Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Die Fledermaus (Il pipistrello) al Teatro Verdi di Trieste: chiusa con un buon risultato la stagione, ora speriamo bene per la prossima

Con un omaggio ai bei tempi dell’operetta si è chiusa la sofferta stagione di lirica e balletto del Teatro Verdi di Trieste. L’ultimo titolo in cartellone – in realtà aggiunto quasi last minute – è stato infatti Die Fledermaus (Il Pipistrello) di Johann Strauss Jr. che di questo genere musicale è considerato, non a torto, una delle vette più alte.
L’operetta è una forma d’Arte complessa, del tutto inattuale, colpevolmente guardata con malcelato sospetto da certa critica e anche da discreta quota parte di appassionati. A Trieste, per affinità elettive, per fortuna non è mai stato così. Il problema, semmai, è un altro: può l’operetta parlare al pubblico del 2022? E se sì, come deve farlo? La risposta è – almeno a mio parere – restando se stessa e ricordando che allora come oggi, girls (and boys) just want to have fun: abbiamo bisogno di divertirci, soprattutto dopo i lunghissimi problemi dovuti al COVID-19. E perciò ben vengano anche i concerti degli ottoni sulla terrazza del Teatro Verdi, prima della recita.
Die Fledermaus è una gemma preziosa, la musica è d’ispirazione altissima e il passo teatrale spedito, il meccanismo drammaturgico basato su equivoci stravaganti a sfondo scopertamente erotico (sì, stiamo parlando di sesso, non c’è da girarci intorno) e prevedibili agnizioni funziona come quell’orologio che è così importante nella trama. Si potrebbe affermare che l’opera sia un inno alla trasgressione in una società – quella dell’Austria Felix – che invece considerava rispettabilità, forma e decoro come valori imprescindibili. E credo che proprio questa capacità di Strauss di esplicitare il lato oscuro dei cittadini dell’Impero (e dei viennesi in particolare) sia stata la chiave del successo del Pipistrello che consentì all’Autore una vita da rockstar, dopo che per anni fu costretto a lottare con l’influente padre che lo voleva grigio e modesto travet.
In questa occasione la regia è stata affidata a Oscar Cecchi il quale, va subito detto, ha fatto complessivamente un buon lavoro, aiutato da una compagnia artistica duttile e omogenea e dal valore aggiunto di un corpo di ballo, quello del teatro dell’opera di Lubiana, all’altezza della situazione.
Prima dell’inizio, nella stanza di un appartamento in cui spicca – tra le altre cose –  il ritratto di Maria Callas in stile pop art, due attori interpretano la routine di una coppia dei nostri giorni, mentre sullo schermo della televisione scorrono immagini di cronaca che ricordano che la guerra è drammaticamente vicina. Ed ecco, allora, il salto temporale all’indietro, che ci riporta al 1914 ai tempi dell’attentato di Sarajevo ritenuto, in modo assai semplicistico, il casus belli della Prima guerra mondiale. L’opera si chiuderà con l’auspicio che il 2023 sia un anno di pace.
Le scene di Paolo Vitale sono funzionali all’allestimento: primo e terzo atto curati ma quasi minimalisti mentre nel secondo (quello della festa in casa Orlofsky) il kitsch trionfa nei costumi, nei brindisi, nelle danze improntate a una sessualità liquida. È bello vedere che le interazioni tra i personaggi sono curate e che lo spettacolo non è mai statico, anche se al personaggio del Principe Orlofsky manca un po’ di grintosa ambiguità e non esce dirompente come ci si aspetterebbe.
Appropriate e divertenti le coreografie di Lukas Zuschlag, belli i costumi anche se avrei preferito mise più ricercate per i personaggi di Rosalinde e Orlofsky.
Buona, senza entusiasmare, la direzione di Nikola Nägele che nella celeberrima Ouverture è un po’ parco di colori anche se – e gliene va dato merito – evita di enfatizzare con marcati rallentando e indugi eccessivi i valzer, le polke, le csárdás; concede invece alle danze e alle arie più languorose quel respiro ampio e vitale, il brio e la brillantezza che esprimono la gioia di vivere e attenuano la malinconia dei momenti meno lieti della vita.
Tutti all’altezza della situazione i numerosi protagonisti: la più convincente mi è sembrata la brillante Federica Guida (Adele), voce da soubrette di buon volume,  che ha felicemente coniugato un canto brioso e una recitazione scoppiettante.
Ma ho apprezzato anche Alessandro Scotto Di Luzio (Alfred), tenore di bel timbro mediterraneo che nella caratterizzazione registica canta anche numerosi incipit di arie famose del repertorio italiano, e il disinvolto Manuel Pierattelli, che tratteggia un Gabriel von Eisensteinelegante e apprezzabile dal lato vocale.
Fabio Previati (Dottor Falke) si conferma artista a tutto tondo, simpatico in scena e forte di una gradevole voce baritonale.
Marta Torbidoni è stata protagonista di una prova positiva ma forse non ha, almeno per il momento, quella allure e quel carisma che sicuramente potrà acquisire col tempo. La voce è bella, impreziosita da piacevoli screziature sombre e inoltre l’artista è parsa a proprio agio in scena.
Anastasia Boldyreva, nell’ambigua parte en travesti del Principe Orlofsky, è stata capace di una prestazione discreta, anche se il personaggio, come detto sopra, avrebbe meritato una caratterizzazione più decisa.
Completavano brillantemente il cast Stefano Marchisio (Frank), Andrea Schifaudo (Dottor Blind), Federica Vinci (Ida) e il sempre fantasmagorico e vivacissimo Andrea Binetti (Frosch) che del genere dell’operetta è il portabandiera indiscusso.
Molto buone le prove del Coro, ahimè ancora con mascherina, e dell’Orchestra del Verdi, finalmente tornata in buca, circostanza che ha messo in rilievo evidenti miglioramenti dell’equilibrio del suono.
Pubblico non straripante ma, nonostante qualche intervento troppo entusiasta di una mini claque, lo spettacolo ha ricevuto un meritato successo. Nelle prossime recite, una volta passata l’emozione della prima, le cose dovrebbero andare ancora meglio.
Chiudo con un’osservazione e un appello: avrei preferito la versione originale in tedesco, lasciando solo i dialoghi in italiano. Inoltre, lo ribadisco, in caso di spettacoli lunghi l’inizio dovrebbe essere anticipato almeno alle 20.

Gabriele von EisensteinManuel Pierattelli
RosalindeMarta Torbidoni
AlfredAlessandro Scotto Di Luzio
AdeleFederica Guida
Principe OrlofskyAnastasia Boldyreva
Dottor FalkeFabio Previati
FrankStefano Marchisio
FroschAndrea Binetti
IdaFederica Vinci
Dottor BlindAndrea Schifaudo
  
DirettoreNikolas Nägele
  
Direttore del CoroPaolo Longo
  
RegiaOscar Cecchi
CoreografieLukas Zuschlag
ScenePaolo Vitale
  
Orchestra e Coro del Teatro Verdi di Trieste
  
Corpo di ballo della SNG Opera e balletto di Lubiana
  
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Recensioni semiseria de La Vedova allegra di Franz Lehár al Teatro Verdi di Trieste: meglio soldi che male accompagnati.

Alla fine la trama dell’operetta La vedova allegra si potrebbe ridurre al calembour del titolo. E poi diciamolo, tornare a teatro non ha prezzo!

L’operetta a Trieste raccoglie da sempre unanimi consensi ed è quindi comprensibile l’inserimento di un titolo paradigmatico come La vedova allegra di Lehár in questa stagione di transizione.
Tra l’altro anche recentemente l’argomento operetta è stato oggetto di studi, come riportato da OperaClick nel bel lavoro di Luisa Antoni.
Genere musicale peculiare, che galleggia vaporoso in una zona franca ai confini del più austero Singspiel tedesco e della spensierata e graffiante opèra-comique francese, l’operetta alterna brani musicali a dialoghi parlati e intermezzi coreutici.
Lavoro mitteleuropeo per eccellenza, la Vedova Allegra ha in sé una specie di contraddizione schizofrenica: si nutre della decadenza fané dell’impero asburgico ma è ambientata a Parigi, dove si trova l’ambasciata dell’immaginario principato balcanico del Pontevedro.
Da qui, poi, l’intricata e ricca trama della vicenda, speziata da equivoci stravaganti, feste, sberleffi e sapide considerazioni politiche a latere che hanno portato a conseguenze non risibili al debutto a Trieste nel 1907: lo stesso Lehár se ne andò per protesta lasciando il podio a un altro direttore.
Il problema principale dell’allestimento di un’operetta è che non esiste oggi una forma di spettacolo più inattuale: i dialoghi e le battute devono essere ripensati e attualizzati per “parlare” a un pubblico affatto diverso di quello di inizio Novecento. Questa situazione ha spesso portato a forzature, cachinni e giochi di parole grevi più adatte all’avanspettacolo che a un genere che è invece nobile e sofisticato.
Perciò va dato atto subito al regista Oscar Cecchi e al suo team di aver allestito uno spettacolo scevro di qualsiasi volgarità e anzi di aver trattato con divertita leggerezza il tema dell’omosessualità di Njegus, anche grazie alle qualità dell’interprete, Andrea Binetti, che è un artista a tutto tondo ed è risultato il migliore della compagnia proprio per la sua affinità elettiva con lo specifico genere musicale.
Sull’allestimento hanno pesato, anche in quest’occasione, le norme restrittive dovute al contenimento del Covid-19.
Per questo motivo il primo atto – dopo un simpatico momento di metateatro – è parso piuttosto scarno e poco attraente, ma lo spettacolo ha poi preso quota nel proseguo quando, sfoltiti gli intermezzi parlati, le due feste (pontevedrina e parigina) sono state movimentate dalle danze popolari, da uno scenario suggestivo nel racconto dell’incantesimo di Vilja e dal Can-Can da Maxim’s. Molto brava la ballerina solista Cler Bosco, detto per inciso.
Bello l’impianto luci, purtroppo non segnalato in locandina, e adeguate le scene (Paolo Vitale) e le coreografie (Serhiy Nayenko).
Intelligente anche la soluzione di eseguire l’Ouverture Ein Morgen, ein Mittag und ein Abend in Wien di Franz von Suppé durante il cambio scena tra il secondo e terzo atto, che ha consentito al pubblico di restare in sala senza distrarsi.
Per quanto riguarda la compagnia artistica sono stati meritevoli tutti i comprimari elencati in locandina, con un cenno particolare alla sulfurea Praskowia sadomaso di Marzia Postogna. Bene il Coro, preparato da Francesca Tosi.
I protagonisti sono sembrati all’altezza della situazione, considerando che nelle prossime recite l’affiatamento non potrà che migliorare.
Valentina Mastrangelo è parsa a proprio agio nella parte di una Hanna Glawari impeccabile vocalmente ma alla quale forse manca un po’ di quella allure glamour di gran dama carismatica che avrebbe caratterizzato meglio il personaggio.
Gianluca Terranova ha risolto il carattere dello scapestrato Danilo con il gran mestiere e la disinvoltura scenica dell’artista di esperienza.
Molto brava Giulia Della Peruta, maliziosa Valencienne, dotata di una voce che spiccava nei concertati e dalla bella presenza scenica. Elegante Oreste Cosimo nei panni di Camille de Rossilon e convincente Clemente Antonio Daliotti nella parte dello stolido Barone Mirko Zeta.
Eccellente la direzione dell’esperto Christopher Franklin che ha ben evidenziato con charme sia il lato malinconico sia l’esprit più dinamico della partitura, accompagnando con grande attenzione i cantanti. Molto buona in tutte le sezioni la risposta dell’Orchestra del Verdi che, per usare un termine calcistico, giocava in casa: splendidi gli archi, con il Konzermeister Stefano Furini brillante e coinvolto.
Teatro esaurito, pur nei limiti di una capienza forzatamente ridotta, e pubblico felice che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica.

Hanna GlawariValentina Mastrangelo
Danilo DanilowitschGianluca Terranova
ValencienneGiulia Della Peruta
Camille de RossillonOreste Cosimo
NjegusAndrea Binetti
Barone Mirko ZetaClemente Antonio Daliotti
Raoul de Saint-BriocheAndrea Schifaudo
Visconta CascadaFilippo Fontana
PraskowiaMarzia Postogna
BogdanowitschGianluca Sorrentino
SylvianeFederica Giansanti
KromovAlessandro Busi
OlgaPaola Francesca Natale
PritschitschLuca Gallo
Ballerina solistaCler Bosco
  
DirettoreChristopher Franklin
Direttore del coroFrancesca Tosi
  
RegiaOscar Cecchi
ScenePaolo Vitale
CoreografieSerhiy Nayenko
  
  

Orchestra e Coro del Teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste
  

Con la partecipazione del Corpo di Ballo del Lviv National Academic Opera and Ballet Theatre
  

Andrea Binetti, in veste di rianimatore, cerca di resuscitare l’operetta al Teatro Verdi di Trieste.

A volte ritornano, o cercano di farlo. Ma, a mio modestissimo parere, l’operetta per come la conosciamo è morta. Leggi il resto dell’articolo

Il castello incantato di Marco Taralli fa la gioia di 3124 bambini. Ottima iniziativa del Teatro Verdi di Trieste.

Non so quanti bambini (update: sono stati 3124) abbiano assistito alla rappresentazione di Il castello incantato di Marco Taralli, ma azzarderei una cifra notevole perché le recite si sono susseguite dal 19 al 26 febbraio, con due spettacoli al giorno.
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Recensione abbastanza seria di La fille du régiment di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste: Andrea Binetti, gran primadonna.

Insomma, anche questa è andata nonostante la mia temporanea infermità motoria. Infatti, novello Toti, ho lanciato la carrozzina oltre l’ostacolo e mi sono visto la prima in un lussuosissimo e per me inusuale palco.
Certo, mi sono perso più volte nei meandri del teatro e a un certo punto mia moglie ex Ripley mi ha usato indegnamente per fermare le porte dell’ascensore, ma pazienza (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Recensione semiseria del Paese del sorriso di Franz Lehár al Teatro Verdi di Trieste.

Finalmente è tornata a Trieste l’operetta, appunto il Paese del sorriso di Franz Lehár. Come dicevo nel post precedente non è il caso di parlare di “festival”, ma semmai di un auspicio per un ritorno della manifestazione in un prossimo futuro. Un augurio che però vista la situazione economica contingente – non so voi, ma io non riesco a essere ottimista per gli anni a venire – potrebbe restare tale, un po’ come quando si augura stammi bene a un amico malato gravemente. Ok, vedo che vi state esercitando in inquietanti gesti apotropaici (smile).
2014-06-17 19.32.56

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