Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione seria di Falstaff al Teatro La Fenice di Venezia: il vecchio John convince anche in laguna con la sua eterna giovinezza

Mancavo dal Teatro La Fenice da un anno e il caso ha voluto che dopo aver visto qualche settimana fa a Trieste la penultima opera di Verdi mi imbattessi nel Falstaff, che del Compositore è il lavoro estremo e forse il testamento spirituale.
Entrambe le opere, Otello e Falstaff, sono tratte da Shakespeare e il librettista è il grande, grandissimo, Arrigo Boito.
Alberto Moravia, nella sua attività di critico cinematografico, ha scritto che “quando si parla di un film tratto da un libro è indispensabile questionare sul film e non sul libro”: mi pare che, mutatis mutandis, sia una considerazione che valga anche per il complesso rapporto testo teatrale/libretto d’opera. Sono linguaggi differenti che esprimono discipline artistiche che a tratti si compenetrano attraverso una grammatica diversa.
Verdi nelle sue lettere a proposito di Falstaff scrive:
Scrivendo Falstaff non ho pensato né a teatri, né a cantanti. Ho scritto per piacer mio e per conto mio! Forse la più vera definizione di creatività che sia mai stata pronunciata, quella ispirazione geniale che ha consentito a Verdi di passare dalle fosche tinte di Otello all’atmosfera surreale e leggera di Falstaff, opera comica, che non frequentava dai remoti esordi.
Da sempre gli appassionati si pongono una domanda: qual è il vero Verdi? Quello delle cabalette infuocate degli anni di galera o quello artisticamente più sfumato e raffinato del Falstaff?
Evidentemente si tratta di una domanda oziosa, forse solo un escamotage per discorrere una volta di più di un compositore straordinario, amatissimo ovunque e i cui lavori sono da sempre tra i più rappresentati. L’Arte di Verdi è ben simboleggiata sia dalla Battaglia di Legnano sia da Falstaff, ultimo lavoro operistico del Maestro, proprio perché ne rispecchiano la parabola artistica e umana.
Adrian Noble, regista, ha le idee chiare: nessun volo pindarico, il suo Falstaff è scespiriano nei luoghi – un’accurata ricostruzione del Globe Theatre – e nello spirito. Le scene (Dick Bird) sono ricche, forse qua e là l’horror vacui fa capolino – il finale è davvero sovraffollato – ma lo spettacolo funziona. I tempi della garbata comicità della vicenda sono perfetti, le controscene meditate e mai soverchianti e si intuisce che Noble ha lavorato parecchio con i cantanti per ottenere un amalgama non solo artistico ma anche spirituale. Anche i movimenti coreografici, di Jeanne Pearce, contribuiscono – pur con qualche ingenuità – alla riuscita dello spettacolo.
I costumi d’epoca (Clancy) sono saporiti, anche se in qualche occasione il kitsch è a un passo, mentre è splendido tout court il lavoro dei light designer Jean Kalman e Fabio Barettin che alternando luci diffuse e fortemente direzionali creano il mood – ora comicamente misterioso ora sereno – dei sei quadri della trama.
Myung-Whun Chung, presenza fissa alle prime della Fenice, è stato come sempre artefice di una direzione di ottimo livello. Grazie a un’Orchestra della Fenice spumeggiante e brillante in tutte le sezioni è riuscito a ottenere quel suono leggero e vaporoso, civettuolo e intrigante, delle numerose scene in cui le donne sono protagoniste. Allo stesso tempo – Verdi è sempre Verdi, dichiara nel libretto di sala – le dinamiche si sono fatte più corpose quando gli uomini esternano i loro istinti pateticamente predatori. Come dico spesso, quando regia e direzione musicale vanno a braccetto, il risultato è garantito e la narrazione teatrale scorre nonostante qualche cambio di scena di troppo.
La compagnia di canto è stata tutta all’altezza della situazione, ma un Falstaff privo di un protagonista carismatico non reggerebbe e in questo caso Nicola Alaimo assolve pienamente al suo compito di catalizzatore di emozioni. La sua è stata un’interpretazione del tutto convincente sia dal lato squisitamente vocale sia da quello, parimenti importante, della caratterizzazione di un personaggio tutt’altro che facile. Alaimo ha recitato per sottrazione, affidandosi a una mimica studiata e al contempo spontanea. Un quieto dinamismo e pochi gesti gli sono bastati per impersonare un protagonista emozionante, nobile e dalle mille sfaccettature.
Vladimir Stoyanov ha risolto con buon gusto il suo Ford, anche se la voce mi è sembrata un po’ meno ricca di armonici di quanto la ricordassi.
Molto brava mi è sembrata anche Selene Zanetti, Alice viperina, maliziosa – “quella che mena la polenta” scrive Verdi – e dinamica in scena quanto convincente nel canto.
Bene anche la Meg ipercinetica di Veronica Simeoni e la spassosa Sara Mingardo, Miss Quickly d’alta scuola per voce e presenza scenica.
Eccellente il rendimento di Caterina Sala, intonatissima e fresca Nannetta e convincente anche René Barbera (Fenton), un amoroso forse un po’ statico ma dalla voce adatta alla parte.
Ottimi i coprotagonisti, intelligenti a non trasformare i loro personaggi in forzate macchiette: Christian Collia (Dr. Cajus), Cristiano Olivero (Bardolfo) e Francesco Milanese (Pistola). Buona la prova del Coro, preparato da Alfonso Caiani.

Insomma la stagione teatrale della Fenice è cominciata benissimo e il pubblico ha premiato tutta la compagnia artistica con grandi applausi; trionfi, meritatissimi, per Nicola Alaimo e Myung-Whun Chung.
Falstaff, testamento spirituale di Verdi, ci ha parlato con il garbo e la profondità di spirito che contraddistinguono Shakespeare e il suo immortale teatro.

DirettoreMyung-Whun Chung
RegiaAdrian Noble
SceneDick Bird
CostumiClancy
Light designerJean Kalman e Fabio Barettin
Regista associato e movimenti coreograficiJoanne Pearce
Sir John FalstaffNicola Alaimo
FordVladimir Stoyanov
FentonRené Barbera
Dr. CajusChristian Collia
BardolfoCristiano Olivieri
PistolaFrancesco Milanese
Mrs. Alice FordSelene Zanetti
NannettaCaterina Sala
Mrs. QuicklySara Mingardo
Mrs. Meg PageVeronica Simeoni
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Maestro del CoroAlfonso Caiani
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Recensione seria di Fidelio al Teatro La Fenice di Venezia: luci e ombre per l’unica opera lirica di Beethoven.

Fidelio, unica opera lirica di Beethoven, ha avuto una genesi travagliata nonostante il compositore avesse concentrato tutte le energie al progetto per ben due anni, dal 1804 al 1806. Dopo che l’opera ricevette un’accoglienza tiepidissima venne il tempo delle modifiche, dei ripensamenti, delle numerose variazioni alla prima stesura. Finalmente, nel 1814 Vienna salutò la versione definitiva.
Il genere operistico del Singspiel, in cui alla musica si alternano dialoghi parlati, fu ritenuto da Beethoven come il più adatto per rappresentare la vicenda, tratta da un testo francese (Léonore, ou l’amour conjugal) di Jean-Nicola Bouilly.
Beethoven è il compositore che ha traghettato la musica del Settecento ad affacciarsi non solo al Romanticismo del secolo successivo ma sino alle porte del Novecento. La lezione mozartiana, appresa e sedimentata, si proietta a impreziosire l’opera d’Arte totale di Wagner e, per certi versi, di Richard Strauss.
Fidelio, proprio per la sua natura di opera di transizione, pone gli esecutori (il direttore, in particolare) di fronte a un bivio: da una parte un’interpretazione protoromantica, dall’altra una visione meno densa e più rarefatta che si rifà a Mozart. Trovare un equilibrio, in una partitura sovrabbondante di sinfonismo, è difficile.
Per il regista, invece, il problema è dare dinamicità a una vicenda in cui l’azione è poca e i personaggi sono caratterizzati in maniera piuttosto secca e brusca, quasi fossero archetipi.
Inoltre, si dovrebbe cercare di sottolineare o valorizzare il messaggio di fratellanza universale che fa da sottotesto alla trama. No all’oppressione, no alla violenza, sì alla giustizia e alla speranza in un mondo migliore.
Immagino che Joan Anton Rechi avesse ben presenti le prefate istanze, ma purtroppo la sua regia non ha colto nel segno sotto alcun punto di vista, limitandosi a una messa in scena statica, grigia in senso lato, appesantita da elementi simbolici piuttosto oscuri, come l’enorme testa scultorea del primo atto. Nella seconda parte la segreta in cui si trova la prigione di Florestan è rappresentata da un buio cunicolo a cerchi concentrici: il risultato non è parso felicissimo, francamente.
Se le scene di Gabriel Insignares non hanno convinto, i costumi di Sebastian Ellrich hanno peggiorato la situazione: sciatti, quasi monocromatici quelli dei prigionieri e banalissimi per i protagonisti.
Bellissimo, invece, l’impianto luci di Fabio Barettin, che è riuscito a dare una certa tridimensionalità alle scene.
Myung-Whun Chung, sul podio di un’eccellente Orchestra della Fenice in cui archi e legni si sono distinti per bellezza di suono, non ha risolto l’enigma Fidelio e anzi, si è complicato la vita sin dall’inizio, scegliendo inopinatamente per l’Ouverture la Leonore n.3 che Beethoven scrisse per la seconda edizione. Un retaggio di una tradizione ormai superata (fu Mahler a proporla per la prima volta), che in ogni caso prevedeva l’inserimento del brano poco prima del finale.
Chung, peraltro, ha connotato di leggerezza le parti di più marcata ascendenza mozartiana (il meraviglioso quartetto Mir ist so wunderbar) e ha dato risalto con dinamiche anche imponenti all’anima sinfonica dell’opera; è sembrato però che la narrazione teatrale proseguisse senza un progetto omogeneo, in modo un po’ caotico.
Tra i cantanti ha ben figurato la granitica Tamara Wilson, capace di tratteggiare una Leonore fiera e determinata e al contempo dolce e impaurita. La voce è importante e ben gestita, per quanto qualche acuto risulti aspro e tagliente.
Ian Koziara era nei panni, temibilissimi, di Florestan, e ne è uscito malconcio. Nella grande aria che apre il secondo atto ha cominciato con una pregevole messa di voce, ma poi è naufragato nel finale in cui la voce si è strozzata senza rimedio. Il tenore si è poi ripreso ma sarebbe da risentire in altra occasione.
Il monolitico e crudele Don Pizzarro ha trovato un buon interprete in Oliver Swarg, che ne ha accentuato i tratti luciferini. Bene anche Tilmann Rönnebeck nell’ambigua parte di Rocco e l’empatico Bongani Justice Kubheca quale Don Fernando.
Buone anche le prestazioni di Ekaterina Bakanova (Marzelline sobria, priva di smancerie) e Leonardo Cortellazzi (gradevole Jaquino). Bravissimi Dionigi D’Ostuni e Antonio Casagrande, primo e secondo prigioniero. Molto buona, considerate le circostanze – le stringenti norme per il Covid-19 -, la prova del Coro preparato come sempre da Claudio Marino Moretti.
Il pubblico che affollava La Fenice – sostanzialmente un sold out – è stato generoso di applausi per tutta la compagnia artistica, festeggiando in particolare Tamara Wilson e Myung-Whun Chung.

Don Fernando Bongani Justice Kubheka
Don Pizzarro Oliver Zwarg
Florestan Ian Koziara
Leonore Tamara Wilson
Rocco Tilmann Rönnebeck
Marzelline Ekaterina Bakanova
Jaquino Leonardo Cortellazzi

Primo prigioniero
Dionigi D’Ostuni  

Secondo prigioniero
Antonio Casagrande  

Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Myung-Whun Chung
Mestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Joan Anton Rechi
Scene Gabriel Insignares
Costumi Sebastian Ellrich
Light designer Fabio Barettin

Myung-Wung Chung e la Nona di Mahler al Teatro La Fenice: un’esperienza quasi mistica.

Come sapete non sono facile ai trionfalismi, ma in quest’occasione è difficile mantenere compostezza nello scrivere.
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Recensione seria di Don Carlo di Giuseppe Verdi al Teatro la Fenice di Venezia: nulla è come appare!

È impossibile cominciare la recensione del Don Carlo di Giuseppe Verdi allestito alla Fenice di Venezia prescindendo dal clima, nel senso più ampio del termine, in cui si è svolto.
Tutti sanno degli effetti della spaventosa ondata di marea di qualche giorno fa, che ha ostacolato – ma non è certo il danno maggiore – le prove dello spettacolo e messo tutti in condizioni psicologiche che definire difficili è pallido eufemismo.
Perciò, come ha sottolineato – forse dilungandosi un po’ troppo – il Sindaco di Venezia Luigi Brugnaro, un ringraziamento va a tutti coloro che sono riusciti a far sì che la prima prevista per ieri, 24 novembre, si svolgesse regolarmente.
Per sdrammatizzare un po’, dicevo ieri che La Fenice è l’unico teatro al mondo che non solo è risorto dalle proprie ceneri ma che si è pure scrollato di dosso le alghe (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Macbeth di Giuseppe Verdi al Teatro La Fenice di Venezia: teatro lirico allo stato puro.

Il Macbeth, tragedia scespiriana tra le più note, è stato spesso oggetto di rielaborazioni, manipolazioni e interpretazioni anche bizzarre.
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Recensione abbastanza seria di Un ballo in maschera al Teatro La Fenice di Venezia: la coppia Meli-Gamberoni illumina un ballo un po’ spento.

Mancavo dall’orrida Venezia da parecchio tempo e, francamente, rivederla è stato il solito dispiacere. Gli ossessivi compulsivi come me hanno bisogno di conferme e, in questo senso, Venezia è formidabile in certi schemi precostituiti.
Scendi dal treno e sai che verrai investito dal trolley di un giapponese e mentre cercherai, a fatica perché gli anni passano, di rialzarti, due sceriffi statunitensi ti investiranno con la carrozzella in cui un neonato obeso succhia un leccalecca gigante a forma di Kim Jong-un. Se sopravvivi – qualcuno ce la fa – potrai cadere svenuto sulla via che ti porta alla Fenice, preda dell’incredibile commistione di aromi di zucchero filato, vongole filippine, castagne, pesce fritto, spaghetti al forse ragù e pizza. I terribili buttadentro dei locali attenteranno alla tua vita a ogni passo mentre tu, nel frattempo, cerchi di schivare gli attacchi degli ormai famosi gabbiani assassini le cui dimensioni sono ormai tali che le grandi navi che scorrazzano in laguna sembrano giocattoli. E, come potete vedere dall’immagine, anche gli aeroporti sono ormai invasi dai pennuti giganti (qui ne vediamo uno che si è mimetizzato da aereo e attacca una pattuglia di caccia militari, che scompaiono quasi).
Insomma, tutto nella norma, perciò passiamo alle cose meno serie (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

Recensione quasi seria del Simon Boccanegra al Teatro La Fenice di Venezia: un piccolo uomo scalzo al comando.

Segnalo in apertura che durante un cambio di scena c’è stato il lancio di alcuni manifestini in cui si contestava la gestione del territorio, segnatamente riguardo il passaggio delle grandi navi da crociera in laguna. Che dire, hanno ragione gli arrabbiati perché è evidente il devastante impatto ambientale che quel via vai di navi enormi provoca alla già orrida Venezia. Ecco qui un’altra eloquente e terribile testimonianza, riferito a una spaventosa mutazione genetica:

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Recensione semiseria di Tristan und Isolde alla Fenice di Venezia.

Comincio con una notizia di stretta attualità: oggi alle 18 presso le Sale Apollinee del Teatro La Fenice di Venezia, Elvio Giudici con la sordida complicità di Alberto Mattioli presenta il suo ultimo libro, di cui ho parlato qui. In bocca al lupo!
Dicevo, nel post precedente, che il Teatro La Fenice ha organizzato questo impegnativo dittico composto da Otello di Verdi e Tristan und Isolde di Richard Wagner.
Dunque, in un’orrida Venezia stranamente meno affollata del solito (probabilmente perché per l’ennesima volta mi sono perso per arrivare alla Fenice e ho percorso calli sconosciute anche a GoogleMaps, strasmile) ieri ho assistito al capolavoro wagneriano.
Viola di Tristan Leggi il resto dell’articolo

Recensione abbastanza seria dell’Otello di Giuseppe Verdi alla Fenice di Venezia: Gregory Kunde su tutti.

IL PROBLEMA SU OPERACLICK *DOVREBBE* ESSERE RISOLTO. BUONA DOMENICA A TUTTI, IO SONO IN PARTENZA PER LA FENICE DOVE VEDRO’ IL TRISTAN UND ISOLDE.

COMUNICAZIONE DI SERVIZIO PER GLI UTENTI DI OPERACLICK: DA QUALCHE ORA IL FORUM NON E’ ACCESSIBILE A CAUSA DELL’ELEVATO NUMERO D’ACCESSI, CHE HA MANDATO IN TILT IL SERVER. STIAMO CERCANDO DI RISOLVERE IL PROBLEMA. GRAZIE PER LA PAZIENZA.

Questa volta l’orrida Venezia non mi ha fornito particolari motivi per incrementare la mia avversione nei suoi confronti, anche le maree sono state clementi ed è già una buona notizia. Certo, ho dovuto schivare uno stormo di piccioni che volavano ad alzo zero, probabilmente perché disorientati dalla nota inversione del campo magnetico terrestre che porterà alla prossima fine del mondo, ma, insomma, nulla di speciale. Trenitalia ci ha messo del suo, invece, inferendomi il ritardo di un’ora su due scarse di tragitto, ma è la norma, ne ho approfittato per cominciare a scrivere la recensione.
Partitura Otello, Fenice Venezia
Quindi, andiamo avanti. Leggi il resto dell’articolo

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