Alla fine la trama dell’operetta La vedova allegra si potrebbe ridurre al calembour del titolo. E poi diciamolo, tornare a teatro non ha prezzo!
L’operetta a Trieste raccoglie da sempre unanimi consensi ed è quindi comprensibile l’inserimento di un titolo paradigmatico come La vedova allegra di Lehár in questa stagione di transizione. Tra l’altro anche recentemente l’argomento operetta è stato oggetto di studi, come riportato da OperaClick nel bel lavoro di Luisa Antoni. Genere musicale peculiare, che galleggia vaporoso in una zona franca ai confini del più austero Singspiel tedesco e della spensierata e graffiante opèra-comique francese, l’operetta alterna brani musicali a dialoghi parlati e intermezzi coreutici. Lavoro mitteleuropeo per eccellenza, la Vedova Allegra ha in sé una specie di contraddizione schizofrenica: si nutre della decadenza fané dell’impero asburgico ma è ambientata a Parigi, dove si trova l’ambasciata dell’immaginario principato balcanico del Pontevedro. Da qui, poi, l’intricata e ricca trama della vicenda, speziata da equivoci stravaganti, feste, sberleffi e sapide considerazioni politiche a latere che hanno portato a conseguenze non risibili al debutto a Trieste nel 1907: lo stesso Lehár se ne andò per protesta lasciando il podio a un altro direttore. Il problema principale dell’allestimento di un’operetta è che non esiste oggi una forma di spettacolo più inattuale: i dialoghi e le battute devono essere ripensati e attualizzati per “parlare” a un pubblico affatto diverso di quello di inizio Novecento. Questa situazione ha spesso portato a forzature, cachinni e giochi di parole grevi più adatte all’avanspettacolo che a un genere che è invece nobile e sofisticato. Perciò va dato atto subito al regista Oscar Cecchi e al suo team di aver allestito uno spettacolo scevro di qualsiasi volgarità e anzi di aver trattato con divertita leggerezza il tema dell’omosessualità di Njegus, anche grazie alle qualità dell’interprete, Andrea Binetti, che è un artista a tutto tondo ed è risultato il migliore della compagnia proprio per la sua affinità elettiva con lo specifico genere musicale. Sull’allestimento hanno pesato, anche in quest’occasione, le norme restrittive dovute al contenimento del Covid-19. Per questo motivo il primo atto – dopo un simpatico momento di metateatro – è parso piuttosto scarno e poco attraente, ma lo spettacolo ha poi preso quota nel proseguo quando, sfoltiti gli intermezzi parlati, le due feste (pontevedrina e parigina) sono state movimentate dalle danze popolari, da uno scenario suggestivo nel racconto dell’incantesimo di Vilja e dal Can-Can da Maxim’s. Molto brava la ballerina solista Cler Bosco, detto per inciso. Bello l’impianto luci, purtroppo non segnalato in locandina, e adeguate le scene (Paolo Vitale) e le coreografie (Serhiy Nayenko). Intelligente anche la soluzione di eseguire l’OuvertureEin Morgen, ein Mittag und ein Abend in Wien di Franz von Suppé durante il cambio scena tra il secondo e terzo atto, che ha consentito al pubblico di restare in sala senza distrarsi. Per quanto riguarda la compagnia artistica sono stati meritevoli tutti i comprimari elencati in locandina, con un cenno particolare alla sulfurea Praskowia sadomaso di Marzia Postogna. Bene il Coro, preparato da Francesca Tosi. I protagonisti sono sembrati all’altezza della situazione, considerando che nelle prossime recite l’affiatamento non potrà che migliorare. Valentina Mastrangelo è parsa a proprio agio nella parte di una Hanna Glawari impeccabile vocalmente ma alla quale forse manca un po’ di quella allureglamour di gran dama carismatica che avrebbe caratterizzato meglio il personaggio. Gianluca Terranova ha risolto il carattere dello scapestrato Danilo con il gran mestiere e la disinvoltura scenica dell’artista di esperienza. Molto brava Giulia Della Peruta, maliziosa Valencienne, dotata di una voce che spiccava nei concertati e dalla bella presenza scenica. Elegante Oreste Cosimo nei panni di Camille de Rossilon e convincente Clemente Antonio Daliotti nella parte dello stolido Barone Mirko Zeta. Eccellente la direzione dell’esperto Christopher Franklin che ha ben evidenziato con charme sia il lato malinconico sia l’esprit più dinamico della partitura, accompagnando con grande attenzione i cantanti. Molto buona in tutte le sezioni la risposta dell’Orchestra del Verdi che, per usare un termine calcistico, giocava in casa: splendidi gli archi, con il KonzermeisterStefano Furini brillante e coinvolto. Teatro esaurito, pur nei limiti di una capienza forzatamente ridotta, e pubblico felice che ha tributato un notevole successo a tutta la compagnia artistica.
Hanna Glawari
Valentina Mastrangelo
Danilo Danilowitsch
Gianluca Terranova
Valencienne
Giulia Della Peruta
Camille de Rossillon
Oreste Cosimo
Njegus
Andrea Binetti
Barone Mirko Zeta
Clemente Antonio Daliotti
Raoul de Saint-Brioche
Andrea Schifaudo
Visconta Cascada
Filippo Fontana
Praskowia
Marzia Postogna
Bogdanowitsch
Gianluca Sorrentino
Sylviane
Federica Giansanti
Kromov
Alessandro Busi
Olga
Paola Francesca Natale
Pritschitsch
Luca Gallo
Ballerina solista
Cler Bosco
Direttore
Christopher Franklin
Direttore del coro
Francesca Tosi
Regia
Oscar Cecchi
Scene
Paolo Vitale
Coreografie
Serhiy Nayenko
Orchestra e Coro del Teatro lirico Giuseppe Verdi di Trieste
Con la partecipazione del Corpo di Ballo del Lviv National Academic Opera and Ballet Theatre
È partita la stagione lirica triestina e siamo tutti contenti. Io però, come cerco di spiegare nel dettaglio nell’articolo, vorrei vedere anche a Trieste un altro tipo di teatro. Non più bello, non più moderno o altro: semplicemente più vivo. Non bulgaro nella peggiore delle accezioni del termine appunto, sia detto senza offesa.
Quest’anno con gli allestimenti sarà durissima, lo sento (strasmile).Leggi il resto dell’articolo
Hanno detto: