Ultimo appuntamento della stagione del Verdi – è stato aggiunto in luglio un estemporaneo Pipistrello, probabilmente per dare un contentino agli appassionati dell’operetta -, il dittico Pagliacci/Al mulino si è rivelato interessante e coinvolgente. Unica criticità, a mio parere, l’eccessiva lunghezza della serata che si è conclusa a mezzanotte. Forse il teatro di una città che sta diventando turistica dovrebbe prendere esempio proprio dal modello di Venezia a cui, a torto o ragione, si ispira apertamente e programmare l’inizio degli spettacoli almeno un’ora prima del classico orario delle 20.30, o perlomeno farlo quando la durata supera le tre ore. Pagliacci di Leoncavallo mancava dal teatro triestino da vent’anni e perciò vale la pena, credo, spendere due parole su quest’opera che un’intera generazione di autoctoni non ha potuto vedere sul palcoscenico di casa. Fortunatissima da subito, Pagliacci all’esordio a Milano il 21 maggio 1892 beneficiò della direzione di Arturo Toscanini e l’aria più famosa, Vesti la giubba, fu incisa in tempi pioneristici (1903) da Enrico Caruso per la casa statunitense Victor, vendendo qualcosa come un milione di copie. Erano i tempi in cui cavalcando l’onda del successo di Cavalleria rusticana di Mascagni si componevano opere con soggetti ispirati – a dire il vero con una certa libertà – al movimento culturale del Verismo. Giordano, Cilea, Mascagni e, tirandolo per i capelli, anche Puccini in parte della sua produzione sono da considerarsi compositori veristi. Personaggi di basso stato spesso sordidi e marginali, ambientazioni fortemente legate a territori specifici, vicende cruente, sono le caratteristiche salienti dell’opera verista. Nei Pagliacci convergono numerose anime. Può essere vista come un grande esperimento di metateatro, con il famoso Prologo che ci spiega come “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mentre lo svilupparsi la vicenda ci dice il contrario. E, del resto, sembra che per quanto artatamente mascherato il fatto di sangue – l’ennesimo femminicidio e un omicidio – di cui si narra sia realmente accaduto in un paesino calabrese. Ruggero Leoncavallo, wagneriano fradicio, prese dal nume tutelare la convinzione che un compositore dovesse scrivere il libretto per la sua musica e infatti così è per Pagliacci. Ma se Wagner è ermetico, visionario, criptico ed elegiaco nei suoi versi, al contrario Leoncavallo è diretto, sanguigno, astutamente volgare nel suo libretto. E altrettanto empatica, emotivamente coinvolgente è la sua musica che asseconda e rinforza le parole forti dei versi. Valerio Galli, sul podio di un’Orchestra del Verdi che si è ben disimpegnata in tutte le sezioni, ha interpretato la partitura con equilibrio e in linea con la regia di Victor Garcia Sierra, a sua volta ben supportata dai costumi tradizionali e colorati di Giada Masi, dalle scene di Paolo Vitale e dall’impianto luci di Stefano Gorreri : i contrasti dinamici e agogici intensi ma calibrati hanno dato rilievo sia ai momenti più tragici sia alle brevi oasi liriche dell’opera. Non è, Pagliacci, opera da salotti raffinati bensì da polverose piazze popolari; il suono rude, grasso ed epidermico è uno stile, come nelle rozze fotografie di strada di Bruce Gilden che immortalano un’umanità borderline stravolta da un flash sparato in faccia. Nella regia, ridondante solo nelle proiezioni iniziali e con qualche sospetto di horror vacui qua e là, si ritrova tutto ciò che nell’immaginario collettivo deve esserci in uno spettacolo di strada itinerante: donne barbute, figuranti con i trampoli, giostre e accalcarsi di persone col tasso alcolico elevato immerse in un microclima sociale che palesa disagio ed emarginazione. C’è chi vuole qualcosa di più, come Nedda e Silvio, chi ci sguazza come Canio e chi, come Tonio, contribuisce con rabbia a inchiodare a terra le aspirazioni degli altri per vendicarsi di una natura che gli è stata matrigna. In questo senso, Devid Cecconi colora il suo Tonio con la disperata prepotenza di un personaggio di Dostoevskij: non si può salvare il mondo con la bellezza? Beh, allora portiamolo al livello più sordido con l’abominio morale e l’odio. Un’interpretazione intensa, alla quale il baritono aggiunge una vocalità straripante ma controllata e una recitazione misurata nei gesti e nella mimica. Valeria Sepe, voce di soprano che si espande negli acuti, è una Nedda minuta e fragile che si fa amare per il suo tragico e inesausto desiderio di guardare le stelle anche se immersa nel fango. Si concede non a Silvio, ma al miraggio di una vita migliore. Amadi Lagha è un Canio di tradizione, sobrio nella recitazione in una parte che si presterebbe a eccessi e dotato di voce di buon volume e colore mediterraneo. Gli manca, forse, una personalità artistica più marcata che renda incisivo il fraseggio, ma il personaggio è risolto compiutamente. Senza due bravi interpreti di Silvio e Beppe Pagliacci è monca e l’accorato Min Kim interpreta bene il sogno di Nedda allo stesso modo dell’elegante Blagoj Nacoski nell’insidiosa parte dell’Arlecchino. Completavano dignitosamente il cast Damiano Locatelli e Francesco Paccorini. Molto bene il Coro, purtroppo ancora costretto alla mascherina, ed eccellente la prova dei ragazzini del coro di voci bianche. Successo pieno per tutta la compagnia artistica, più volte chiamata al proscenio da un pubblico magari non foltissimo ma partecipe. Dopo un lungo intervallo è stata la volta della sofferta opera di Ottorino Respighi, Al mulino, rimasta incompiuta. Nel libretto di sala si spiega con dovizia di particolari quali sono state le strategie e le motivazioni di Paolo Rosato e Fabrizio Da Ros – sul podio dell’orchestra in questa prima mondiale – per completare dopo più di un secolo la partitura. Un lavoro ancora in fieri, a detta dei prefati protagonisti. Dal mio punto di vista l’opera soffre di qualche lungaggine e di un libretto un po’ troppo verboso nel linguaggio, ma questa prima uscita mi ha convinto perché la musica è coinvolgente nella sua enfatica solennità che non affonda mai nelle melmose spiagge della magniloquenza stentorea. La vicenda è semplice e si svolge In Russia ai primi del Novecento in una famiglia contadina disagiata, dove un padre padrone (Anatolio) maltratta per ignoranza e maschile paternalismo spinto la giovane figlia Aniuska la quale, ovviamente, si innamora di un ribelle oppositore del regime zarista, Sergio. Nicola, operaio segretamente innamorato della bella mugnaia, non vuole in alcun modo che la giovane realizzi il suo sogno e fa il delatore rivelando all’ordine costituito il nascondiglio del fuggitivo Sergio. Aniuska sbrocca alla grande e annega tutti, buoni e cattivi, nelle acque del fiume che alimenta il mulino. Ed è appunto il mulino protagonista della messinscena di Daniele Piscopo, che firma appunto regia, scene e costumi. Allestimento pienamente riuscito nella sua relativa semplicità, che con la sua cupezza incombente macina i sentimenti dei protagonisti e accompagna una musica spesso tetra, violenta e minacciosa dall’incessante incedere. I cantanti, “costretti” a un declamato teso e agitato, sono stati tutti all’altezza della situazione sia dal lato vocale sia da quello scenico ma, almeno dalla mia posizione, alcuni sono sembrati sottodimensionati per volume perché l’orchestra è parsa davvero un muro difficile da superare. A Domenico Balzani non fa certo difetto il volume e con la sua interpretazione ha dato rilievo al viscido Nicola. Zi Zhao Guo (Sergio) è uscito tutto sommato bene da una parte tenorile che mi è sembrata impervia, mentre Afag Abbasova-Budagova Nurahmed (Aniuska), brava dal lato attoriale, ha palesato i limiti di una voce forse troppo esile e ha risolto il personaggio per impegno e partecipazione emotiva. Ancora brillante Blagoj Nacoski (Ufficiale) e accettabile, ma meno centrata, la prestazione di Min Kim nei panni del crudele Anatolio. Funzionale allo spettacolo il rendimento di Cristian Saitta (Pope), Anna Evtekhova (Maria) e Giuliano Pelizon (Soldato), mentre nella breve ma impegnativa parte tenorile (“Solo”) è stato eccellente Francesco Cortese. Buona la prova del Coro. Fabrizio Da Ros ha diretto con grande pathos la compagine triestina, anche in questa occasione brillante, ed è riuscito a trasmettere quella sensazione angosciosa di catastrofe imminente che mi pare la cifra distintiva dell’opera. Alla fine anche in questo caso il pubblico ha applaudito tutta la compagnia artistica, decretando così un franco successo a questa nuova produzione del Verdi.
Pagliacci
Canio/Pagliaccio
Amadi Lagha
Nedda/Colombina
Valeria Sepe
Tonio/Taddeo
Devid Cecconi
Beppe/Arlecchino
Blagoj Nacoski
Silvio
Min Kim
Un contadino
Damiano Locatelli
Altro contadino
Francesco Paccorini
Direttore
Valerio Galli
Maestro del coro
Paolo Longo
Regia
Victor Garcia Sierra
Scene
Paolo Vitale
Costumi
Giada Masi
Luci
Stefano Gorreri
Coro dei Piccoli Cantori della Città di Trieste diretti dal Maestro Cristina Semeraro
Con il singolare dittico Pagliacci/Al mulino si chiude, venerdì prossimo 10 giugno, la stagione operistica al Verdi di Trieste. Una stagione di transizione per vari motivi: Il Covid e l’avvicendamento del sovrintendente sono i più evidenti. Aspetto con ansia il cartellone nuovo, sperando in qualche titolo meno scontato e anche a una stagione sinfonica degna di tal nome. Pagliacci di Leoncavallo è opera davvero singolare e fortunatissima da subito. All’esordio a Milano il 21 maggio 1892 beneficiò della direzione di Arturo Toscanini e l’aria più famosa, Vesti la giubba, fu incisa in tempi pioneristici (1903) da Enrico Caruso per la casa statunitense Victor, vendendo qualcosa come un milione di copie! Erano i tempi in cui cavalcando l’onda del successo di Cavalleria rusticana di Mascagni si componevano opere con soggetti ispirati – a dire il vero con una certa libertà – al movimento culturale del Verismo. Giordano, Cilea, Mascagni e, tirandolo per i capelli, anche Puccini in parte della sua produzione sono da considerarsi compositori veristi. Personaggi di basso stato spesso sordidi e marginali, ambientazioni fortemente legate a territori specifici, vicende cruente, sono le caratteristiche salienti dell’opera verista. Nei Pagliacci convergono numerose anime. Può essere vista come un grande esperimento di metateatro, con il famoso Prologo che ci spiega come “il teatro e la vita non sono la stessa cosa” mentre lo svilupparsi la vicenda ci dice il contrario. E, del resto, sembra che per quanto artatamente mascherato, il fatto di sangue – l’ennesimo femminicidio e un omicidio – di cui si narra sia realmente accaduto in un paesino calabrese. Ruggero Leoncavallo, wagneriano fradicio, prese dal nume tutelare la convinzione che un compositore dovesse scrivere il libretto per la sua musica e infatti così è per Pagliacci. Ma se Wagner è ermetico, visionario, criptico ed elegiaco nei suoi versi, al contrario Leoncavallo è diretto, sanguigno, astutamente volgare nel suo libretto. E altrettanto empatica, emotivamente coinvolgente è la sua musica che asseconda e rinforza le parole forti dei versi. Se digitate la chiave di ricerca “Al mulino” sui motori di ricerca vi farete una cultura sugli agriturismi e magari potete prenotare un pranzo. Dell’omonima opera del compositore Ottorino Respighi si trova poco e io ne so nulla (oh, mica si può sapere tutto eh?): perciò mi limiterò a dare qualche notizia ricavata dalla Rete. Di Respighi come artista, invece, Trieste è sempre stata estimatrice, tanto che il Verdi è uno dei pochi teatri italiani ad aver proposto (troppi anni fa) chicche come La campana sommersa o La fiamma, oltre che, naturalmente, il celeberrimo poema sinfonico I pini di Roma. “Si tratta di un progetto artistico e musicologico fino a ieri considerato impossibile quello di portare in scena “Al mulino”, opera lirica in due atti e un intermezzo, che il compositore Ottorino Respighi, morto a Roma nel 1936, aveva lasciata incompleta. Rosato ha completato l’orchestrazione che Respighi non aveva terminato in seguito ad un diverbio col librettista Alberto Donini, ed ha anche ricostruito il libretto musicato da, compositore nato nel 1879 a Bologna, che solo in parte coincide con quello che Donini aveva scritto, risultando per buona parte invenzione del compositore stesso. Dopo la rottura tra Respighi e Donini, quest’ultimo aveva affidato il proprio libretto a Leopoldo Cassone e l’opera andò in scena il 17 novembre 1910 al Teatro Vittorio Emanuele di Torino. Anche Respighi si era dedicato ad una nuova opera, Semirâma, su libretto di Alessandro Cerè, che andò in scena il 20 novembre del 1910 al Teatro Comunale di Bologna. A Bologna c’era però stata una prima esecuzione del Mulino respighiano, nella versione per canto e pianoforte, sotto forma di audizione privata nel salotto della cantante Margherita Durante nel giugno del 1908, a testimonianza del fatto che Respighi, grande amante della Russia (dove aveva avuto modo di suonare come violista e di studiare composizione con Nikolaj Rimskij-Korsakov), era comunque legato a questo lavoro. Elsa Olivieri Sangiacomo (moglie di Respighi), spiegò che per portare in scena la musica di Al mulino di Respighi sarebbe stato necessario scriverci sopra un nuovo libretto, ed inoltre si era resa conto che alcune sue parti erano nel frattempo state utilizzate dal marito in altre opere. Infine, il secondo atto risultava orchestrato solo per metà. Ad oltre un secolo di distanza dalla data di composizione de Al mulino, superate le difficoltà legate ai diritti morali e d’autore, appare di grande interesse storico e musicologico la possibilità di ascoltare un lavoro sì giovanile ma che è già ricco di spunti e modalità propri del compositore più maturo.
L’ambizioso progetto, fortemente voluto dal direttore d’orchestra Fabrizio Da Ros (primo da sinistra nella foto in altro) e avviato con Paolo Rosato (nella foto in alto e in basso) e col benestare della Fondazione Cini di Venezia (che gestisce l’Archivio Ottorino Respighi), vede ora finalmente la luce grazie alla Opera Production di Enrico Copedè e al Teatro Verdi Trieste”
Ormai siamo quasi pronti per l’inaugurazione della stagione lirica. Prima di disquisire, inutilmente peraltro, sull’orribile fa sovracuto che il tenore dovrebbe (ma per me sarebbe meglio evitare) emettere nel terzo atto, prendiamo atto che Fabrizio Maria Carminati è in ottima forma.Leggi il resto dell’articolo
Hanno detto: