canta a cappella il Quaerens me.
In galleria erano inoltre disposte due sezioni di ottoni che, nonostante le ovvie difficoltà logistiche dovute alla lontananza dal podio, sono intervenute con efficacia.
Pubblico numeroso, attento e partecipe, che alla fine ha tributato un trionfo colossale alla serata con un quarto d’ora di applausi e ripetute chiamate al proscenio per tutti.

Hector BerliozGrande Messe des Morts
  
DirettoreCharles Dutoit
TenoreDavid Jagodic
  
Orchestra Filarmonica Slovena
Coro dell’Orchestra Filarmonica Slovena
Coro da camera Ave
Coro della Filarmonica di Monaco
Coro Virtuosi del Festival

Recensione de I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini al Teatro Verdi di Trieste: una buona compagnia artistica onora l’opera di Bellini che mancava a Trieste da quasi cinquanta anni.

Per capire come il melodramma italiano sia diventato un fenomeno artistico straordinario, bisognerebbe spendere qualche parola anche su di una figura che ormai – almeno nell’accezione dell’Ottocento – è scomparsa. Sto parlando dell’impresario: il suo lavoro è stato fondamentale per la diffusione delle opere che oggi vediamo a teatro in tutto il mondo.
Nello specifico, riferendosi a I Capuleti e i Montecchi di Vincenzo Bellini, la persona in questione è Alessandro Lanari, collega del più noto Domenico Barbaja, che sostanzialmente lanciò Rossini.
La figura dell’impresario si può paragonare a quella dell’agente ai giorni nostri, ma con tanto potere in più, perché gestiva non solo la allocazione dei cantanti ma anche quella di librettisti, compositori, teatri. Insomma una vera eminenza grigia che contribuì in modo fondamentale alla distribuzione di opere dei più grandi compositori italiani: Donizetti, Bellini, Verdi e altri ancora.
Verso la fine degli anni Trenta dell’Ottocento Lanari aveva la gestione della Fenice di Venezia e pensò di “usare” Bellini per ridare lustro a un teatro che soffriva, come tutti i teatri italiani, l’esilio di Rossini.
Fu così che I Capuleti debuttarono alla Fenice l’undici marzo 1830 seppure tra mille problemi che non è il caso di affrontare in questa sede.
Bellini è il classico compositore di confine, che traghetta la musica dalle suggestioni rossiniane e mozartiane a quel gran calderone – in senso buono – che è il Romanticismo.
Capuleti (che mancavano a Trieste dal 1974, quando Giulietta fu una sfolgorante Katia Ricciarelli) è un’opera fragile, delicata, la poetica è ancora belcantistica ma, come dicevo prima, guarda avanti. L’espressività di orchestra e cantanti è la parte più importante, quella che può decidere il destino di una rappresentazione.
Poi è vero, la vicenda dei Capuleti e Montecchi non sta in piedi, oggi, soprattutto nella riduzione teatrale di Felice Romani il quale, attenzione, non prese spunto dal testo di Shakespeare (pressoché sconosciuto in Italia a quei tempi) bensì da una novella di Matteo Bandello e dalla tragedia “Giulietta e Romeo” di Luigi Scevola. Poco importa perché se cambiano alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda la figura e il ruolo drammaturgico di Tebaldo, la sostanza non cambia. La differenza sta nella musica di Bellini, che avvolge la trama di una specie d’incantesimo fatto di melodie purissime che non a caso compaiono di frequente nei recital dei cantanti.
Nell’allestimento pensato da Arnaud Bernard, più volte recensito da OperaClick, la vicenda si svolge in una pinacoteca in cui si stanno svolgendo restauri. Gli operai vanno e vengono, spostano quadri, lavorano con gli strumenti del mestiere, fanno le pulizie. I quadri, prevalentemente in stile rinascimentale – molto bella la scena finale, con i protagonisti letteralmente incorniciati in un suggestivo gioco di luci – raccontano anche della storia degli sfortunati amanti veronesi.
L’idea non è particolarmente originale –  i tableaux vivants si vedono con una certa frequenza anche nel teatro di prosa – e funziona sino a un certo punto per un motivo molto semplice: troppo spesso i prefati lavoratori vagano per il palcoscenico e, detta fuori dai denti, sviano l’attenzione dalla musica, soprattutto all’inizio. Per il resto l’allestimento è di discreto livello, per quanto le interazioni tra i personaggi siano appena accennate e i costumi soffrano di cromatismi opachi poco valorizzati da un impianto luci piuttosto monotono.
Ma Bellini esprime se stesso nella musica, in quelle melodie lunghe amate da Wagner e Verdi, e da questo punto di vista la serata si può considerare riuscita tout court.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi in ottima forma – brillanti tra l’altro le prestazioni delle prime parti, Paolo Rizzuto (corno), Marco Masini (clarinetto) e Matteo Salizzoni (violoncello) – è stato capace di ricreare quell’atmosfera onirica che è sempre presente in Bellini senza rendere il flusso sonoro sfilacciato o monotono, circostanze che affliggono spesso le esecuzioni belliniane dovute all’equivoco che tutto si possa risolvere con le prestazioni dei cantanti. Al contrario, se c’è un compositore che ha bisogno di nerbo e corpo orchestrale questo è proprio Bellini, solo così la compagnia di canto può respirare con l’orchestra e trovare gli accenti più corretti per le melodie di cui sopra.
Caterina Sala, da me recentemente ammirata come Nannetta all’inaugurazione della Fenice di Venezia, conferma qui di avere le doti per essere una belcantista di razza. Le manca solo ancora un po’ di maturità artistica, di esperienza, vista la giovane età. Però la sua Giulietta commuove ed è cantata con gusto e pertinenza stilistica, voce adatta alla parte, acuti facili, filati di scuola, legato impeccabile e fraseggio curato. La grande aria Oh quante volte è risolta con efficacia ed eloquenza anche nel bellissimo recitativo che la precede. Giustificato e meritato l’applauso a scena aperta che le ha tributato il pubblico. Inoltre è parso evidente l’affiatamento con Laura Verrecchia nei duetti (in cui davvero gli echi di Norma sono evidenti) e ha recitato con compostezza e intelligenza.
Romeo è notoriamente una parte difficile per tanti motivi: è lunga, piuttosto acuta ma soprattutto impegnativa dal lato interpretativo perché Romeo è personaggio ardimentoso e al contempo morbido negli slanci d’affetto. Il mezzosoprano ha vinto la sfida con grande autorevolezza grazie a una voce sonora, smagliante nel registro centrale e sicura negli acuti. Essenziale anche la capacità di essere eloquente senza troppe forzature veriste che con Bellini non c’entrano nulla. Anche per lei, in questa parte en travesti serotina, applausi a scena aperta più che giustificati.
Tebaldo, personaggio ingrato perché canta pochino e deve subito superare lo scoglio di un’aria famosa (È serbata a questo acciaro) che si presta a confronti ingenerosi, è stato intrepretato con garbo e sicurezza da Marco Ciaponi, tenore giovane e in ascesa che ha il grande pregio di essere sempre pertinente nell’accento e nello stile. Bellini si canta con grazia e sentimento, e gli slanci testosteronici sono del tutto inopportuni.
Bravo il solido Emanuele Cordaro (Lorenzo) e tutto sommato sufficiente anche la prova di Paolo Battaglia, Capellio forse non perfettamente a fuoco dal lato vocale ma efficace da quello scenico.
Bene il Coro, come sempre preparato da Paolo Longo.
Successo indiscutibile per questa prima, con il pubblico – teatro abbastanza affollato, ma non esaurito – che ha lungamente applaudito tutta la compagnia artistica e ha riservato un trionfo a Caterina Sala e Laura Verrecchia.

GiuliettaCaterina Sala
RomeoLaura Verrecchia
TebaldoMarco Ciaponi
CapellioPaolo Battaglia
LorenzoEmanuele Cordaro
  
DirettoreEnrico Calesso
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaArnaud Bernard
SceneAlessandro Camera
CostumiCarla Ricotti
LuciPaolo Mazzon
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste

Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro Verdi di Trieste: le pulsioni sessuali inibite alla meta portano a disastri.

Opera ricca di simboli, di oscuri presagi, notturna, livida, piena di atmosfere oniriche e di pulsioni sessuali inibite alla meta: queste sono le caratteristiche che danno il mood al Macbeth di Verdi tratto dalla tragedia di Shakespeare. È da qui che bisogna partire per capire la brama di potere e di sangue che avvolge e distrugge la coppia protagonista e la rende perfetto archetipo della banalità del male.
Non c’è interpretazione registica che prescinda da queste considerazioni e non vale solo per la lirica, ma anche per il cinema; si pensi al film di Orson Welles o dell’adattamento in stile giapponese del Trono di sangue di Akira Kurosawa.
Al Teatro Verdi di Trieste è stato ripreso dopo dieci anni lo storico allestimento restaurato da Benito Leonori – le scene sono di Josef Svoboda –  e diretto da Henning Brockhaus, con i costumi di Nanà Cecchi e le coreografie di Valentina Escobar.
Sinceramente non ricordo se siano state apportate modifiche allo spettacolo, ma di certo nel caso non sono risultate sostanziali. Per questo motivo riporto ciò che scrissi a suo tempo anche se, obiettivamente – sarà l’età, mia intendo – le lunghe pause e gli intervalli per i cambi di scena mi sono parsi assai invadenti: tre ore e mezza per Macbeth sono davvero tante.


Brockhaus lavora per sottrazione, con pochi elementi scenici e molte buone idee coniuga felicemente l’esigenza di evidenziare il lato onirico e psicanalitico del dramma, che è ovunque striato di incubi e allucinazioni, contrapponendolo a una specie di manovalanza meccanica del male che mi ha ricordato l’incedere narrativo di qualche film di Michael Haneke in cui la malvagità diventa folle normalità.
Tutto è pervaso da un’atmosfera di malato e tetro erotismo, di gusto quasi gotico alla quale contribuiscono anche le interessanti proiezioni, lo splendido impianto luci (sempre di Brockhaus) e gli scarni ma funzionali costumi di Nanà Cecchi. La chiave di lettura della regia balza agli occhi all’entrata della Lady, la quale striscia sul palco, mi verrebbe da dire, strega tra le streghe.
Streghe che sono ossessivamente presenti (anche con acrobatiche evoluzioni aeree), veri e propri personaggi del dramma com’è sacrosanto che sia.
Mi sento di fare solo un appunto alla regia, e cioè la scelta di far leggere il testo della lettera da entrambi i protagonisti  – espediente non nuovissimo peraltro, da Strehler in poi – interpretati da voci registrate, ma siamo proprio a livello di sensibilità personali. L’allestimento, nel complesso, tradisce l’età (l’originale nasce nel 1995) solo per i cambi scena piuttosto lunghi che tendono a smorzare un po’ l’attenzione.

Fabrizio Maria Carminati, ben noto e apprezzato a Trieste, è uno degli ultimi custodi della nobile tradizione esecutiva italiana e anche in questa circostanza ne ha dato prova evidente. L’Orchestra del Verdi – eccellente in tutte le sezioni – ha nel DNA quel quid che risponde al nome di suono verdiano, ma le dinamiche sono sembrate spesso attenuate e uniformi. Il che, tanto per intendersi, è pur sempre meglio di clangori ed esplosioni bandistiche che con la musica di Verdi non c’entrano nulla. Forse, ma potrebbe essere che la mia infelice collocazione in un angolo in terza fila incida sul mio parere, al Macbeth di Carminati sono mancati un po’ di sangue, un pizzico di pancia, una spruzzata di ruvidezza. Del resto alle prime è spesso così, il direttore prende le misure ed eventualmente apporta aggiustamenti.
Straordinaria la prova del Coro, assai impegnato anche scenicamente, che ha cantato in modo splendido nonostante gli ormai cronici problemi di organico. Paolo Longo, alla testa del coro triestino, può essere più che soddisfatto del suo lavoro.

Ho trovato buona Silvia Dalla Benetta nella parte della diabolica Lady. Il soprano negli ultimi anni ha cambiato repertorio assecondando la naturale evoluzione del suo strumento. La pasta vocale è però pur sempre quella di soprano leggero di coloratura e di conseguenza le agilità di forza richieste dalla parte sono sembrate non proprio fluide ma comunque convincenti. Il registro centrale è sontuoso, gli acuti ancora brillanti ma con meno “punta” di un tempo. Però, e dal mio punto di vista è ciò che conta, la sua Lady emoziona per il coinvolgimento scenico e lo scavo sulla parola. Lo sleepwalking mi è sembrato riuscito, caratterizzato da un fraseggio mobilissimo e da colori cangianti del timbro che a volte – opportunamente – assumeva connotazioni infantili, come di una donna in preda a un’angosciante regressione psicologica.
Convincente anche il rendimento di Giovanni Meoni il quale, pur arrivando affaticato al finale della grande aria del quarto atto, ha creato un personaggio credibile nella sua pavida dipendenza dalla consorte che, come noto, lo manovra in modo spietato. Meoni è nel pieno della maturità artistica e perciò a proprio agio anche in una recitazione rattenuta e minimalista che ben si attaglia a una parte ombrosa, cupa, che il baritono completa con un canto sommesso e sussurrato.



Ragguardevole la prova di Dario Russo, che ha interpretato con voce da vero basso verdiano il personaggio di Banco; l’artista è sembrato a proprio agio anche dal lato scenico nella bellissima scena dell’agguato e nelle successive apparizioni.
Molto bravo Antonio Poli nei panni, sempre piuttosto difficili da indossare, di Macduff. Tutti aspettano l’aria del quarto atto, che il tenore ha portato a termine con efficacia nell’acuto finale ma facendosi apprezzare anche nel recitativo.
Sufficiente Gianluca Sorrentino, Malcolm corretto ma meno incisivo del solito.
Bene i coprotagonisti: Cinzia Chiarini (Dama della Lady) e Francesco Musinu (Medico) che con i loro pertichini hanno dato ulteriore tensione alla scena del sonnambulismo.
Le parti minori, che trovate in locandina, sono state al pari dei numerosi mimi e figuranti all’altezza di una serata che ha raccolto un notevole successo in un teatro pressoché esaurito.

MacbethGiovanni Meoni
Lady MacbethSilvia Dalla Benetta
MacduffAntonio Poli
BancoDario Russo
Dama di Lady MacbethCinzia Chiarini
MalcolmGianluca Sorrentino
MedicoFrancesco Musinu
Domestico di Macbeth/ApparizioneDamiano Locatelli
Sicario/ApparizioneGiuliano Pelizon
AraldoFrancesco Paccorini
  
ApparizioniIsabella Bisacchi, Maria Vittoria Capaldo, Sofia Cella, Crisanthi Narain
  
DirettoreFabrizio Maria Carminati
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaHenning Brockhaus
SceneJosef Svoboda
Ricostruzione dell’allestimento scenicoBenito Leonori
CostumiNanà Cecchi
CoreografieValentina Escobar
  
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro



Festoso Concerto di fine anno al Teatro Verdi di Trieste. Teatro esaurito, ed è una bella notizia.

Il Concerto di fine anno del Verdi di Trieste, ultimo atto di un 2022 difficile, è stato un successo e, soprattutto, ha visto il ritorno del pubblico che ha gremito il teatro in ogni ordine di posti e ha applaudito tutta la compagnia artistica con convinzione. Probabilmente il dato saliente della serata è questo, il resto sono bazzecole, quisquilie e pinzillacchere, come diceva Totò.
Dopo una breve introduzione del Sovrintendente Giuliano Polo, che ha ringraziato le maestranze e le istituzioni e del Sindaco Roberto Dipiazza che ha professato ottimismo per il futuro della città e del teatro, è cominciato il concerto.
Il programma era, come sempre in queste circostanze, piuttosto incoerente nella scelta dei brani, ma qua e là è trapelato qualche richiamo alle radici storiche di Trieste, centro della Mitteleuropa. Sarebbe bello che questi concerti celebrativi fossero più legati al territorio, soprattutto nei casi di città come Trieste, appunto, che può vantare una multiculturalità e una storia singolari e comunque diversa da altre realtà italiane. Non si tratterebbe di provincialismo, anzi, ma di una virtuosissima operazione di recupero del patrimonio culturale locale.
Sul podio dell’Orchestra del Verdi, ieri in gran spolvero e affiancata dal Coro della fondazione preparato da Paolo Longo, ha ben figurato Pietro Rizzo il quale, nonostante il sopra segnalato programma eterogeneo che trovate in locandina, ha guidato con mano sicura la compagine triestina.
Rizzo si è disimpegnato con sicurezza tra le atmosfere un po’ decadenti dell’Austria felix (Johann Strauss jr. Lehár, von Suppé), che richiedono vaporosa leggerezza, alle più dense atmosfere della musica russa (Ciajkovskij, Rachmaninov) passando per il goliardico e spumeggiante Offenbach, il drammatico Bizet di Carmen e l’etereo Delibes di Lakmé. E tanto altro, perché non sono mancati Verdi, Puccini, Leoncavallo, il nordico Grieg, il sensuale Lara di Granada, il brillante valzer “da camera” di Arditi e il brio spensierato del musical (My fair lady).
La compagnia di canto era composta da giovani con l’eccezione di una cantante nella piena maturità artistica, il mezzosoprano Marina Comparato che ha dato un gustoso e impegnativo assaggio del suo repertorio attuale. Nata come belcantista nel senso più classico (Rossini, Mozart e non solo) Marina Comparato ha assecondato con attenzione l’evoluzione del suo strumento e ora si affaccia a parti più drammatiche, come Eboli e Carmen. Ottima l’intesa con il soprano nel “duetto dei fiori” da Lakmé e brillante il rendimento nell’aria di Orlowsky. L’esperienza scenica consente alla Comparato di “entrare” nel personaggio con pochi gesti e sguardi che fanno subito teatro anche in un concerto senza costumi.
Brava la spumeggiante Mariam Battistelli, che nonostante la giovane età ha messo in risalto, anche dal lato scenico, tutte le sue qualità di soprano leggero. Ottima intonazione, facilità nella salita agli acuti, assieme a una indubbia comunicativa gioiosa nel canto sono state le sue carte vincenti.
Riccardo Della Sciucca, 27 anni, ha una bella voce di tenore lirico che gli ha consentito di superare, pur con qualche patema, arie impegnative ed esposte a ingenerosi confronti come Nessun dorma e la cavatina di Oronte da I lombardi alla prima crociata di Verdi, oltre che fare da “spalla” nei panni di Don José nella Seguidille cantata da Marina Comparato.
Il basso Viacheslav Strelkov è sembrato assai rinfrancato dopo l’esibizione del concerto natalizio. Certo, qualche problemino – soprattutto di intonazione – rimane, ma gestire una voce così importante da vero basso profondo non è facile. E sicuramente l’aria di Gremin e la cavatina di Aleko (per quanto scritta per baritono) gli si addicono meglio di parti mozartiane piuttosto acute.

Il concerto, che ha ottenuto come ho scritto all’inizio un successo strepitoso, si è chiuso con l’inevitabile bis del Brindisi dalla Traviata.

Franz von SuppéOuverture da Cavalleria leggera
Johann Strauss jr.Aria di Orlowsky da Die Fledermaus
Johann Strauss jr.Schwipslied (Annen Polka)
Jacques OffenbachGlou glou glou da Les contes d’Hoffmann
Petr Il’ic CiajkovskiAria di Gremin da Evgenij Oneghin
Giuseppe VerdiLa mia letizia infondere da I Lombardi alla prima crociata
Giuseppe VerdiNel giardin del bello da Don carlos
Luigi ArditiParla!
Edvard GriegIn the hall of the mountain King da Peer Gynt
Sergej RachmaninovVes tabar spit da Aleko
Georges BizetSur la grève en feu da Les pecheurs de perles
Augustin LaraGranada
Georges BizetSeguidille d Carmen
Franz LehárMeine Lippen da Giuditta
Léo DelibesDuetto dei fiori da Lakmé
Giacomo PucciniNessun dorma
Ruggero LeoncavalloDon, din, don suona vespero da Pagliacci
Frederick LoeweI could have danced all night da My fair lady
  
DirettorePietro Rizzo
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
SopranoMariam Battistelli
MezzosopranoMarina Comparato
TenoreRiccardo Della Sciucca
BassoViacheslav Strelkov
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  

Concerto di Natale al Teatro Verdi di Trieste: poche luci e molte, troppe ombre

I concerti natalizi e di fine anno, ovunque, sono accomunati da caratteristiche simili: lo stile è nazionalpopolare, i teatri sono addobbati a festa, politici e dirigenti si esibiscono in coacervi di luoghi comuni e pagine musicali eterogenee convivono a forza in programmi insensati, il pubblico applaude più o meno coinvolto e se ne va. È stato così anche a Trieste? La risposta è ni.
Non c’era l’ombra di un politico – non è un male – non c’era alcun dirigente del teatro (male), il programma era insensato al top, il pubblico più che plaudente e stanco non c’era o quasi e quelli che c’erano hanno applaudito sì con moderazione ma anche con convinzione in alcuni casi. Il teatro era spoglio, senza decori a parte un vaso di fiori non meglio identificato a lato del palcoscenico. Ora, è pur vero che non sono un critico di addobbi natalizi e non brillo per savoir-faire, ma forse qualcosa di più si poteva fare.
Si è cominciato con una novità, o meglio, un esperimento: due brani di Giovanni Gabrieli, compositore e organista vissuto nella seconda metà del 1500 arrangiati per dodici ottoni dal Primo trombone dell’orchestra triestina: l’ottimo Domenico Lazzaroni. Risultato: rivedibile, almeno a mio gusto, che non ho colto – ignoranza mia – altro merito che l’apertura di una strada che forse potrebbe produrre risultati interessanti in altre occasioni e che è invece ampiamente percorsa in diverse realtà mitteleuropee.
L’Orchestra del Verdi, diretta fiaccamente da Jacopo Brusa, ha dato prestazioni di sé più positive. Voglio dire che se l’Intermezzo di Cavalleria annoia e non emoziona…beh, qualcosa non ha funzionato. Se L’Ouverture delle Nozze di Figaro è scivolata via piatta, al pari di una soporifera Sinfonia dal Barbiere di Siviglia qualche problema c’è stato. Sono solo esempi, ma credo che una guida più appropriata sarebbe stata utile.
C’erano poi i solisti e, spiace dirlo, il basso Viacheslav Strelkov – forse non in perfetto stato di salute, peraltro non annunciato – non è stato all’altezza di un pubblico pagante. Non ci si presenta sul palco per cantare il duettino Là ci darem la mano con lo spartito; è una mancanza di rispetto per gli spettatori di chi ha approvato una simile scelta. Sospendo il giudizio sulle altre due arie di Rossini e Mozart.
Per fortuna, subito dopo si è esibita Marina Comparato nella cavatina di Rosina e finalmente abbiamo ascoltato una cantante vera e soprattutto un’Artista in gran forma, anche se impegnata in un repertorio che ormai frequenta poco. Il mezzosoprano ha poi confermato classe e professionalità sia nella Barcarola da Les contes d’Hoffman sia nell’aria di Fenena da Nabucco, interpretate con garbo e civilissima teatralità.
Brava anche Claudia Mavilia, che ha ben impersonato Zerlina e che ha cantato diligentemente le note di Mimì, ma dell’eroina pucciniana non ha il peso vocale né la maturità artistica per affrontare la parte neanche in concerto.
Buona la prestazione di Andrea Schifaudo, accorato Nemorino e divertito Arlecchino nella Serenata da Pagliacci: voce chiara, solare, buona dizione hanno confermato un rendimento più che sufficiente.
Alla fine due bis corelliani programmati e francamente non richiesti dal pubblico ci hanno fatto ricordare, più che altro, che a Trieste non ascoltiamo il Barocco da una vita.

Salgo già sul trono aurato: la Winterreise di Schubert nella Sala del trono del Castello di Miramare. Bravissimi il tenore Blagoj Nacoski e il pianista Luca Ciammarughi nell’appuntamento organizzato dalla Società dei concerti di Trieste.

Ieri sera, presso la Sala del trono del Castello di Miramare a Trieste e nell’ambito della programmazione della Società dei Concerti, si è svolta una serata dedicata ai Lieder. Protagonista è stata la Winterreise (Viaggio d’inverno) di Franz Schubert su versi di Wilhelm Müller nell’interpretazione del tenore Blagoj Nacoski accompagnato al pianoforte da Luca Ciammarughi. Il ciclo di Lieder era già stato proposto dalla Società dei concerti qualche anno fa, ma nella versione per baritono, protagonista Matthias Goerne.
Ma cos’è un Lied? Letteralmente Lied significa canzone ma la traduzione non è certo sufficiente a darne una definizione compiuta. 
Il Lied nasce in Germania tra il dodicesimo e il quattordicesimo secolo per opera dei Minnesänger, i trovatori tedeschi, menestrelli o cantastorie che con nomi simili (trovador, trobador, trouvèr) storicamente ritroviamo in buona parte dell’Europa. 
Avete presente Il trovatore di Giuseppe Verdi? Ecco, proprio quello, che canta l’amor cortese sotto le finestre di Leonora, accompagnandosi col liuto. Si tratta perciò di musica popolare nel senso più ampio del termine, che col tempo ha assunto caratteristiche più nobili e raffinate grazie a compositori e poeti di livello altissimo. 
La seguente è una definizione di Lied, tratta da Musikalisches Lexicon di Heinrich Christoph Koch, un testo dei primi anni dell’Ottocento. Se ne deduce in tutta evidenza l’estrazione culturale “umile” di questa composizione musicale. 

Un componimento poetico lirico articolato in più strofe, fatto per essere cantato, e unito a una melodia che viene ripetuta per ciascuna strofa; e che è inoltre di natura tale da poter essere cantato da chiunque disponga di una voce normale e ragionevolmente flessibile, sia che abbia ricevuto una qualche istruzione in quest’arte oppure no. 

Schubert si dedicò al Lied con risultati straordinari per qualità e…quantità: ne compose infatti circa seicento.  
Di solito i Lieder sono scritti per pianoforte e voce e possono avere una vita propria, indipendente, come istantanee di una scena singola, oppure essere parte di un ciclo trattando un argomento. Inoltre esistono numerosi esempi di cicli di Lieder che godono di un’orchestrazione più ampia, si pensi solo ai Vier letzte Lieder (Quattro ultimi Lieder) di Richard Strauss. 
Nei Lieder il legame tra parola scritta e note è strettissimo: il canto spesso declamato, irrequieto, deve cogliere le sfumature e le atmosfere cangianti del testo poetico, che soprattutto nel romanticismo oscillano tra abissali introversioni e improvvise esaltazioni di stampo quasi bipolare. 
Il pianoforte è protagonista quanto la voce, non si limita all’accompagnamento ma anzi detta il carattere del brano in virtuosa collaborazione col solista. 
Sono moltissimi i compositori che si sono dedicati all’arte del Lied; solo per fare alcuni nomi cito Mozart, Brahms, Schumann, Beethoven, Berlioz, Wolf, Webern, Strauss. Allo stesso modo i più grandi cantanti di sempre si sono cimentati nell’interpretazione di questo genere musicale: dall’imprescindibile Dietrich Fischer-Dieskau a Fritz Wunderlich, da Elisabeth Schwarzkopf a Hans Hotter. 
La Winterreise è uno dei grandi capolavori del Romanticismo tout court e forse vale la pena ripercorrerne brevemente la genesi. 
Wilhelm Müller, poeta sassone oggi considerato minore – a torto o ragione – nell’universo del romanticismo tedesco, pubblicò tra il 1823 e il 1825 una raccolta di poesie intitolata Wanderlieder – Die Winterreise (Canzoni di un viandante – Il viaggio d’inverno). Risale ad alcuni anni prima, invece, la stampa di un altro celeberrimo lavoro, Die schӧne Müllerin (La bella mugnaia), che con la Winterreise ha un rapporto strettissimo. 
Il ciclo di Lieder fu composto da Franz Schubert in due momenti diversi, tra febbraio e ottobre del 1827 e pubblicato l’anno successivo. Il motivo di questa composizione differita va ricercato nella biografia del poeta e saggista Müller, il quale si scontrò con il governo a causa di uno scritto su George Byron che provocò la censura della rivista per la quale scriveva, di fatto impedendo al compositore di conoscere subito la seconda dozzina di poesie. 
Al centro della narrazione c’è la figura del Wanderer (Viaggiatore), che metaforicamente percorre l’inverno dell’anima prima ancora di quello della natura, in un turbinio polisemico di sentimenti anche contraddittori. Una natura che in qualche modo assume sfumature policrome e trasfigurazioni gotiche nei suoi elementi: gli animali, il vento, l’acqua possono essere oggetto di malcelate speranze o di abissi di sconforto. Il ciclo si spegne, ricco di domande sospese e risposte inespresse, nell’incontro con Der Leiermann (Il suonatore d’organetto), una figura enigmatica e ambigua, criptica.  
Per quanto sia una pagina musicale per voce e pianoforte, l’impatto è fortemente melodrammatico, tanto che – a mio parere inopportunamente – qualche volta la Winterreise è rappresentata in forma scenica. 
Una tentazione cui, per fortuna, si è sottratto Blagoj Nacoski, perché è proprio lui che “costruisce” la scena, in primis con un rapporto quasi carnale con lo spartito che tocca e sfiora e al quale talvolta si aggrappa traendone concentrazione e forza. 
Nacoski, più volte presente al Verdi di Trieste in quelle piccole parti da coprotagonista che rendono grandi le serate, ha carisma e sprigiona un’empatica energia vitale che in alcuni momenti è anche selvaggia, primitiva, ma in ogni caso strettamente legata a un’espressività a tutto tondo. La voce è tipicamente tenorile, ben timbrata, la tecnica di respirazione gli consente un legato di gran classe e allo stesso tempo un fraseggio vario e incisivo, condicio sine qua non per il genere musicale in questione.
Anche dal punto di vista psicologico la Winterreise è complessa da restituire e Nacoski sceglie una lettura ad ampio spettro comunicativo: tempi rilassati si alternano a furori apprensivi che danno risalto alle pause tra un Lied e l’altro e contribuiscono a tenere desta la tensione emotiva del pubblico e dell’artista.  
Molto bravo anche Luca Ciammarughi, ineccepibile dal punto di vista tecnico, che ha assecondato con perizia la movimentata e personalissima interpretazione di Nacoski. 
Alla fine successo strepitoso per entrambi, con numerose chiamate al proscenio da parte di un pubblico attento e partecipe. Da serate così si esce esausti, ma felici di aver condiviso un’esperienza intensa come poche. 
 
 

Recensione polemica de La bohème di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: ovvero la critica al pubblico oltre che quella allo spettacolo

Dopo il vernissage – tutto sommato felice – di qualche settimana fa con Otello, il Teatro Verdi di Trieste ha proposto La bohème di Giacomo Puccini in una produzione della fondazione che era stata cancellata nel 2020 a causa dell’emergenza sanitaria causata dal COVID-19.
È stata una serata particolare, che mi ha suggerito una riflessione che spero non sia banale: mi sono trovato dimezzato, come il Visconte di calviniana memoria. L’allestimento, niente più che dignitoso, mi ha catapultato nel mondo della cosiddetta tradizione senza tempo – ma anche priva di particolari meriti – e non ben definita; le voci mi hanno riportato al 2022.
Mi spiego: la regia di Carlo Antonio De Lucia è inoffensiva, c’è tutto quello che ci si aspetta in una Bohème. La soffitta, i tetti di Parigi con tanto di Torre Eiffel sullo sfondo, i giovani squattrinati che dimagriscono di sogni e speranze, un Café Momus un po’ moscio ma pur sempre vivace, la Musetta soubrette, la neve alla barrière d’Enfer e qui mi fermo perché avrete capito.
Poi si comincia a cantare e appare evidente che le voci, peraltro educate, di alcuni protagonisti sono nel solco della liricizzazione delle parti che oggi impera in tutti i teatri del mondo.
Azer Zada – che ha sostituito last minute il previsto Alessandro Scotto Di Luzio, indisposto – non si sente, soprattutto all’inizio, nonostante in buca Christopher Franklin cerchi di contenere (così mi è parso) il volume dell’orchestra.
L’unica voce davvero “pucciniana” è quella di Lavinia Bini, che infatti lo sovrasta ogni volta che ne ha l’occasione; non per cattiveria ovviamente, è proprio una questione di volume.
Il tenore poi si rinfranca – essere catapultato in una compagnia di canto non deve essere facile – ma il suo Rodolfo manca di anima, di trasporto, di passione. Di sangue. Azer Zada è corretto, non stona, ha gusto, una buona dizione, ma impersonare Rodolfo, sia detto col massimo rispetto per un giovane e promettente artista, richiede un coinvolgimento anche emozionale diverso.
Dicevo dell’allestimento: le scene sono semplici, l’impianto luci essenziale, i costumi più o meno centrati, la caratterizzazione dei personaggi tranquillizzante. Però è proprio in questo tipo di messa in scena che tutto deve essere perfetto, altrimenti si nota subito l’incongruenza. Per esempio, i versi “s’accomodi un momento” e “la prego, entri” di Rodolfo a Mimì non hanno senso se Mimì è già entrata da un pezzo. Sono troppo puntiglioso? Se calligrafismo, perdonate la parolaccia, deve essere che lo sia sino in fondo altrimenti viva le bohème ambientate sulla Luna.
Christopher Franklin ha dato una lettura che definirei prudente della partitura, molto attenta all’accompagnamento ai cantanti e alle dinamiche, un po’ pigra nelle agogiche ma comunque efficace e coinvolgente. Nell’ambito di una narrazione coerente, mi è piaciuto molto il finale, una di quelle pagine in cui il genio di Puccini è abbagliante, con l’orchestra che riprende le note del primo incontro tra Mimì e Rodolfo in un contesto drammaticamente diverso. Inoltre Franklin ha ottenuto dalla brillante Orchestra del Verdi un suono caldo e limpido al contempo, in cui anche quando gli archi spingono i legni si sentono distintamente.
Lavinia Bini, credo al debutto nella parte, è stata pienamente convincente sia dal lato vocale – fraseggio curato, attenzione alla parola scenica – sia da quello attoriale. Ottima la gestione della respirazione, che le ha consentito di legare e alleggerire le note, di “dire” con efficacia ed eloquenza. La voce è ampia, sicura nei gravi, smagliante nel registro centrale e puntuta negli acuti che si espandono in sala grazie a un’emissione di alta scuola. Una Mimì di rilievo, a tutto tondo, molto italiana per passione e smarrimenti quasi adolescenziali.
Discreto anche il rendimento della dinamica Federica Vitali, Musetta giustamente sopra le righe che forse ha gridato un po’ troppo nella scena da Momus ma che ha palesato anche affinità col canto di conversazione più sommesso nel proseguo.
Bravo Leon Kim, Marcello gagliardo, spaccone e iracondo ma anche capace di ripiegamenti riflessivi assai efficaci e dotato di voce adatta per la parte.
Più che sufficienti Fabrizio Beggi, Colline spiritoso nella sua buffa retorica ma anche umanissimo e partecipe compagno di tutti, al pari di Clemente Antonio Daliotti, Schaunard divertente nel soliloquio del pappagallo.
Interessante l’interpretazione di Alessandro Busi, che ha caratterizzato con efficacia sia l’avido Alcindoro sia l’attualissimo Benȏit.
Come sempre solido il rendimento delle parti minori che trovate in locandina e brillanti i ragazzini del coro di voci bianche, ottimo il Coro.
Alla fine successo per tutti, in particolare, mi è sembrato, per Leon Kim e Lavinia Bini.
Il pubblico era abbastanza numeroso ma non straripante e partecipe come dovrebbe essere per un’opera così popolare. Lo spettatore triestino è pacato, sempre inamidato, spesso fané.  A questo punto, se fossi parte del management del teatro rischierei per la prossima stagione qualche titolo desueto e/o una spruzzata di novità con allestimenti che diano una scossa culturale a noi zombie. Erwartung di Schönberg in lingua originale con sottotitoli in cinese potrebbe essere una buona scelta. Una provocazione, la mia? Sì.

La locandina

MimìLavinia Bini
RodolfoAzer Zada 
MusettaFederica Vitali
MarcelloLeon Kim
CollineFabrizio Beggi
SchanaurdClemente Antonio Daliotti
Alcindoro/BenoitAlessandro Busi
ParpignolAndrea Schifaudo
Il sergente dei doganieriDamiano Locatelli
Un doganiereGiovanni Palumbo
Un venditore ambulanteAndrea Fusari
  
DirettoreCristopher Franklin
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaCarlo Antonio De Lucia
SceneCarlo Antonio De Lucia e Alessandra Polimeno
CostumiGiulia Rivetti
  
I Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti da Cristina Semeraro
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste




Recensione espressa e semiseria di Boris Godunov di Musorkskij al Teatro alla Scala: Boring Godunov? No!

Consueta premessa:

Questa recensione è frutto della visione televisiva della prima scaligera, perciò attenzione: solo dal vivo uno spettacolo può essere valutato in modo completo, per ragioni tanto evidenti che non sto neanche a elencare. Detto questo, andiamo avanti.

L’apertura di stagione del Teatro alla Scala con Boris Godunov di Musorgskij non è una novità, per quanto siano passati più di quarant’anni dal 7 dicembre1979, quando Claudio Abbado era sul podio dell’orchestra milanese e Riccardo Chailly suo assistente.
In un momento storico peculiare, la riproposta di Boris Godunov mi sembra sia stato un atto di coraggio e di grande valenza socio-culturale. La Cultura dovrebbe unire, non dividere i popoli e le nazioni.
Di cosa tratta, di là della trama, il capolavoro di Musorgskij? Di Potere, della lotta per il Potere, un tema che ritroviamo spesso nel teatro scespiriano, per esempio, ma non solo. Tratta anche, sottotraccia, di rimorso e senso di colpa; parla delle angosce del popolo russo, infine. Per questo considero il Boris il contraltare in musica di quell’altro monumento della cultura russa che è Delitto e castigo di Dostoevskij.
Certo, alcune analogie col Macbeth sono evidenti, ovviamente scarnificando al massimo, sottraendo epoche e personaggi, in un lavoro che punti al sottotesto, al significato più intimo dell’opera.
Dal lato prettamente musicale, invece, sono solari le suggestioni del grand-opéra di Meyerbeer ma anche del Don Carlos di Verdi.
Il regista Kasper Holten, che si è avvalso delle imponenti scene di Es Devlin, degli altalenanti costumi di Ida Marie Ellekilde e dell’efficace impianto luci di Jonas Bøgh, mi pare abbia fatto complessivamente un buon lavoro.
Ho trovato efficace questo allestimento, a partire dalla grandiosa scena iniziale, ricca di significati metaforici poi ripresi più volte nell’arco della serata. Riuscita anche la rappresentazione dell’iconografia ortodossa. Forse qualche particolare in stile grand guignol si poteva evitare, perché i tormenti di Boris sono nella sua mente, psicologici; acclararli non ha portato ad alcun plus valore allo spettacolo. In ogni caso una regia moderna, che guarda alla tradizione ma che al contempo si adegua alle nuove (?) esigenze del teatro in musica.

La direzione di Riccardo Chailly mi è sembrata strepitosa per pertinenza stilistica e gestione delle dinamiche e delle agogiche. La tensione emotiva che innerva tutta l’opera era sempre presente, anche nei momenti più grandiosi e magari pieni di una retorica voluta e ostentata, come nelle scene di massa in cui il Coro si è reso protagonista di una prova non meno che grandiosa. Allo stesso modo sono state sottolineate con efficacia le pochissime oasi liriche della partitura e valorizzata la parte coloristica, popolare, di un’opera assolutamente straordinaria, misconosciuta e spesso bistrattata colpevolmente.
Grande prestazione dell’Orchestra della Scala, all’altezza della sua prestigiosissima fama, con gli archi morbidissimi e una menzione particolare per le percussioni.
La compagnia di canto è stata complessivamente meritevole e, senza scendere in particolari, ho trovato molto buone le prove di tutti i coprotagonisti, compresi i ragazzini del coro di voci bianche.
Eccellente il Pimen di Ain Anger, giustamente caricaturale Stanislav Trofimov nei panni di Varlaam. Bene anche l’ambiguo Sujskij di Norbert Ernst, mentre ho trovato deboli, ma accettabili, le interpreti di Fedor e Ksenija. Buona la prestazione di Yaroslav Abaimov (L’Innocente).

Ildar Abdrazakov mi è parso un ottimo Boris, che ha interpretato con gusto e realismo controllato. L’artista, che potenzialmente avrebbe potuto spingere sul pedale di una spettacolarizzazione esteriore, ha invece scelto – per fortuna – la strada di una discesa agli inferi intima, riflettuta e riflessiva, che è la vera essenza di un Boris riuscito.
Insomma, buona la prima!
(se mi è scappato qualche orrore ortografico abbiate pazienza)

DirettoreRiccardo Chailly
RegiaKasper Holten
SceneEs Devlin
CostumiIda Marie Ellekilde
LuciJonas Bøgh
Video Luke Halls
CAST
Boris Godunov
Ildar Abdrazakov
Fëdor
Lilly Jørstad
Ksenija
Anna Denisova
La nutrice di Ksenija
Agnieszka Rehlis
Vasilij Šujskij
Norbert Ernst
Ščelkalov
Alexey Markov
Pimen
Ain Anger
Grigorij Otrepev
Dmitry Golovnin
Varlaam
Stanislav Trofimov
Misail
Alexander Kravets
L’ostessa della locanda
Maria Barakova
Lo Jurodivyi
Yaroslav Abaimov
Pristav, capo delle guardie
Oleg Budaratskiy
Mitjucha, uomo del popolo
Roman Astakhov
Un boiardo di corte
Vassily Solodkyy
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