Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione seria e disperata di Orfeo ed Euridice di Gluck al Teatro Verdi di Trieste: O vista, o vista orribile.

Orfeo ed Euridice, qui a Trieste proposta nella versione 1762 scritta per Vienna, è un’opera di svolta nella storia del melodramma perché rappresenta – insieme ad Alceste dello stesso Gluck – quella che è ormai nota come la riforma gluckiana e cioè il rinnovamento (o il primo tentativo di agire in tal senso) dell’opera seria italiana.
Ovviamente il discorso sarebbe ampio e da circostanziare ma la recensione di uno spettacolo non è la sede adatta e perciò mi limiterò alla cronaca di una serata che ha presentato luci e ombre.
Al Verdi di Trieste Orfeo ed Euridice mancava dal 2015, quando il regista Giulio Ciabatti ne allestì un pregevole allestimento.
In questa occasione la regia è stata affidata a un promettente artista triestino, Igor Pison, che a mio discutibilissimo parere ha completamente frainteso il senso dell’opera sia dal lato della pertinenza stilistica sia dal punto di vista della realizzazione della propria idea.
Da sempre sostengo che certi allestimenti polverosi e ripetitivi fanno male al teatro lirico e perciò il mio disappunto non è certo legato al fatto che Pison abbia optato per una trasposizione temporale dell’opera, trasformando Orfeo in una rock star dei giorni nostri con problemi di dipendenza.
Il problema è che il dolore per la scomparsa di una persona cara – che è quello che dà la tinta all’opera – non si affronta in lustrini e vestiti sgargianti e sguaiati, senz’altro funzionali all’idea registica ma di gusto almeno dubbio, e che tanta abbondanza di colori contraddice lo spirito austero, severo e minimalista dell’opera, che è lo snodo di una riforma che voleva evitare proprio gli eccessi interpretativi e la pletora di ornamenti barocchi e baroccheggianti degli artisti.
Inoltre, le grandi rock star sono eccentriche, esagerate negli atteggiamenti, sovrabbondanti di gigioneria, è vero, ma lo sono sul palco e non nella vita privata in cui al contrario di frequente sono insicure, ipersensibili, spesso in conflitto con se stesse e con il mondo. Ne sono esempi proprio Kurt Kobain e Amy Winehouse, loro malgrado membri del Club dei 27, che Pison cita nella presentazione del suo lavoro nel libretto di sala. Quindi avrei preferito che Orfeo, pur rimanendo una rockstar, nel momento del dolore smettesse i panni del grande incantatore di folle e si presentasse in una veste straziata di vita vera e non ancora in quella, finta e artefatta, del palcoscenico.
Perciò, col massimo rispetto del lavoro di Pison, mi chiedo: che valore aggiunto ha apportato la sua regia? Mi ha illuminato su qualcosa? Ha indagato nei rapporti tra i personaggi trovando connessioni nascoste? La risposta a tutte queste domande è no e non solo, viste le prefate considerazioni l’opera ne è uscita impoverita nel suo intimo.
Poi, certo, nel contesto dell’allestimento ho apprezzato l’impianto luci, le scene di Nicola Reichert – soprattutto nella parte “infernale” – ,  ho trovato a tratti suggestive e ben eseguite le coreografie di Lukas Zuschlag in cui i due ballerini rappresentano i Doppelgänger dei protagonisti, mentre i costumi di Manuela Paladin mi sono risultati intrinsecamente indigeribili a prescindere da qualsivoglia considerazione, con l’eccezione delle ombre grigie dell’Ade. L’interazione tra i personaggi mi è sembrata ridotta al minimo e il coro una volta di più statico, con l’eccezione della scena delle Furie.
Enrico Pagano, direttore giovane, non ha ancora trent’anni, era alla testa dell’Orchestra del Verdi opportunamente ridotta nell’organico e ha risolto solo parzialmente la plastica maestosità neoclassica, quasi oratoriale, della partitura gluckiana. La sua è stata un’interpretazione equilibrata ma generica, con dinamiche e agogiche prudenti, pacate, che hanno però appiattito una partitura che invece gronda calore e sensualità. Cito solo l’esempio del quasi recitativo Che puro ciel (eccellente l’oboe) in cui Pagano non ha certo fatto all’orchestra triestina quello che la primavera fa ai ciliegi.
Daniela Barcellona, dopo un inizio prudente, è stata protagonista di una recita in crescendo in cui ha dimostrato totale padronanza del palcoscenico, la capacità di rendere espressivi e convincenti i lunghi recitativi e che per lei le parti en travesti sono quasi il pane quotidiano. La voce è sempre morbida e vellutata, adatta alla parte e gradevole, con alcune sfumature sombre cheimpreziosiscono da sempre il timbro dell’artista triestina.
Ruth Iniesta
era nei panni di Euridice che ha interpretato con una grazia e con un sentimento che facevano a pugni con il terribile costume e la spaventosa parrucca impostale dalla regia. Brava nell’accento e nel fraseggio, il soprano è stata all’altezza anche dal punto di vista scenico e attoriale.
Olga Dyadiv si è discretamente disimpegnata nella parte di Amore, qui tratteggiato dalla regia in modo eccessivamente petulante e frivolo.
Il Coro,
vero e proprio personaggio dell’opera, ha dato ulteriore prova della propria eccellenza.
Pubblico non certo numeroso, che ha applaudito anche con timing rivedibile (a metà dell’aria Che farò senza Euridice) e che alla fine ha apprezzato tutta la compagnia artistica e in particolare Daniela Barcellona, artista di casa. Qualche contestazione per la regia, che però ha anche incassato applausi convinti.
Si replica sino a sabato prossimo, secondo me è uno spettacolo da vedere, nonostante le criticità ampiamente espresse nelle righe precedenti.

OrfeoDaniela Barcellona
EuridiceRuth Iniesta
AmoreOlga Dyadiv
  
DirettoreEnrico Pagano
  
Direttore del coroPaolo Longo
  
RegiaIgor Pison
SceneNicola Reichert
CostumiManuela Paladin
CoreografieLukas Zuschlag
Ballerini solistiAlexandru Ioan Barbu, Georgeta Capriarou
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Solisti del corpo di ballo della SNG Opera in Balet Ljubliana



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