Sabato scorso, in una serata per molti versi da tregenda, ha esordito al Verdi di Trieste il nuovo allestimento della Vedova Allegra di Franz Lehár.
Perché dico da tregenda? Il motivo è semplice, anche se con la musica ha poco a che fare: cominciavano i saldi, il Comune ha organizzato la relativa notte bianca e i triestini si sono lanciati tutti in centro.
Un casino allucinante.
Per l’occasione si sono allestite anche alcune isole pedonali transitorie, perciò il traffico, già di per sé caotico, si è concentrato in un paio di vie, che si sono trasformate in gironi infernali. Tutti contro tutti, ho visto genitori lanciare carrozzelle contro i fuoristrada per farsi largo sulle strisce. Automobilisti che prendevano in ostaggio i vigili e come riscatto chiedevano un posto in parcheggio.
Io stesso ho ancora nel bagagliaio il corpo di un turista austriaco, che aveva tentato di fregarmi un posteggio comunque di malavita, davanti al passo carrabile d’un cantiere edile.
Ecco, finita l’introduzione semiseria (strasmile).
Quest’anno ricorre il quarantennale del
Festival dell’Operetta ma c’è poco da gioire, la fondazione lirica triestina non ha soldi e quindi le celebrazioni sono rimandate a tempi migliori, ammesso che ce ne siano in futuro.
Lo spettacolo è interamente prodotto a Trieste e nella prossima stagione girerà alcuni teatri italiani (Napoli, Verona, Genova). La Vedova Allegra, una vecchia signora ultracentenaria che ha ancora fascino da vendere, è l’unico titolo di questo festival in tono minore.
Sì, certo, ci sono alcune manifestazioni di contorno anche interessanti, però la realtà è che c’è un solo titolo, indorare la pillola serve a poco.
Il regista Federico Tiezzi mette il danaro al centro del suo spettacolo, di evidente ispirazione cinematografica, e ambienta la vicenda nella Parigi dei primi anni trenta del secolo scorso, nel momento della Grande Depressione. Il simbolo di questa regia è la protagonista, Hanna Glawari, che entra in scena uscendo da una cassaforte gigante. Al suo apparire tutti i grafici di Borsa, costellati di segno meno o in picchiata, invertono la tendenza. La vedova ha una dote assai cospicua e se sposerà un residente dello Stato di Pontevedro i bilanci potranno essere risanati.
Comincia quindi la nota commedia degli equivoci che porterà al matrimonio il Conte Danilo e la Glawari.
Lo spettacolo, a mio parere, è riuscito. Sono semplici ma funzionali le scene di Edoardo Sanchi, eleganti i coloratissimi costumi di Giovanna Buzzi ed efficace l’impianto luci di Gianni Pollini. Contribuiscono ad arricchire l’ambiente, senza pesantezze, le videoanimazioni di Antonio Giacomin e la coreografia di Giovanni Di Cicco.
Molto attraente la scena chez Maxim, con relativo scoppiettante can-can.
Il lavoro di Tiezzi è di qualità e di ottimo gusto, forse manca di un po’ di brio e spensieratezza e appare leggermente statico. A questo proposito sarebbe bene provare a coinvolgere di più il Coro (i peana a questi artisti sono sempre troppo pochi!).
Dal lato strettamente musicale, le cose non sono andate benissimo, purtroppo.
Julian Kovatchev conferma che il soprannome mano de pedra che gli ho affibbiato dopo la Norma di qualche mese fa è meritato. L’Orchestra del Verdi, che si disimpegna bene, meriterebbe qualcosa di meglio.
Direzione uniforme, clangorosa, monolitica, della serie “faccio il compitino e vado a casa”. Specialmente nei valzer si sente la mancanza di un po’ d’anima. Vabbè.
La compagnia di canto, ahimé, non era straordinaria (detesto parlare male dei cantanti, non avete idea quanto!).
L’unica a fornire una prestazione discreta è stata
Silvia Dalla Benetta, nei panni di Hanna Glawari. Insomma nulla di particolare, ma almeno ho sentito un paio di filati in pianissimo di buona fattura. Inoltre il soprano vanta un’intonazione adamantina, acuti sicuri e una bella presenza scenica, mentre appare da perfezionare la dizione.
Il baritono
Gezim Myshketa impersonava il Conte Danilo e se dal punto di vista attoriale ha parzialmente convinto (gli manca un po’ di quella allure cialtrona che il personaggio richiede), ha deluso dal lato vocale. La voce è anonima e povera di armonici, costantemente forzata, spesso in difficoltà negli acuti.
Molto peggio ha cantato
Elena Borin, la Valencienne della serata, che ha finito la recita praticamente afona. Forse stava male, non so, ma indisposizioni non sono state annunciate.
Mi ha sorpreso negativamente monociglio
Gianluca Terranova, nelle vesti che per lui dovrebbero essere comode di Camille, abituato com’è al Duca di Mantova o Edgardo. Non so, mi è sembrato deconcentrato, assente, e tutt’altro che ineccepibile vocalmente: gli acuti erano evidentemente forzati.
Oltre a Riccardo Peroni (Barone Mirko Zeta) e Sandro Lombardi (Njegus), il lavoro di Lehàr prevede molti coprotagonisti, che cantano negli ensemble e recitano qualche battuta in prosa. Non hanno demeritato, eccoli qui: Nicolò Ceriani (Cascada), Saverio Bambi (Raoul), Alessio Colautti (Bogdanowitsch), Marzia Postogna (Sylviane), Andrea Binetti (Kromow), Ilaria Zanetti (Olga), Giuliano Pelizon (Pritschitsch), Sara Alzetta (Praškowia).
Pubblico contento e plaudente ma non eccitatissimo, a mio parere.
Spero che nelle prossime recite il rendimento dei cantanti migliori, l’allestimento di Tiezzi lo merita.
Ciao a tutti.
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