Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Il mio pensiero schietto sulla vicenda del Corriere della Grisi

Io e gli autori del Corriere della Grisi non ci amiamo molto. A suo tempo, alla Fenice di Venezia, abbiamo anche avuto un incontro ravvicinato piuttosto imbarazzante, dopo che per anni ce ne siamo dette di tutti i colori sugli spazi di nicchia dedicati alla musica lirica.

Da qualche settimana il loro sito non è più raggiungibile ed è ragionevole pensare che siano stati hackerati, per quanto possa sembrare incredibile.

Se fosse confermata l’ipotesi di cui sopra, a me pare una bestialità inaccettabile che qualcuno voglia impedire ai “grisini” di esprimere la loro opinione e questo ovviamente a prescindere dal fatto che la pensi quasi sempre in maniera diametralmente opposta a loro su cantanti, registi, direttori. E, oltretutto, che consideri incivile, violento e inappropriato il linguaggio in cui scrivono i loro articoli.

Se ci si ritiene diffamati si fa una denuncia a chi di dovere, non si impedisce a nessuno di scrivere o parlare.

O almeno questo è ciò che penso io.

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Recensione semiseria della Traviata di Giuseppe Verdi: la Violetta di Daniela Dessì.

Il caso vuole che solo oggi pubblichi questo post scritto già da un mese, circa.

Lo dico per prevenire chi potrebbe, non senza ragione, farmi notare che proprio nell’ultimo numero di Opera -il noto mensile – ci si occupa, tra le altre cose, dello stesso argomento.
In realtà, quando ho ascoltato questa Traviata il primo pensiero è andato a questa triste vicenda di un anno e mezzo fa.
Sì perché la Violetta di Daniela Dessì avrei voluto vederla in teatro, oltre che ascoltarla in compact disc.
A questo proposito i soliti soloni hanno detto e scritto, con quell’aria di sufficienza che me li rende particolarmente simpatici, che non si sentiva la necessità di un’altra incisione di Traviata.
Io mi oppongo fieramente perché Daniela Dessì non è artista che si possa liquidare con una battuta di dubbio gusto. Anzi, lo dico subito, questa incisione avrebbe meritato un direttore più partecipe dello smidollato-sia detto col sorriso sulle labbra- John Neschling qui impegnato. Il direttore brasiliano infatti è responsabile di una concertazione che si può definire evanescente, routinaria, senza infamia né lode e soprattutto freddissima e priva di personalità.
Traviata Dessì-Armiliato
Circostanza che stride molto proprio con l’interpretazione forte e appassionata di Daniela Dessì, che omette giustamente il mi bemolle di tradizione che chiude il primo atto, scontentando i fanatici della lirica vista alla stregua del salto in alto o del sollevamento pesi, ma inventandosi una “sua” Violetta nel solco della tradizione delle grandi primedonne. Una Violetta che ha una sua firma riconoscibile, tutt’altro che l’ennesima Traviata.
L’accento e la cura del fraseggio, l’attenzione alla parola scenica sono da sempre le armi migliori del soprano e davvero in alcuni momenti – Dite alla giovine, Addio del passato – è impossibile trattenere la commozione di fronte a tanta eloquenza e partecipazione e, più che altro, si maledice il momento in cui a Zeffirelli è venuto in mente di fare lui la primadonna (smile).
Poi, prima che i puristi del belcanto vengano qui a marcare il territorio con le loro pisciatine, dico subito io che oggi gli acuti di Daniela Dessì suonano saltuariamente striduli. E quindi? Questa è una Violetta con i fiocchi, signori, non scherziamo! Ammirevole come il soprano non butti via una frase, ma dia rilievo anche agli incisi salottieri che precedono la festa iniziale.
Ci metto pure una bellissima foto della sua Tosca alla Fenice, un paio di anni fa.
Tosca alla Fenice, 30.05.08
Fabio Armiliato è nei panni di Alfredo Germont e il tenore affronta la parte con cipiglio forse un po’ troppo fiero, più adatto a un Radamès o addirittura a uno Chénier. Ed effettivamente il repertorio attuale di Armiliato è oggi quello del tenore lirico spinto o drammatico (a giorni debutta Otello, dopo lunghi anni di studio, in bocca al lupo!). A mio gusto, comunque, meglio un eccesso di temperamento che l’ignavia di tanti tenorini (s)lavati con la candeggina prestati a Verdi che si sentono sin troppo spesso in giro.
La cabaletta del II atto per esempio, seppure appunto cantata con grande vigore, è efficace, convincente. Nei duetti invece il personaggio è meno a fuoco, perché manca un po’di abbandono e tenerezza.
Molto bravo, ma non è certo una novità poiché l’ho appezzato anche recentemente dal vivo, Claudio Sgura.
La parte di Giorgio Germont è insidiosa e se c’è una cosa che non sopporto è quando il baritono trasforma il padre di Alfredo in una specie di orco sbavante, perché proprio significa non avere idea della psicologia del personaggio. Sgura è invece attento a mettere in risalto anche le contraddizioni, i dubbi, del vecchio genitor.
Sono di buon livello tutti gli artisti che completano la compagnia di canto, e tra di loro mi fa piacere segnalare le ottime prove di Annunziata Vestri (Flora) e Luca Casalin (Gastone).
L’Orchestra del Teatro Regio di Parma si distingue per il bellissimo suono, qualità maturata in un repertorio che conosce a menadito, mentre il Coro del Teatro Municipale di Piacenza è solo corretto.
La registrazione è piuttosto buona, anche se in qualche occasione la voce dei solisti è troppo in primo piano.
Un’osservazione finale: non sono ferrato sui meccanismi che regolano le politiche di vendita delle case discografiche, però mi pare che il cofanetto sia troppo caro. Peccato.
Buon fine settimana a tutti.

Recensione abbastanza seria dei Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi al Regio di Torino: l’impegno civile di Davide Livermore.

I Vespri Siciliani sono sicuramente una delle opere verdiane più difficili da mettere in scena, non è certo una novità.

Il Teatro Regio di Torino – inspiegabilmente “scoperto” in questi giorni da molti appassionati e addetti ai lavori, quando invece è da anni il miglior teatro italiano per intelligenza di proposte e capacità di realizzarle – ha proposto quest’anno un allestimento dell’opera che ha goduto di grande visibilità per i contemporanei festeggiamenti per l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
I biglietti sono pressoché esauriti da tempo, quindi la decisione di trasmettere in diretta televisiva la recita di ieri sera (la prima si è svolta il 16 marzo) sul digitale terrestre (RAI Storia) è stata particolarmente gradita.
Purtroppo, come si temeva dopo le testimonianze dei presenti alla prima, il soprano Sondra Radvanovsky ha dovuto dare forfait per un malanno ed è stata sostituita dalla collega del cast alternativo, Maria Agresta.
Bisogna dirlo subito, la sostituta è stata molto brava e gliene va dato atto.
Il soprano ha una voce di timbro gradevole, probabilmente sottodimensionata per la parte, acuti sicuri, discreta dizione e bella presenza scenica. Solo il registro grave è apparso inadeguato e la cantante, infatti, tendeva a scompaginare nelle note basse la sua linea di canto: insomma, come si dice in gergo in modo non troppo elegante, sbracava un pochino.
La Agresta ha cantato bene l’aria di sortita “In alto mare battuto dai venti”, la successiva “Arrigo, ah parli a un core” e un po’ meno bene il Bolero del quinto atto, ma nel complesso è stata credibile nella parte e la voce nei concertati passava bene l’orchestra.
Inoltre la prestazione, in un contesto scenografico almeno singolare, è risultata di buon gusto e la sua Elena in linea con le esigenze dello spettacolo.
Gregory Kunde è un artista di levatura straordinaria e ci sono numerose testimonianze discografiche, live e in studio, che lo confermano. Da qualche tempo ha deciso di allargare il repertorio ed esplorare i territori, pericolosi assai, del lirico spinto.
La parte di Arrigo è forse la più difficile (e pure tanto lunga!) tra quelle scritte da Verdi per la voce di tenore.
Kunde ha lottato tutta la sera con gli acuti, spesso presi di forza e dando la sensazione di faticare molto, però ne è uscito da grande cantante anche quando è dovuto rifugiarsi nel falsetto, come nel finale dell’opera (ma, per favore, ricordo che quello è un re naturale, non una notarella qualsiasi!).
Una prestazione di buon livello, alla fine, anche se sicuramente il tenore non sarà ricordato per questa parte.
Franco Vassallo ieri sera non mi ha convinto nei panni di Guido di Monforte. Il personaggio si presterebbe a un’interpretazione che ne metta in luce le mille ambiguità e tormenti, ma il baritono ha scelto la strada, per certi aspetti, più comoda, e cioè quella di cantare tutto forte. In questo modo esce la protervia, la violenza insita nel personaggio, ma si tralasciano troppi particolari importanti.
La voce non è preziosissima né per volume né per colore, inoltre, e quindi la scelta d’interpretare il personaggio sulla scia dell’esempio di altri baritoni di un passato anche recente, ma che potevano contare su doti vocali migliori, non è stata felice. La bellissima aria del terzo atto “In braccio alle dovizie” è parsa incolore, piatta e nel duetto che segue con Arrigo ho sentito solo concitazione e poco altro.
Buona la prestazione di Ildar Abdrazakov nei panni di Giovanni da Procida. Forse il basso è, tra gli artisti impegnati in questa produzione, quello che ha mostrato la linea di canto più pulita.
La voce è piuttosto chiara ma sonora e l’emissione morbida, mai forzata. Ben riuscita la grande aria “O tu Palermo” e sempre pertinente e azzeccato l’accento.
Per quanto riguarda i comprimari, che mi sono parsi di livello modesto, vi rimando alla locandina.
Magnifica la direzione di Gianandrea Noseda, sul podio di un’ottima Orchestra del Regio, sin dalla bellissima Ouverture iniziale. Tutto ha funzionato benissimo, compresi gli impegnativi concertati. Particolare attenzione il direttore ha dedicato all’accompagnamento ai cantanti, sempre sostenuti da un’orchestra che suonava per sostenerli senza compiacimenti e clangori.
Molto bene anche il Coro, assai impegnato anche dal punto di vista scenico.
La regia di Davide Livermore meriterebbe, almeno per rispetto nei suoi confronti, un post a parte. Non ne ho il tempo, però. In Rete si trovano con facilità discussioni in merito, esagerazioni comprese.
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Non temo le decontestualizzazioni, anzi, trovo che siano uno strumento utile per mantenere in vita il teatro lirico.
La mia idea è che Livermore abbia messo troppa carne al fuoco e lo spettacolo in alcuni momenti sia confuso, con qualche scivolata di troppo nella retorica nazionalpopolare. Livermore spara metaforicamente a troppi bersagli (la politica, la televisione, la mafia ecc ecc) e si rischia l’effetto saturazione e, soprattutto, che le scene distolgano dalla musica.
Però è anche uno dei pochi registi che sa leggere una partitura in primis e poi non lascia nulla al caso ma anzi pretende molto da tutta la compagnia artistica. Grazie a questo lavoro minuzioso lo spettacolo si svolge sino alla fine in modo coerente con le dichiarazioni che ha rilasciato prima, durante e dopo la serata.
Dichiarazioni improntate di un impegno civile che merita attenzione e non scherno.
Mi pare che il pubblico, almeno ieri sera, abbia tributato un grandissimo successo a questi Vespri.
Io la mia opinione l’ho detta, buon fine settimana a tutti.
 
 

Avanti al centro contro gli opposti estremismi, come diceva Guccini.

Superior stabat ministerQuesti gli artisti protagonisti del simpatico flash mob andato in onda nella trasmissione Zelig:

Falstaff Alessandro Corbelli
Alice Federica Giansanti
Fenton Danilo Formaggia Mirko Guadagnini
Quickly Romina Tomasoni
Ford Carlo Morini
Nannetta Gemma Bertagnolli
Meg Alessandra Palomba Gabriella Sborgi
Pistola Federico Sacchi
Cajus Enea Scala
Bardolfo Patrizio Saudelli

Al pianoforte Damiano Cerutti
Maestro concertatore Alessandro Carnelli

Alla Scala di Milano, dopo la recita di Tosca del 22 febbraio, accolta dal pubblico con esito complessivamente favorevole e un po’ di fischi a mio parere esagerati (ho sentito la registrazione, grazie a un amico presente), c’è stato un fuori programma anche nelle immediate vicinanze del teatro.

Si sono scontrati verbalmente due gruppi di melomani e, per poco, non si sono messi le mani addosso.
Il motivo del contendere non è stato la resa artistica intrinseca dello spettacolo, va detto subito.
C’era molto malumore da parecchio tempo tra due opposte fazioni di spettatori. Alcuni ritengono che le contestazioni siano troppo frequenti nel teatro milanese e che l’immagine dell’ex tempio della lirica ne esca ulteriormente danneggiata.
Qualche addetto ai lavori, sottovoce, sostiene che artisti piuttosto famosi e anche qualcuno piuttosto bravo (strasmile) siano riluttanti a esibirsi alla Scala, avvantaggiando palcoscenici meno impegnativi dal punto di vista emozionale.
Sull’argomento ci sarebbe da dire (ed è stato detto) molto, ma a me preme puntualizzare solo una cosa.
Ho letto sia sulla stampa sia in alcuni siti che questo incontro-scontro tra “tifosi” è da considerarsi come segno di vitalità e autentica passione per la lirica, perché rinnova i fasti (?) delle liti tra i sostenitori della Callas e quelli della Tebaldi, per esempio.
Ecco, io credo che da rimpiangere siano la Callas e la Tebaldi (e pure loro sino a un certo punto, perché mica possiamo passare la vita a rimpiangere il passato), non quelli che si menavano per strada o altre prelibatezze del genere.
Vero?
Quindi assegno un posto di platea ai due schieramenti nell'immaginario teatro dei nuovi mostri.
Qui l’opinione di Daland sulla vicenda.
Poi, passando ad altra e ben più importante questione, quella dei folli tagli alla cultura e al FUS, segnalo l’iniziativa dei Cantori Professionisti d’Italia, che ieri si sono simpaticamente esibiti nella seguitissima trasmissione Zelig di Mediaset.
Cliccare qui per vedere il breve video.
Ricordate inoltre di firmare e di diffondere la petizione di cui ho già parlato un mese fa.
Buon fine settimana a tutti!
 

Recensione semiseria di Samson et Dalila al Teatro Verdi di Trieste: gli Ufo sono tra noi, e non è bello.

La novità è che con questo post comincia una collaborazione con Francesco Vittorino, che è l'autore di questo blog. Chiaro che io ne avrò solo vantaggi, speriamo che sia così anche per lui!
La vignetta è amara, ma il sorriso e il divertimento sono sempre un po' così, vero?
Samson et Dalila

Bah, io direi che si può cominciare a parlare di Samson et Dalila con un po’ di polemica, tanto per ravvivare gli animi e non farci mancare qualche commento astioso (strasmile).
Partitura Samson

Una regia, quella di Michal Znaniecki, stravagante, inutile e credo pure piuttosto costosa perché a un certo punto c’era tanta di quella gente e talmente tanti oggetti in scena che sembrava di stare alla Fiera di San Nicolò, che i triestini conoscono bene. Mancava solo, che ne so, quello che fa l’hamburger più grande del mondo e lo zucchero filato.
Filato come se la sono filata molti spettatori già alla fine del primo atto, ma non certo perché lo spettacolo non era di loro gradimento. Semplicemente perché vengono a teatro solo per stare quella mezz’ora nel foyer, a parlar male l’uno dell’altro appena si gira la schiena.
Il pubblico delle prime è così ovunque e io lo dico chiaro, questi registi e questo pubblico non servono all’opera, anzi fanno solo danno. Che se ne stiano a casa, l’uno a coltivare il proprio narcisismo e l’altro a guardare il Festival di Sanremo. Almeno non vedrò poveri cantanti salire perigliosissime scale antincendio e non sentirò perle di saggezza tipo quest’opera non ha senso, non c’è un momento per riposarsi ed è tutto un rumore di fondo dell’orchestra.
Bene.
Dicevo della regia, che è incorsa nel peggior reato possibile: procurata distonia tra musica e azione scenica.
In sostanza abbiamo visto gli UFO mentre si narra una vicenda biblica, tutta sacralità, raccoglimento e cori quasi gregoriani.
Samson et Dalila foto di scena
Alcuni momenti imperdibili: le ballerine che entrano in scena a guisa di zombie nel videoclip Thrillers di Michael Jackson, il Gran Sacerdote di Dagon vestito da albero di Natale con le lucine intorno al collo, lo stesso Sacerdote che ci mette un quarto d’ora a strangolare il veillard hébreu che nel frattempo si dimena come una biscia, gente che fa disegni dal significato oscuro un po’ dove gli pare, e tutti i Filistei (gli Ufo, appunto) con un mega copricapo che procura una tragedia ecologica in testa (strasmile).
Potrei andare avanti, ma credo che possa bastare.
Scene di Tiziano Sarti, costumi di Isabelle Comte, coreografia di Aline Nari, luci di Bogumil Palewicz, il tutto coordinato dalla povera assistente di regia, Eleonora Gravagnola. Incolpevole quest’ultima, perché chi riprende uno spettacolo di altri sostanzialmente si limita ad adattare l’allestimento al palcoscenico.
Aggiungo solo che il buon regista avrebbe bisogno di uno psicologo (magari bravo, sarebbe meglio) perché la scena è o del tutto spoglia oppure, per riparare a un irrefrenabile attacco di horror vacui, strapiena. Allo stesso tempo però riesce a rendere ancora più statica una vicenda che già di suo non è il massimo dell’ipercinesi.
Meglio la parte strettamente musicale.
Fatti subito gli omaggi e gli inchini del caso all’Orchestra e al Coro del Verdi (teniamoci stretti questi artisti, altroché epurazioni…) passo al direttore, Boris Brott.
Una lettura corretta ma un po’ piatta, quella del maestro canadese. Sono mancati un po’ di passione e sentimento, un po’ di languore, ma almeno, anche nel baccanale, non ho sentito clangori e l’accompagnamento ai cantanti è stato attento e meticoloso, anche se sempre freddino.
Insomma una sufficienza se la merita.
Ian Storey- Samson foto Parenzan
Ian Storey era nei panni ipertricotici e poi ipovedenti e scarsicriniti di Samson e non ha demeritato, anche se la voce è bruttina e la sensazione di sforzo costante. La parte è di scrittura centrale e quindi adatta all’artista che declama con una certa cura di fraseggio e belle intenzioni interpretative.
Un po’ debole la sortita (Arrêtez, ô mes frères) che richiederebbe un accento più imperioso ma buona poi la resa nel duetto, con addirittura qualche bella mezza voce, nella scena della macina e nel finale concluso con un acuto sicuro e penetrante.
Si aggiunga un’imponente figura che indubbiamente s’attaglia al personaggio e una discreta recitazione.
Avevo dubbi sul rendimento di Elena Bocharova, la Dalila di questa produzione, dopo averla sentita nel Requiem di Verdi pochi giorni fa. In realtà il mezzosoprano, pur senza strabiliare, ha cantato in modo discreto.
Certo, il timbro è anonimo e qualche acuto esce schiacciato, ma il volume nel registro centrale è buono e la parte gravita appunto in quella zona.Storey (Samson) Bocharova (Dalila)- foto Prenzan
Nei due momenti in cui l’artista è più esposta (le melodie sono celeberrime o dovrebbero esserlo, meglio dire), l’aria Printemps qui commence e il duetto del secondo atto con Samson che comprende il lungo inciso Mon coeur s’ouvre à ta voix, se la cava egregiamente, grazie a una buona gestione della respirazione che le consente di legare le lunghe frasi melodiche di Saint Saëns.
A completare una discreta prova artistica, da sottolineare una recitazione appropriata, senza atteggiamenti da vaiassa che ogni tanto affliggono questa parte.
Claudio Sgura (poraccio, costretto a cantare in quelle condizioni… se lo vedo gli chiedo come ci si sente), in una parte che non prevede certo grosse finezze psicologiche, ha impersonato bene il Gran sacerdote di Dagon facendo sfoggio di una voce importante come volume e robusta come fibra. Interessanti gli autorevoli accenti nel duetto del secondo atto con Dalila e la beffarda ironia dello scherno a Samson nel terzo atto.
Corretto Alessandro Spina, voce più da baritono che da basso, nella breve ma impegnativa parte di Abimélech.
Vocalmente bravo e incisivo dal punto di vista della recitazione il basso Alessandro Svab nei panni del veillard hébreu.
Routinari gli interventi di Alessandro De Angelis (Premier Philistin), Dario Giorgelè (Deuxième Philistin) e Federico Lepre (Messager).
Samson applausi Il pubblico, già non numerosissimo prima delle defezioni in corso d’opera, ha accolto con applausi che definirei di circostanza tutta la compagnia artistica che, a mio parere, meritava un po’ di calore in più.
Si sono sentite un paio di contestazioni, rumorose ma abbastanza isolate, per la regia.
Infine segnalo che opportunamente la serata è stata dedicata alla memoria del musicista triestino Giampaolo Coral, scomparso nei giorni scorsi.
Il prossimo appuntamento al Verdi di Trieste è con la Salome di Strauss, tra meno di un mese.
Un saluto a tutti!

P.S.
Le foto tratte dal sito del Verdi sono a cura dello Studio Parenzan, le altre sono di ex Ripley!

Recensione piuttosto seria della Messa di Requiem di Giuseppe Verdi a Trieste.

La recensione della Messa di Requiem di Giuseppe Verdi manda in archivio, diciamo così, quest’altro post.
Chissà, forse non è un caso. Comunque, quello che segue è dedicato a mio padre.

Presso la Sala de Banfield Tripcovich, il Teatro Verdi di Trieste ha rischiato l’organizzazione del Requiem di Verdi-rischiato perché non disponeva di una compagnia di canto di primissimo piano- e ha vinto almeno parzialmente la scommessa.
Innanzitutto rilevo come i prezzi fossero realmente popolari (da 10 a 25 euro, davvero una cifra ragionevole), circostanza che ha favorito un’ottima affluenza di pubblico-la sala era praticamente esaurita-e inoltre finalmente ho visto tanti giovani in teatro e non posso che esserne felice.
La genesi del lavoro è complessa, ma basterà ricordare che il Requiem fu eseguito per la prima volta il 22 maggio 1874 a Milano, primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, di cui Verdi era un grande ammiratore.Rovaris1s
Sul podio di un’Orchestra del Verdi in grandissimo spolvero sia per compattezza sia per il suono bellissimo, c’era il M° Corrado Rovaris, che ha diretto con mano felice e ispirata una partitura difficile, in cui è fondamentale più del solito-se possibile-trovare equilibrio tra le masse orchestrali, il coro e i solisti.
L’obiettivo è stato raggiunto, seppure con qualche distinguo dovuto a un’evidente disparità di attuale valore artistico tra i solisti.
E prima che me ne scordi, sottolineo subito la magnifica prova del Coro, che ha contribuito in modo fondamentale alla riuscita della serata, dimostrando tra l’altro di saper cantare piano e con dolcezza e non solo forte o fortissimo, come talvolta ho sentito affermare da qualche inutile parolaio.
Un plauso quindi anche a Alessandro Zuppardo, che dirige la compagine triestina.
Ma veniamo ai solisti.
DongwonShin1s
Il tenore Dongwon Shin era evidentemente non all’altezza della situazione non tanto perché qualche nota è uscita sporca, ma piuttosto perché la sua organizzazione vocale non gli ha consentito il rispetto dei segni d’espressione previsti. I tentativi di cantare con dolcezza sono approdati solo a un falsetto abbastanza fastidioso, del tutto inappropriato alla parte. Per assurdo, l’Ingemisco cantato tutto forte e con gli acuti ghermiti sui si bemolle, è stato il momento in cui l’artista coreano è riuscito a mascherare in qualche modo il suo disagio.
Lim1s
Buona la prestazione del giovane basso Simon Lim, che ha palesato voce potente anche se un po’ carente di armonici e timbro gradevole, oltre che pronuncia discreta e dizione scandita. Il suo Confutatis maledictis ha lasciato il segno per proprietà d’accento.
Bocharova1s
Non straordinaria la prova di Elena Bocharova, che mi ha convinto pienamente (forse perché ha goduto della mia momentanea e dissimulata emozione, smile) nel Recordare.
La voce sembra salire con relativa facilità agli acuti mentre nei gravi l’artista abusa del registro di petto, col risultato che qualche suono esce piuttosto sgradevole e orchesco.Moore1s
Per quanto riguarda Latonia Moore, che dire. Prestazione ottima e abbondante (smile).
Il soprano americano, ben noto a Trieste anche per la quasi contemporanea bellissima prestazione quale Lucrezia Contarini nei Due Foscari (ma fu anche brillante Elvira nell’Ernani, in alternanza a Sondra Radvanovsky), è una di quelle artiste che vorrei vedere (e sentire) su palcoscenici più prestigiosi, dove spesso invece si esibiscono, per motivi arcani, soprani di livello ben più modesto.
Voce di colore affascinante, acuti facili e una prima ottava bella incisiva e sonora, come non è dato spesso d’apprezzare. Magnifico, nell’ambito di una prova maiuscola, il Libera me.
Pubblico, come dicevo numerosissimo, in visibilio, che ha tributato un trionfo a tutti con ripetute chiamate al proscenio.
L’appuntamento è ora con il Samson et Dalila, il 18 febbraio. Speriamo bene!
 

Mariella Devia al Concerto di fine anno al Teatro Verdi di Trieste.

Passate, o quasi, le polemiche inenarrabili sull'articolo di Ceronetti, ribadisco brevemente come la penso io.

Ceronetti è intellettuale coltissimo, col gusto della provocazione e lo testimoniano le molteplici boutade che ha fatto in tanti anni d'impegno artistico e civile.
In questo caso mi pare che avrebbe potuto, più intelligentemente, tacere, se non altro perché la situazione economica contingente suggerisce prudenza anche nelle provocazioni.
I nostri governanti non sono in grado di distinguere una posizione volutamente paradossale e potrebbero fare ulteriore danno sostenendo che "anche Ceronetti" la pensa come loro.
Ammesso che sappiano chi è Guido Ceronetti, s'intende, il che non è assolutamente scontato.
Poi.
devia_310
Ero preoccupato per il consueto concerto di fine anno al Verdi di Trieste, ma il tutto si è risolto meglio di quello che pensavo, perché il 31 dicembre alle 18 saluteremo questo orrendo 2010 (l'ultimo di una serie catastrofica, a dire il vero) con un recital di Mariella Devia. In programma arie di Puccini, Bellini e Rossini, alternate a pezzi sinfonici con L'Orchestra e il Coro del Teatro Verdi di Trieste. Sul podio il M° Giuseppe Marotta.
Ancora.
Ieri ho visto il recital di Jonas Kaufmann su Arte e ho trovato il tenore in ottima forma, ma non ho tempo di scrivere una recensione.
Finisco perché vado a preparae l'albero di Natale, come è ormai tradizione di questo blog.
Prima però diffondo volentieri questa notizia che mi ha mandato il mio illustre concittadino Gianni Gori, sempre gentilissimo.
È un'occasione per ricordare un artista, Aurio Tomicich, mancato l'anno scorso.
Un saluto a tutti.

Un basso di Yerevan, finalista del prestigioso concorso internazionale di canto Gian Battista Viotti di Vercelli porterà con sé il ricordo di un artista triestino. E’ andato infatti a Vazgen Ghazaryan la borsa di studio “Aurio Tomicich” offerta dalla famiglia nel primo anniversario della morte del cantante triestino.  Interprete colto e versatile dell’opera, della musica sacra e della musica contemporanea (solista molto stimato da Sylvano Bussotti), Tomicich era stato in gioventù proprio uno dei vincitori del Viotti. Al Verdi di Trieste aveva cantato in importanti produzioni (Parsifal, Volo di Notte, Louise, Lady Macbeth di Sostakovic).  Il basso Vazgen Ghazaryan, compiuti gli studi in Armenia, ha debuttato a San Pietroburgo nella Rusalka di Dvorak; quest’anno ha cantato il ruolo di Hunding nella Valkiria in edizione da concerto diretta da Kent Nagano.
La sessantunesima edizione dello storico concorso (dal quale sono usciti vincitori, tra gli altri, Mirella Freni, Luciano Pavarotti, Raina Kabaivanska, Piero Cappuccilli) ha assegnato il primo premio allo smalto tenorile del coreano Jaesig Lee. Continuando l’egemonia instaurata negli anni ottanta da Sumi Jo, la Corea ha fatto l’en-plein anche quest’anno con i soprani Hiekyung Choi e Hee Jin Oh, rispettivamente secondo e terzo premio dopo la prova finale con l’orchestra del Coccia di Novara diretta da Janos Acs.
Nell’ambito del Concorso Viotti si è svolta al Civico di Vercelli anche la prima edizione di “Pavarotti-giovani”. La ricca borsa di studio e di perfezionamento messa in palio dalla rassegna è andata a un’autentica rivelazione: il ventiseienne soprano nigeriano Omo Bello.  Nella giuria del doppio concorso spiccavano le presenze gloriose di Luis Alva ed Eva Marton.

Unicuique suum.

Nel Rigoletto di Giuseppe Verdi, il librettista Francesco Maria Piave mette in bocca a Monterone la seguente frase:
 
Slanciare il cane al leon morente, è vile o Duca              
 
Ecc ecc.

 
Mi è stato chiesto da più persone, in privato, di esprimere pubblicamente la mia opinione sui recenti fatti che hanno coinvolto alcuni professori dell’Orchestra del Verdi.
Riassumo brevemente per chi non è al corrente della situazione.
Sul quotidiano di Trieste, Il Piccolo, è apparso la scorsa settimana un articolo in cui si diceva che tredici persone (dodici orchestrali e un tenore) erano state raggiunte da una lettera di contestazione disciplinare da parte del Sindaco Roberto Di Piazza in qualità di Presidente del CdA del Teatro Verdi.
Sostanzialmente i coinvolti sono stati accusati di aver suonato su di una nave da crociera, la Ruby Princess, mentre risultavano indisponibili per vari motivi per il teatro.
I fatti oggi sembrano accertati, preciso, non ho notizia al momento di contestazioni in merito.
Bene, il mio parere è questo: se hanno sbagliato devono pagare applicando le clausole, che sicuramente ci saranno, del contratto.
Non vedo come potrei pensarla diversamente, peraltro.
Però, allo stesso tempo, trovo che chi ha deciso di pubblicare sul giornale i nomi delle persone coinvolte, a mo’ di lista di proscrizione e prima che i fatti fossero accertati, abbia compiuto un’operazione indegna e incivile.
Sì, indegna e incivile.
Perché quegli stessi giornalisti (non mi riferisco nello specifico ai firmatari degli articoli, ma in generale) normalmente si guardano bene dal pubblicare nomi e cognomi di politici o potentati economici coinvolti in scandali di proporzioni ben maggiori, almeno sino a quando gli stessi non sono più in grado di nuocere: il che significa quando sono morti o condannati definitivamente da un tribunale, oppure più semplicemente privati del loro potere.
Quindi a mio parere che modestamente condivido, questo non è giornalismo ma puro sciacallaggio ed ennesima prova di asservimento al potere.
Un potere arrogante che ha bisogno di trovare capri espiatori per perpetuarsi in una classe politica che è la prima responsabile del disastro economico dei teatri italiani (per restare solo in questo ambito), perché non solo non ha mai vigilato su come venivano allocate le risorse, ma ha imposto spesso-tutti i membri del CdA dei teatri e i sovrintendenti sono nominati dai politici con i consueti lungimiranti criteri di spartizione- dei ladri incompetenti ai vertici delle fondazioni liriche.
Quindi, chi ha sbagliato paghi, ma per favore la moralizzazione coatta da parte di politici e giornalisti ci sia, almeno questa, evitata, grazie.
Buon fine settimana a tutti. 

Die Walküre alla Scala di Milano, seconda incursione semiseria. Saranno Baruffe chiozzotte: scommettiamo?

Allora, cominciamo dall’attualità.

Oggi la prova generale della Valchiria si svolgerà a porte chiuse, perché gli interpreti dei due gemelli (Siegmund & Sieglinde) che ho sommariamente presentato nel post precedente sono afoni.
Si tratta del tenore Simon O’Neill e del soprano Waltraud Meier.
Aggiungete che il previsto interprete di Wotan, il basso Renè Pape, ha dato inopinatamente forfait circa un mese fa.
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Sommate ancora, come se non bastasse, che Waltraud Meier, dalle pagine del Corriere della Sera, ha criticato l’allestimento del regista Guy Cassiers.
Ci sono tutte le premesse per poter affermare che ci divertiremo molto, il prossimo 7 dicembre.
Ricordo che la Scala, che oggi è solo un teatro qualsiasi dal punto di vista artistico ma come impatto mediatico è sempre la Scala di un tempo, ha una bella tradizione di polemiche (e mi limito a quelle recentissime) da conservare.

La fuga di Roberto Alagna nel 2006 (Aida, una cosa mitica), l’ancora inspiegata sostituzione all’ultimo secondo di Giuseppe Filianoti nel 2008 (Don Carlo), i sonori fischiazzi alla regia di Emma Dante (Carmen) nel 2009.
Insomma, possiamo scommettere che l’argomento “opera” terrà banco nei telegiornali. Non so se rallegrarmene, sinceramente.
E a proposito di scommesse, fa discutere dalle pagine della rivista “Musica”, questa proposta a firma di Marco Leo.
 
La situazione finanziaria dei teatri lirici è drammatica; la qualità e la sopravvivenza stessa della lirica in Italia sono a serio rischio. In tale contesto, ferma restando la ragionevolezza delle proteste contro i tagli, è dovere dei teatri impegnarsi per reperire fondi alternativi ai finanziamenti pubblici, imparando anche dal passato. Fino al primo Ottocento, all’opera si giocava d’azzardo: nei foyer dei teatri erano collocati tavoli da gioco i cui proventi finanziavano l’attività artistica. A Napoli, Rossini era socio di Barbaja nella gestione del casinò; e in diversi teatri restano, nelle decorazioni e nella toponomastica, tracce indelebili dell’attività di gioco che vi si esercitava.
In Italia — per quanto negli ultimi anni si siano moltiplicate i giochi d'azzardo accessibili nei bar, nelle tabaccherie e anche online — i tavoli verdi sono ancora quasi un tabù. Ma siccome qualche porta si sta aprendo (un recente progetto di legge vorrebbe concedere l’apertura di sale da gioco negli alberghi di lusso), non potrebbero le fondazioni liriche approfittare della liberalizzazione per chiedere che siano proprio i teatri d’opera i primi a poter riaprire i casinò?Del resto appartiene alla storia del gioco d’azzardo in Italia l’idea di concedere una licenza ad enti che necessitano di una rapida ripresa economica (si pensi ai molti effimeri casinò dei primi anni del dopoguerra, e alla stessa origine delle attuali case da gioco italiane). Ovviamente non vogliamo vedere nei teatri le slot machines con le lucine intermittenti, ma i tavoli tradizionali francesi, con la loro eleganza, ben si inserirebbero in alcune aree dei nostri foyer.
 
 
Tutto vero, ma a me l’idea che nei teatri si giochi d’azzardo non piace per nulla.
Non voglio fare il moralista, è che conosco per esperienza diretta la fauna che alligna laddove esistono i casinò: è brutta gente. Chi gioca, certo.

Soprattutto chi pratica l’usura e sfrutta la prostituzione di solito non è particolarmente raccomandabile.
E poi, scusatemi, visto che per il momento i politici vengono a teatro solo per le inaugurazioni delle stagioni, perché costringerli al presenzialismo (strasmile)?
 
Ok, è giusto che ognuno abbia le proprie idee.
Peraltro comincio a trovare analogie tra la roulette francese (anche se per alcuni teatri si potrebbe parlare di roulette russa) e i teatri d'opera, per cui mi sa che tra un po' mi convincerò anch'io.
Permettetemi di scherzare un po', allora.
I 36 numeri si dividono in 3 fasce, per i giocatori: orfanelli, vicini dello zero e la serie.
Gli orfanelli siamo noi, che non vediamo uno spettacolo decente da una vita, i vicini dello zero sono gran parte dei sovrintendenti e la serie è rappresentata dalle delusioni degli appassionati.
 
Rien ne va plus, les jeux sont faits.

Recensione abortita della Forza del destino di Giuseppe Verdi al Comunale di Firenze.

Vi segnalo inoltre, a proposito di nefandezze, questo editoriale su Operaclick.

Opera di grandi suggestioni e contraddizioni, non è questa la sede per ripercorrere la travagliata genesi dell’opera, La forza del destino di Giuseppe Verdi è stata trasmessa questa sera su RADIO3, in diretta da Firenze.

Come sempre, prima d’inoltrarmi nella recensione semiseria, segnalo che solo in teatro si può apprezzare un’opera pienamente, però alcuni pareri si possono dare anche dopo l’ascolto radiofonico.
Opera di difficile esecuzione, la Forza, perché richiede l’impiego di 6 prime parti, circostanza che non si può definire certo frequente in Verdi.
I melomani che mi leggono lo sanno già, ma per i meno ferrati sull’argomento ricordo che questo lavoro verdiano gode di pessima fama, in quanto sembra che porti sfiga (smile).
Sfiga che sicuramente attanaglia il protagonista, Don Alvaro, al quale davvero vanno tutte storte: gli cade la pistola e uccide il padre dell’amata Leonora, tanto per ricordarne una, ma non è certo la sola.
Alvaro è un po’ il Paperino dell’opera lirica, insomma, e a me sta pure simpatico. Ovviamente è una parte tenorile, perché quando i personaggi sono sfigati, incasinati, rissosi e romanticoni non c’è nulla da fare, c’è sempre un tenore pronto (smile).

Ecco, la parte che avete letto in corsivo me l’ero scritta in anticipo, come cappello per la recensione semiseria.
In realtà, dopo aver sentito l’opera, mi sono reso conto che qualche volta le leggende hanno un fondamento di verità.
E la verità è che La forza del destino porta davvero sfortuna: per esempio ai cantanti che sono stati tutti al di sotto della sufficienza e in qualche caso anche della decenza (mi riferisco ai 5 protagonisti, con l'unica eccezione di De Candia).
Molto sfortunato è sembrato anche il direttore, Zubin Mehta. 
Il più sfortunato sono stato io, che sono rimasto alzato sino a tardi: spero di non riuscire a dormire, perché se m'appisolo farò certamente sogni orribili.
Questa la locandina:

Leonora Violeta Urmana
Don Carlo di Vargas Roberto Frontali
Don Alvaro Salvatore Licitra
Preziosilla Elena Maximova
Fra' Melitone Roberto De Candia
Padre guardiano Roberto Scandiuzzi
Il Marchese di Calatrava Enrico Iori
Curra Antonella Trevisan
Un alcade Filippo Polinelli
Mastro Trabuco Carlo Bosi

Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
direttore Zubin Mehta
regia Nicolas Joël
scene Ezio Frigerio
costumi Franca Squarciapino
video e proiezioni Sergio Metalli per Ideogamma Rimini
coreografia Sabine Mouscardès
luci Jürgen Hoffmann

 
 

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