Insomma, dopo qualcosa come 44 anni (!) il Tannhäuser è tornato a Trieste. È una notizia positiva che va a tutto merito dello staff dirigenziale del Teatro Verdi, però ci sono un paio di considerazioni serie da fare, prima di quelle semiserie.

Intanto, almeno per il momento, l’opera di Wagner è tornata sì, ma per pochi: posti in platea liberi a iosa e palchi poco più che deserti.
Poi, e questo è un argomento che Angelo Foletto ha già sfiorato di sguincio sulla Voce del Loggione, i media tradizionali, parlo in questo caso del quotidiano locale, Il Piccolo, si è limitato a una breve cronaca della serata, poco più della classica “notizia in breve”. Ovviamente non c’entra nulla l’estensore dell’articolo, il collega Claudio Gherbitz, che evidentemente deve restare in un certo numero di battute per ordine di scuderia.
Ora, a me la scuderia evoca animali nobilissimi, i cavalli.
Nella fattispecie mi pare che si possa parlare di asini, perché è inutile pontificare sulla cultura di qua (e di là), su (e giù) e poi non consentire che si possa scrivere una cronaca esaustiva di una serata dedicata all’opera lirica perché magari bisogna dare spazio ad argomenti che godono già di una copertura mediatica imponente.
Spezzo una lancia pro domo mea, quindi, e la spezzo anche in favore di tutti quegli organi d’informazione che si trovano in Rete e che, verrà il giorno, non saranno più considerati con sufficienza“alternativi”, intendendo più che altro semiclandestini e amatoriali, da reputare con un sorrisino di benevolenza pelosa.
Bene.
Ora, io so che è difficile da credere, però fidatevi di questo povero criticastro musicale: il protagonista di questo Tannhäuser triestino, il tenore Scott Mac Allister, è stato molto più bravo dei suoi colleghi che si sono esibiti a Roma, Torino e a Milano nei mesi scorsi. E non di poco.
Ho già scritto che la parte è difficilissima nel post precedente, quindi il contributo del tenore alla buona riuscita dell’opera è fondamentale più che mai. Ebbene, pur senza fare miracoli, ché quelli li lasciamo volentieri ai Santi, parliamo di questo fante statunitense.
Forse perché Mac Allister può vantare una lunga frequentazione del ruolo, forse perché a Trieste non si sente la pressione del pubblico pronto a farti buuu e farti passare il singhiozzo (I loggionisti fanno buh, come ricorderete, è un evergreen, strasmile) il tenore ha cantato bene, ha fraseggiato, ha cercato di non appiattirsi su di uno stentoreo declamato, ha reso l’infelice poeta maledetto tedesco un personaggio vero, palpitante nella sua nevroticità tormentata. Ha lanciato un la naturale grande come una casa alla fine del duetto con Venus del primo atto, tra l’altro.
Onore e gloria a lui, quindi, bravissimo. Certo, non è bello come un Kaufmann, però chissenefrega anche, direi.
Di discreto livello anche l’Elisabeth di Nancy Weissbach, un po’ a disagio in qualche acuto, ma in grado di rendere plausibile una figura femminile abbastanza sfuggente. Forse avrei preferito un po’ di vigore in più nella prima aria (Dich, teure Halle), ma poi nella preghiera del terzo atto l’attitudine a un canto raccolto e misurato è risultata vincente. Mancava solo un po’ di carattere, ecco.
Assai bravo anche Heiko Trinsinger nei panni di Wolfram, personaggio nobilissimo a cui va tutto storto, povero, perché prima accoglie l’amico Tannhäuser dopo che questi, insultando un po’ tutti, aveva deciso che stava meglio tra le lenzuola peccaminose di Venus invece che con gli amici cantori e poi, il brigantello Tannhäuser gli rifà la stessa piazzata (anzi peggio!) in un’occasione ufficiale come la gara dei cantori presso la Wartburg. Senza contare che Elisabeth, di cui è innamorato, non lo caga manco per sbaglio. 
Per forza poi canta il Lied strappalacrime (O du mein holder Abendstern ) con tante mezzevoci, a stento si trattiene dal piangere (smile, spero che non mi legga qualche purista).
Abbastanza male invece Venus, che dovrebbe essere la seduttrice per antonomasia ed invece, per mende tecniche, Andrea Baker trasforma in una specie di desperate housewife. Manca calore, abbandono, nel canto del mezzosoprano, mentre si sentono un vibrato largo fastidioso e un’ascesa in corda doppia sugli acuti, spesso urlacchiati. Da una Venere così ci si allontana senza troppi rimorsi, anche se la cantante può contare su di una bella presenza scenica.
Abbastanza convincente il Langravio di Michael Eder, nonostante qualche sbavatura nel primo atto e qualche forzatura nel secondo. La voce del basso è sufficientemente ampia e sonora per rendere l’autorevolezza del personaggio, ma è mancata un po’ d’umanità, non so come dire, l’interpretazione è stata troppo distaccata specialmente nei dialoghi con Elisabeth.
Corretta la prestazione di Michael Heim quale Walther, anche se la voce del tenore, che in questa versione dell’opera ha anche un breve momento solistico nella scena della tenzone canora, è parsa poco squillante.
Vigorosi e appropriati dal punto di vista scenico gl’interventi di Martin Kronthaler (Biterolf), William Henry (Heinrich) e Christian Tschelebiew (Reinmar).
Di routine le prove del soprano Camilla Illeborg (Giovane pastore) e dei Paggi ( Fabiana Polli, Martina Rinaldi, Jasna Dineva, Margarita Swarczewskaja).
Il direttore Niksa Bareza, alla testa di un’Orchestra del Verdi puntuale e precisa, ha diretto con saldezza rimarchevole e evitando clangori, ma la sua lettura della ricchissima partitura è sembrata fredda e asettica; un’opera che vive di fortissimi contrasti cromatici che rappresentano il turbinio dei sentimenti dei personaggi, richiederebbe un coinvolgimento che non sia solo di facciata, ci vorrebbe anche un’esigenza interpretativa interiore prepotente. Mancavano slancio e calore, tensione drammatica.
Bene il Coro, assai impegnato anche dal punto di vista attoriale nella scena della Wartburg.
Definirei la regia di Achim Thorwald senza infamia e senza lode, così come abbastanza anonimi mi sono sembrati i costumi di Ute Frühling e le scene, didascaliche, di Christian Floeren. Discrete le luci di Gerd Meier e francamente rivedibili le coreografie di Tuccio Rigano, anonime come un pasto in una mensa aziendale.
L’allestimento, tutt’altro che originale ed anzi piuttosto anonimo e tetro, risulta piuttosto statico. Peraltro la trama non è quella di Mission Impossible, l’azione è più nelle psicologie dei personaggi e qui a Trieste non possiamo certo permetterci la Fura dels Baus, ché siamo poverelli.
Pubblico felice e contento, che ha tributato a tutti applausi convinti e fragorosi.
Un saluto a tutti.
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