Se fossi alle prese con il giochino delle associazioni di parole, con ogni probabilità dopo il vocabolo “acqua” risponderei “mare”.
In mare, tutto quello che succede sulla terraferma assume connotazioni più marcate.

Le nostre reazioni emotive sono ampliate o comunque modificate dalla presenza dell’acqua.
Penso, ad esempio, alla tempesta: affrontarne una in mare ed uscirne vincitori regala una patente d’eroismo, è qualcosa da raccontare ai nipoti.
La stessa tempesta, presa su di una statale suburbana, lascia solo i vestiti inzuppati di pioggia e ci espone alle sapide battute degli amici. La nostra impresa eroica diventa un’appendice apocrifa dei film di Fantozzi.
E che dire dei corsari, dei pirati?
Il mare riesce a donare dignità di mito anche ai delinquenti!
Un tale è squallido borseggiatore sugli autobus, ma in mare diventa Long John Silver, roba che Stevenson ne fa un capolavoro della letteratura d’ogni tempo e Björn Larsson uno dei romanzi più appassionanti degli ultimi anni.
Ancora, vogliamo parlare della grandezza di Moby Dick? (riconoscete questo attore, vero?)
Una delle più grandi ed audaci opere dell’uomo è stato il Titanic, scomparso negli abissi a causa di un pezzetto d’acqua ghiacciata. L’acqua ha inghiottito ogni cosa, è stata una tragedia immane ma il minuto successivo all’affondamento sulla superficie del mare c’era silenzio, come non fosse successo nulla.
Lascio ai lettori altre considerazioni, ce ne sono a bizzeffe in tutte le Arti.
Voglio fare un paio d’esempi tratti dall’opera lirica, senza entrare in dettagli troppo tecnici per non appesantire la lettura.
Badate bene, la Lirica è una forma d’Arte che è stata autenticamente popolare per più di tre secoli!
Farò un nome noto a tutti: L’Olandese Volante o il Vascello Fantasma.
Una nave maledetta popolata da non morti al soldo di un altro zombie, l’Holländer, un blasfemo bestemmiatore che ha osato sfidare Dio, pur di superare Il Capo di Buona Speranza; una donna che s’innamora del ritratto di un marinaio, e che si uccide gettandosi in mare.
Il fallimento dell’amore liliale, ma nevrotico, isterico, della ragazza potrebbe essere reso, con un umorismo un po’ macabro di cui mi scuso, con una metafora: “Ha fatto un buco nell’acqua!”.
Ancora, lo stesso artificio letterario ci soccorre quando, con malcelata ironia ed un po’ sprezzantemente diciamo che qualcuno “tira l’acqua al suo mulino” per giustificare qualche nefandezza.
Anche la saggezza popolare, che si dice raccolta nei proverbi, dove le figure retoriche abbondano, ci può essere d’aiuto.
Cosa c’è tra dire ed il fare? L’immensità del mare, appunto.
Siamo perseguitati dalla sfiga? Ebbene acqua a volontà, “piove sul bagnato”.
Ci troviamo in una situazione precaria? Siamo con “l’acqua alla gola” o “navighiamo in cattive acque”.
Ma l’acqua ha altri poteri e mille valenze psicologiche.
Cos’è un’isola se non un pezzetto di terra circondato dall’acqua?
Quando, presi dallo sconforto, affermiamo (un po’ incautamente, diciamolo) che vorremmo essere su di un’isola deserta, il nostro desiderio di stare da soli non è garantito da quel lembo di terra o dalla mancanza di autoctoni, ma dal fatto che tutto intorno c’è una sterminata distesa d’acqua. Diamo per scontato che quell’isola sia lontana dalla civiltà, altrimenti come potremmo trovare l’agognato raccoglimento interiore? Eppure, anche la Sicilia o un isolotto vicino a riva sono, a tutti gli effetti, isole.
C’è un’opera lirica di Giacomo Meyerbeer che s’intitola “Il Crociato in Egitto”, che oggi suona come il titolo di un videogioco.
Ebbene, nelle pieghe dei versi del libretto scritto da Gaetano Rossi, si trova una frase che all’inizio non si rivela in tutta la sua epicità e passa quasi inosservata: “Mare immenso ci separa…”
Grandioso!
Analizziamo i quattro componenti sintattici della frase.
“Un mare”: già basterebbe per perdere la nostra mente in una distesa liquida ed informe d’ipotesi, un labirinto in cui non lascia traccia del nostro passaggio, poiché l’acqua non ci consente di sapere se per quella via siamo già passati, si richiude imperterrita dietro di noi, come la scia di un relitto alla deriva.
“Immenso”: non grande, non enorme, non gigantesco bensì incommensurabile, al di là della nostra comprensione.
“Ci”: chi c’è dietro questo “ci”? Un uomo ed una donna, due popoli, un figlio e una madre, due amanti che si sono perduti?
“Separa”: divide, impedisce di esplicitare i nostri sentimenti, condanna alla solitudine, al rimpianto, al ricordo, all’abbandono, alla perdita.
Quando io penso a questa frase, ritorno indietro di tantissimi anni, alla mia fanciullezza passata all’oratorio.
Il prete mi assicurava che se fossi stato rispettoso dei comandamenti, una volta lasciata questa grama vita, sarei stato “per sempre”accanto a Dio. A me sembrava la più terribile delle condanne, perché non riuscivo a visualizzare, a dare le coordinate nel mio diagramma cartesiano a quel “per sempre”.Capivo solo che significava immobilità mentale e fisica, in una dimensione sconosciuta e ostile alla mia ipercinesi strutturale, mentale e fisica, intendo.
Dalla religione mi separava un mare immenso d’incomunicabilità.
Per questa mia prima uscita credo possa bastare, non vorrei affermare qualcosa che rappresenti la classica “goccia che fa traboccare il vaso”della vostra pazienza.
E se avete trovato questo mio scritto insopportabile, mi raccomando…”acqua in bocca” (smile).
Buon proseguimento a tutti.
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