Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Trieste – Teatro Verdi: il Quintetto di Kolja Blacher per la Società dei Concerti

Vado molto meno di quanto vorrei alla Società dei Concerti di Trieste, ed è un peccato perché le serate sono sempre di gran livello.

Credo di averlo scritto già altre volte, nella musica (da camera, nella fattispecie) il Quintetto è una scuola di vita: tutti gli interpreti concorrono alla bontà del risultato finale, senza prevaricazioni, ma al contempo il loro contributo è scoperto, evidente, al contrario di quanto avviene nella musica sinfonica dove i singoli scompaiono nell’opima abbondanza di flusso sonoro.
Questa banale considerazione ha avuto conferma nel concerto di ieri sera dove è stato appunto il Quintetto, declinato dalle diverse sensibilità di Amédée-Ernest Chausson e Johannes Brahms, a essere protagonista con l’ensemble di Kolja Blacher che comprende tre componenti dei Berliner Philharmoniker (Christoph Strueli, Christoph von der Nanhmer e Kyoungmin Park) e altri due solisti di assoluto valore (Claudio Bohorquez e Özgür Aydan).
In un Teatro Verdi piuttosto affollato, considerato che era una serata organizzata dalla Società dei Concerti, si è cominciato con il Concerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21 di Chausson, strutturato in quattro movimenti ed eseguito per la prima volta nel 1892.
Sono rimasto molto colpito dalla fresca e felice inventiva del compositore francese, che mi è sembrato in alcune occasioni (certi arpeggi del pianoforte, in particolare)  anticipare suggestioni dell’Impressionismo di Debussy e l’Espressionismo di Ravel, oltre che rifarsi ai cromatismi wagneriani mantenendo un certo esprit tipicamente francese che si è manifestato specialmente nel quarto movimento (Très animé).
L’andamento emotivo della pagina musicale è fluido, ma alterna con efficacia sprazzi vivaci ad altri più malinconici – il Grave del terzo movimento – mantenendo una narrazione tesa e vibrante.
Eccellente, ça va sans dire, il rendimento dei solisti che hanno dialogato ritagliandosi momenti virtuosistici di grande impatto, come nei rimandi tra violino e pianoforte.
Dopo l’intervallo è stata la volta del Quintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34 di Brahms, che esordì dopo una genesi travagliatissima nel 1866.
In questo caso si è percepita evidente un’atmosfera più saldamente legata all’Ottocento, sia nell’architettura complessiva della composizione sia nella drammaticità spinta di alcuni tratti che hanno ricordato apertamente la monumentalità quasi geometrica di Beethoven.
Il pianoforte è usato in modo del tutto diverso, per esempio, con severa drammaticità e anche con una presenza più corposa di decibel. Interessante, a questo proposito, il saggio di Enzo Beacco contenuto nel libretto di sala, che si sofferma sulle problematiche della corda percossa da un martelletto e quella accarezzata sulla cordiera.
Nella pagina Brahmsiana, di struttura poderosa che tradisce in qualche modo l’originale provenienza sinfonica, convivono echi di danza popolare e oasi riflessive anche drammatiche, ma sempre nell’ambito di un’esposizione che tiene alta la tensione ritmica.
I due movimenti estremi acclarano in modo palese, con la loro simmetricità, la provenienza beethoveniana dell’ispirazione ma al contempo la rendono emotivamente mossa e sorprendente.
Anche in questo caso l’esecuzione è stata eccellente e ha messo in mostra la qualità dell’insieme degli interpreti.
Successo pieno per l’ottavo appuntamento della stagione della Società dei Concerti triestina, con ripetute chiamate al proscenio dei protagonisti che hanno generosamente donato un bis al partecipe pubblico in cui ho notato, con grande soddisfazione, una notevole presenza di giovani.

médée-Ernest ChaussonConcerto in re maggiore per violino, pianoforte e quartetto d’archi op.21
Johannes BrahmsQuintetto in fa minore per pianoforte e archi op.34
  
Koliah Blacher Quintett
  
ViolinoKolja Blacher
ViolinoChristoph Strueli
ViolinoChristoph von der Nanhmer
ViolaKyoungmin Park
VioloncelloClaudio Bohorquez
PianoforteÖzgür Aydan

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Recensione seria dell’ultimo concerto della stagione sinfonica al Teatro Verdi: Gianna Fracca e Alessandro Traversa trionfano con Zemlinky, Rachmaninov e Stravinskij

L’ultimo appuntamento della stagione sinfonica triestina si è rivelato un gran successo, sia per gli indiscutibili esiti artistici sia per l’ottima affluenza di pubblico, con larga partecipazione di giovani.
C’erano svariati motivi di interesse ieri sera: il programma, stimolante, la partecipazione del coro e la presenza sul podio dell’orchestra della fondazione di Gianna Fratta oltre che l’intervento come solista di Alessandro Taverna, eccellente pianista che ha emozionato col suono bellissimo del Fazioli gran coda.
Unico neo – ché la critica questo deve fare, dare suggerimenti onesti – la mancanza di due paginette di presentazione del concerto, a maggior ragione nel momento in cui in scaletta sono proposte pagine musicali non frequentatissime come Petruška di Stravinskij e il Salmo 83 per Coro e orchestra di Alexander von Zemlinsky, di cui si poteva proporre almeno il testo.
Appunto il Salmo ha aperto la serata, con l’emozionante incipit degli archi gravi che ha creato un’atmosfera tesa, presto stemperata dagli interventi del Coro in gran forma e dagli echi prettamente mahleriani – penso soprattutto all’uso degli ottoni e degli archi – del proseguo.
Il Coro, preparato da Paolo Longo, si è ben disimpegnato cantando con potenza e dolcezza allo stesso tempo, in un brano che presenta comunque un ordito orchestrale importante. Bravissima Gianna Fratta sul podio che con gesto deciso ha guidato l’Orchestra del Verdi a una brillante esecuzione. Buono il contributo dei quattro solisti, professori del coro, che trovate in locandina.
Sul Concerto per pianoforte n. 3 in re minore, op. 30 di Sergej Rachmaninov c’è tanta letteratura e credo sia una delle pagine per pianoforte e orchestra più note e apprezzate, anche grazie all’enorme successo mediatico del film Shine della metà degli anni 90 del secolo scorso, che ne ha amplificato – con non poche forzature, peraltro – la popolarità.
Come ho avuto modo di scrivere in altre occasioni, di là del virtuosismo, il concerto richiede un notevole dispendio di energie fisiche, perché il solista non ha un attimo di pace.
L’interpretazione di Taverna è stata veramente eccitante e artisticamente straordinaria, perché in una partitura infuocata e geniale ma spesso ridondante, opima, a tratti anche effettistica, ha trovato il modo di ammorbidire un certo retrogusto declamatorio con la dolcezza e la leggerezza del tocco, un uso del pedale controllato e una varietà di dinamiche che hanno ingentilito e sfumato la narrazione creando atmosfere quasi oniriche.
In questa maniera si sono evidenziate sia l’anima romantica tardo ottocentesca sia quella, meno epidermica, che si scrolla di dosso la tradizione e guarda al presente, a certe oasi liriche di Ravel e all’impressionismo di Debussy.
Gianna Fratta ha ben diretto l’orchestra, gestendone con precisione la ritmica, le agogiche e valorizzando gli interventi dell’oboe, del clarinetto e del flauto.
Alessandro Taverna ha raccolto un trionfo personale e ha premiato il pubblico con un delizioso bis bachiano – l’arrangiamento dell’aria per soprano Schafe können sicher weiden – che ha fatto riflettere sulla grandezza incomparabile di questo compositore, che con “quattro note” otteneva risultati stratosferici.
Dopo l’intervallo è stata la volta di Petruška di Stravinskij, nella versione del 1911.
In questo caso Gianna Fratta ha tratto il meglio dall’Orchestra del Verdi, che in tutta la serata ha dato una preclara dimostrazione di maturità e classe.
Con Stravinskij non si può scherzare: l’atmosfera tesa e al contempo grottesca, fortemente drammatica ma screziata di continuo da un’ironia che spesso sfocia in un sarcasmo crudele non consente distrazioni.
L’uso sistematico delle percussioni, le dissonanze, la varietà di temi anche divergenti devono convivere in modo armonico e unitario che rievoca la follia del carnevale in tutte le sue sfaccettature.
La folla, l’ubriacatura della festa, le contraddizioni dell’anima e della mente si aggrovigliano in un viaggio interiore che procede parallelo e forse anticipa con un linguaggio diverso certe pagine di un romanzo come La montagna incantata di Mann, in cui i dialoghi sembrano perdersi nell’infinito ma alla fine ritrovano equilibrio e armonia chiudendo alla perfezione un cerchio tracciato con mano incerta.
Gianna Fratta è stata capace di un’ottima interpretazione, aggressiva, intensa ma anche poetica; soprattutto attraverso il gesto e la mimica ha comunicato all’orchestra e ai presenti la sua gioia di fare musica. Anche per lei il pubblico triestino ha riservato applausi e acclamazioni, più che meritate.

La locandina

Alexander von ZemlinskySalmo 83 per soli, coro e orchestra
Sergej Vasil’evič RachmaninovConcerto per pianoforte e orchestra n. 3 in re min. op. 30
Igor’ Fëdorovič StravinskijPetruška, scene burlesche in quattro quadri
  
DirettoreGianna Fratta
PianoforteAlessandro Taverna
  
SopranoFrancesca Palmentieri
ContraltoElena Boscarol
TenoreFrancesco Paccorini
BassoGiuliano Pelizon
  
Maestro del CoroPaolo Longo
  
Orchestra e coro del Teatro Verdi di Trieste
  



Grande serata al Teatro Verdi di Trieste nel secondo concerto della stagione sinfonica: strabiliante il violinista Giuseppe Gibboni e bravissimi tutti gli altri

Entrare in un teatro sostanzialmente esaurito fa sempre un certo effetto, anche un pessimista cronico come me ha inaspettati bagliori di fiducia nel futuro e la fila all’ingresso non risulta gravosa.
Comincio la mia cronaca del secondo appuntamento della stagione sinfonica con questa considerazione estemporanea, perché credo che il teatro e la cultura forse non salveranno il mondo ma per certo lo renderanno un posto meno inospitale di quanto sia ora.
Con qualche minuto di ritardo, dovuto a qualche inconveniente che deve aver sofferto il venerabile Konzertmeister Stefano Furini, la serata è principiata con l’Ouverture Egmont di Beethoven, lacerto delle musiche di scena scritte per l’omonimo dramma di Goethe.
Enrico Calesso, sul podio di un’Orchestra del Verdi ultimamente rinvigorita dalla presenza di alcuni giovani soprattutto nella sezione degli archi, ne ha dato un’interpretazione convincente, maschia, in linea con l’ispirazione eroica che permea il brano. In quest’ambito, ho apprezzato il particolare vigore dei contrabbassi.
Giuseppe Gibboni, giovane artista che ha vinto nientemeno che il Premio Paganini nel 2021, è stato il protagonista assoluto della seconda parte della serata. Bella forza, si potrebbe chiosare, era il Primo concerto per violino e orchestra in re maggiore di Paganini!
La realtà, come sempre succede, è un po’ più complessa perché suonare e interpretare sono due cose affatto diverse e ho visto non pochi violinisti limitarsi a compitare note in modo meccanico: belli senz’anima.
Gibboni invece, tanto è composto in scena, nulla concedendo a facili effetti coreografici, tanto è espressivo col suo Balestrieri che sembra un prolungamento del corpo e soprattutto dell’anima.
Ma c’è anche l’orchestra, che soprattutto nell’introduzione dell’Allegro iniziale prepara benissimo l’ingresso del solista; ingresso che è folgorante e ci porta subito nel mondo di quel controverso personaggio che fu Paganini. Salti di ottava violenti e arditi arpeggi sono gestiti non solo con impagabile perizia tecnica, ma anche con un pieno controllo delle fantasmagoriche dinamiche richieste. Il virtuosismo non è mai esibito ma sempre indirizzato a un’esuberanza interpretativa controllata, circostanza poi confermata dal più cantabile Adagio successivo in cui si percepiscono echi di un romanticismo mosso, quasi turbato da oscuri baluginii presaghi di morte.
Bellissimo poi il Rondò finale, di difficoltà tecnica suprema, che mi ha ricordato – chiedo scusa – certi lunari personaggi felliniani e, addirittura, la feroce ironia circense della Quarta di Mahler.
Eccellente il dialogo con direttore e orchestra – belli i pizzicati degli archi – , una comunicazione fatta anche di sorrisi e approvazione di sguardi.
I tre bis finali, i primi due ovviamente capricciosissimi, seguiti da un Preludio bachiano hanno messo il sigillo a un’esibizione strepitosa e trionfale con il pubblico in stato di delirante esaltazione.
Dopo l’intervallo è stata la volta di un grande classico, la Sinfonia n.4 in mi minore di Brahms, che per me è la vetta del pur straordinario lascito del compositore.
Nella sua apparente semplicità, in quei tratti melodiosi scoperti, la pagina musicale nasconde tesori di inventiva che non è certo il caso di analizzare in una semplice recensione di carattere divulgativo.
Dietro al celeberrimo incipit si nascondono abissi da cui si riemerge parzialmente solo alla fine del lunghissimo primo movimento, mentre nell’Andante che segue si percepisce un afflato quasi religioso poi stemperato da un Allegro che cela anche contegnose mestizie.
Nell’ultimo severo movimento, ricco di cromatismi che trascolorano con stupefacente liquidità e impreziosito da un intervento del flauto – ottima la performance di Giorgio Di Giorgi –  si ha quasi la sensazione di essere preda di un turbamento onirico.
Anche in questo caso Calesso ha diretto in modo efficace, privilegiando dinamiche morbide e agogiche rilassate ma non slentate per favorire il fluire omogeneo della musica.
Ottimo il rendimento dell’orchestra, che mi pare davvero in grande crescita artistica e ha confermato, una volta di più, un carattere impetuoso ma controllato.
Il pubblico, come detto all’inizio numerosissimo, ha giustamente acclamato a lungo il direttore e la compagine locale.

Ludwig van BeethovenOuverture Egmont
Niccolò PaganiniPrimo concerto per violino e orchestra in re maggiore
Johannes BrahmsSinfonia n.4 in mi minore
  
DirettoreEnrico Calesso
ViolinoGiuseppe Gibboni
  
  
Orchestra del Teatro Verdi di Trieste






Appuntamento alla Feltrinelli, domani alle 18.

Questo più che un post è una semplice comunicazione di servizio.
Domani alla libreria Feltrinelli in via Mazzini 39, a Trieste, avrò il piacere di presentare il libro Il mito e il sacro in Richard Wagner, dialogando in modo semiserio con l’Autore, Pietro Tessarin.
Qualche mese fa ho recensito il libro su OperaClick.
Sarà una presentazione indolore, fidatevi, e poi tutti a vedere Madama Butterfly al Teatro Verdi di Trieste.
Vi aspetto!

Allestimento bulgaro per Evgenij Onegin al Teatro Verdi di Trieste

È partita la stagione lirica triestina e siamo tutti contenti. Io però, come cerco di spiegare nel dettaglio nell’articolo, vorrei vedere anche a Trieste un altro tipo di teatro. Non più bello, non più moderno o altro: semplicemente più vivo. Non bulgaro nella peggiore delle accezioni del termine appunto, sia detto senza offesa.
Quest’anno con gli allestimenti sarà durissima, lo sento (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

La sonnambula di Bellini al Teatro Verdi di Trieste, ovvero Balla coi pupi.

Ho sempre pensato che la regia possa essere un valore aggiunto a un’opera lirica, e per questa mia convinzione ho dovuto pure litigare – si fa per dire –  e rispondere a mail sdegnate di appassionati scandalizzati per allestimenti a loro parere troppo azzardati. Il problema principale è che per fare una regia non bastano le idee, bisogna anche saperle realizzare bene dal punto di vista scenotecnico.
A seguire la cronaca di una serata che – dal punto di vista di cui sopra – è risultata davvero infelice.
Poi, perché il pubblico triestino abbia massacrato la regia del Flauto magico e lasciato passare l’orribile messa in scena di ieri sera, resta un mistero insondabile. Leggi il resto dell’articolo

Il barbiere di Siviglia di Rossini al Teatro Verdi di Trieste: buona la prima e le repliche saranno ancora meglio.

Insomma, c’è poco da fare e bisogna arrendersi all’evidenza: in molti (e io tra questi, da sempre) vorremmo che il cartellone del Verdi fosse più peculiare (com’è la consecutio? Boh.) nelle scelte dei titoli ma il botteghino conta parecchio e ci dice che le opere più gradite restano quelle più famose.
Perciò niente da fare, non vedrò a breve né Teuzzone di Vivaldi né il Mitridate eupatore di Scarlatti e credo che sarà dura anche per Il Fanatico burlato di Cimarosa o La romanziera e l’uomo nero di Donizetti.
Peccato, da un certo punto di vista.
Voglio dire che l’eterno Barbiere di Siviglia di Rossini è sembrato piacere molto al pubblico triestino che ha affollato il Teatro Verdi (anche se meno di quello che pensavo io).
E pensare che ieri, nell’orrida Venezia, esordiva Gina di Cilea.
Il Barbiere triestino ha sofferto di qualche taglio di rasoio di troppo – a mio parere – ai recitativi e soprattutto al Rondò finale del Conte Almaviva.
Però lo spettacolo è filato via senza intoppi senza che un critico della mia sorte abbia granché da eccepire e il mio scrupolo di proporvi qui Rockwell Blake è solo un’inutil precauzione (strasmile).
Leggi il resto dell’articolo

I mille colori del bianco e nero.

A Trieste, da 36 anni, il Circolo Fotografico Triestino organizza il concorso fotografico internazionale Andrea Pollitzer.
Quest’anno uno dei temi prescelti era Percezioni fotografiche, in collaborazione con l’ONLUS Unione Italiana Ciechi e Ipovedenti di Trieste che festeggiava i novanta anni. Leggi il resto dell’articolo

Carmen di Georges Bizet al Teatro Verdi di Trieste: un primo sguardo strabico.

La prossima settimana, martedì 5 febbraio, debutta al Teatro Verdi di Trieste la Carmen di Georges Bizet, nell’allestimento di Carlos Saura che ho già visto a Firenze nel 2008.
Come sempre, quindi, eccomi puntuale a lanciare qualche sguardo semiserio sull’opera. Leggi il resto dell’articolo

Il recensore recensito: ovvero come rovinarsi una reputazione in poche ore.

Vi sarete accorti, credo, che la mia presenza su questo blog si è piuttosto rarefatta negli ultimi mesi. Il motivo di tale semidiserzione è che stavo preparando il debutto del mio primo lavoro teatrale in musica.

Senza troppi clamori, come peraltro avevo desiderato sin dall’inizio, la mia prima opera lirica (ma non certo la mia prima farsa) ha debuttato la settimana scorsa qui a Trieste, al Filodrammatico.
Il pubblico, piuttosto numeroso, ha apprezzato lo spettacolo in modo quasi incondizionato. La critica ufficiale un po’ meno, ma l’avevo messo in conto.
Qui di seguito alcune recensioni di colleghi apparse sui più disparati organi d’informazione, perlopiù di area germanica.
 
Amfortas (al secolo Paolo Bullo) è il vero figlio del suo tempo, e a noi dispiace che uno dei nostri più grandi artisti e certamente uno dei più geniali pittori di suoni si sia fatto sedurre da un soggetto perverso come il Così Fon Tutte di Philips Rowenta. Ma il consenso generale con cui lo ha ripagato il pubblico di Trieste è la prova inconfutabile che egli ha saputo ben valutare il livello culturale e il gusto artistico della sua epoca.
 
Allgemeine Musik Zcitung, A.Kleffel
 
 
La più pesante provocazione ai nervi, il Così Fon Tutte di Paolo Bullo tratto dal dramma di Philips Rowenta, arde di grandi estasi e passioni: certo è un mondo senz’anima. Poiché il soggetto non permetteva la realizzazione della principale facoltà della Musica, cioè l’espressione della vita interiore, alla musica, voce dell’anima, non è rimasto che l’uso del lato sensuale ed eccitante dei suoi effetti.
L’opera non gioverà allo sviluppo dell’arte drammatico-musicale, e va considerata a sé, audace esperimento di un coraggioso intenditore.
 
Das Blaubuch, W.Kienzi
 
Con una partecipazione senza precedenti e con immenso scalpore Paolo Bullo ha presentato il suo Così Fon Tutte al Teatro Filodrammatico di Trieste. A Trieste, non Roma dove forse la cornice di pubblico sarebbe stata più consona alla solennità dell’evento. Poiché, per quanto sia lodevole che anche le altre grandi città italiane affermino la propria autonomia artistica con tanta solerzia, è altrettanto vergognoso che Roma non sia stata capace di offrire al più interessante compositore contemporaneo la prima della sua opera.
Annunciato ovunque da settimane, assai favorito dall’involontaria pubblicità della censura, l’evento si è compiuto con tutte le formalità di un successo esteriore.
 
Kunstwart, R.Batka
 
Erano anni e anni che un’opera non creava tanta febbrile agitazione – e non solo negli animi musicali – già dall’annuncio della sua uscita, come la trasposizione in musica del Così Fon Tutte di Philip Rowenta da parte di Paolo Bullo. La prima si è rivelata un’occasione specialissima e, come si dice oggi, è stato subito “evento”.
Questa parola gode di grande e sempre crescente popolarità forse per il suo retrogusto commerciale, perché comunque la si usi, a proposito di un’opera d’Arte o di un artista, assicura subito eccellenti guadagni.
 
Zeitschrift der Internationalen Musikgesellschaft, E.Reuss
 
Che Paolo Bullo abbia abboccato all’amo disgustoso dell’atto unico rowentiano è un indizio preoccupante, e si accoda anche troppo con l’ultima produzione del Compositore, per la quale vale il detto “Qui proficit in literis et deficit in moribus, plus deficit quam proficit”, con la differenza che qui literae significano perizia musicale e i mores gusto artistico.
 
Die Grenzboten, Editoriale anonimo
 
Il nostro collaboratore Paolo Bullo ha sfidato il convenzionale pubblico triestino mettendo in musica un testo ardito come il Così Fon Tutte di Philips Rowenta.

Nonostante si sia presentato alla conferenza stampa di presentazione in condizioni psicologiche e fisiche penose, come ben testimonia la foto qui sotto,
Paolo 1
Paolo Bullo non ha saputo destare pietà nelle frange più facinorose e conservatrici dell’intellighenzia culturale triestina, che l’hanno picchiato a sangue subito dopo la fine dello spettacolo.

Hanno fatto bene.
 
OperaClick, La Redazione
 
La decisione di aprire la stagione del Filodrammatico di Trieste con il Così Fon Tutte di Paolo Bullo è il più fedele ed esemplare specchio dei tempi che corrono nel teatro d'opera.
Il Filodrammatico è sempre stato un teatro esemplare, almeno nei suoi primi cinquant'anni di vita, per organizzazione, ricchezza di proposte, abilità ed avvedutezza di gestione.
Non per nulla il manager più significativo nella storia del teatro, era un ingegnere e non mi risulta avesse studi musicali, se non hobbistici, benché figlio di impresario teatrale.

Oggi, invece, i divi passano da un forfait all'altro, inanellano cancellazione per l'assunzione di ruoli impossibili o per tentarne degli altri inadeguati.
Imperano i compositori che rappresentano una Kultura fittizia, vero e proprio verminaio in cui i registi spendaccioni dissipano le già esangui casse dei teatri italiani.
Come sempre siccome la storia non si fa con le chiacchiere, saranno i fatti ovvero le poche riprese che avrà quest’opera insulsa a smentirmi, come mi auguro. A darmi ragione, come son certo.

Anche perché io trovo almeno singolare , se non addirittura sospetto, che la stesura di un’opera che parla d’asciugacapelli sia stata finanziata da una ditta che li produce e porta lo stesso nome dell’Autore, Philips Rowenta, del dramma teatrale.
Possiamo contare, e non ne sentivamo la mancanza, su di un nuovo mostro.

Domenico Donzelli, Il Corriere della Grisi
 
 
Certo, non sono solo critiche positive ma io sono dell’opinione che any press is good press.
Quindi va bene, anzi benissimo così.
Nei prossimi giorni scriverò qualcosa della trama e di come sono distribuite le parti nella compagnia artistica.
Un saluto a tutti.

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