Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione semiseria del dittico The Medium/Gianni Schicchi al Teatro Verdi di Trieste.

Devo rinunciare alla trasferta di Bologna per l’Ernani, ahimé, a causa delle condizioni della mia schiena che mi costringono a una postura grottesca. Una gentile maschera del Verdi, ieri sera, mi ha detto che curvo e con il bastone somigliavo a un demoniaco Capitano Achab, vedete un po’ voi come son messo. C’è anche da dire che al Verdi non mancano mai le balene bianche, quindi, tutto sommato, il paragone ci può stare (strasmile). Leggi il resto dell’articolo

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Recensione semiseria di Tosca dalla Bayerische Staatsoper di Monaco: Jonas Kaufmann, una stella cadente.

Intanto informo che giovedì scorso, a Trieste, si è aperto il 41° Festival dell’Operetta con la Principessa della czárdás, uno dei lavori più gettonati della “piccola lirica”.
Qui potete leggere la mia recensione per OperaClick.

Ieri poi, sempre su Arte (ma anche su SkyClassica) dopo il Don Giovanni di lunedì scorso, è andata in onda la Tosca di Puccini da Monaco.

Questa Tosca era già molto chiacchierata da tempo, perché la regia di Luc Bondy aveva suscitato polemiche all’esordio al Metropolitan di New York e l’anno prossimo è in cartellone alla Scala di Milano.
Ci aveva messo del suo anche Franco Zeffirelli che ha apostrofato così il collega: He is not second rate, he is third rate.
Bondy ha risposto così: I’m a third-rate director, and he is a second assistant of Visconti.
Insomma, uno di quei rari casi in cui hanno ragione entrambi i contendenti (strasmile).
In realtà a me la regia è sembrata più che altro bruttina ed inutile, con alcuni momenti di comicità involontaria.
I costumi di Milena Canonero (terribili quelli di Tosca, e assai sciatti e tetri in generale) e le scenografie di Richard Peduzzi (il secondo atto è tremendo) non aiutavano molto.
Come scordare la matura e matroneggiante Karita Mattila costretta a fare le moine come una liceale innamorata, col rischio che sgambettando le esca il polpaccio importante costretto nella calza contenitiva?
Oppure quando cerca di prendere a calci gli scherani di Scarpia e ancora un po’ dà una culata sulla rampa di scale? O quando sembra presagire, dopo aver ucciso Scarpia, il suicidio mediante salto nel vuoto (che quando dovrebbe esserci, cioè nel finale, non si vede)?
E che dire dello studio di Scarpia sullo stile di un pied á terre d’infimo ordine, con tanto di divani bordeaux e Spoletta che paga le zoccolette di turno?
Insomma, nessuno scandalo, solo vuoto mentale.
Dal lato musicale qualche lucina in un mare di tenebre.

Cominciamo da Jonas Kaufmann (qui sopra nell'allestimento di Bondy con Patricia Racette) e il suo Cavaradossi di questa recita.
The best Cavaradossi ever–  come mi dissero due suoi fan a Venezia? Per favore. Ma per favore!

Un canto perennemente a squarciagola (Recondita armonia urlato di brutto e calante all’inizio), qualche tentativo d’addolcire la voce con risultati rivedibili (nel duetto del primo atto, nella romanza finale): ne escono suoni sgradevolissimi, di pura gola, morchiosissimi. Un Cavaradossi muscolare e basta, da solida provincia.
In merito alla recitazione ripropongo la mia definizione di perenne “stupito stupore” del cantante tedesco, una specie di passepartout per tutti i personaggi che interpreta e che li accomuna, da Don José a Werther a Cavaradossi. Strabuzza gli occhi, fa salire e scendere il rigoglioso pomo d’Adamo, s’intristisce in un’espressione smarrita. Per non parlare della scena della tortura in cui si esibisce in due vagiti da fuori scena che lascerebbero pensare che il torturato sia un neonato. Ti verrebbe voglia di chiamare il telefono azzurro.
Detto questo, i risultati possono anche piacere ed io non discuto i gusti personali, ma almeno si abbia la decenza di non contrabbandarlo per una specie di artista rivoluzionario. È un tenore come ce ne sono altri e in questa parte non è neanche il migliore del panorama odierno. Meglio, molto meglio in altri repertori.
Karita Mattila è una grande artista, ma con Tosca non c’entra nulla, soprattutto ora che non è sorretta dalla forma vocale di qualche lustro fa (diciamo due). E poi conciata in quel modo, suvvia.
Spesso calante (il do della lama, solo per fare un esempio), spesso al limite dell’intonazione, con una prima ottava che definire artefatta è un eufemismo, quasi sempre costretta a ricorrere al “mestiere” per dare un senso a ciò che canta, il che significa sbracamenti di stampo veristeggiante il più delle volte.
Emoziona? Non lo so, da casa si vedevano e sentivano solo i difetti.
Per quanto riguarda lo Scarpia di Juha Uusitalo basta un aggettivo: pessimo. Immagino che il regista gli abbia chiesto di fare del barone una belva assatanata, ma non avrà certo insisitito perché canti così male! Stonato, calante, voce senescente e chioccia, sempre "indietro". Mi spiace, perché è un cantante che in altro repertorio (è un discreto Wotan, per esempio) se la cava abbastanza bene.
Accettabile poi, quale Angelotti, Christian Van Horn, così come sufficiente era il Sagrestano di Enrico Fissore, per il quale si deve almeno il rispetto per la lunga carriera.
Terribili tutti gli altri, ma proprio a livelli inaccettabili eh? E non sto parlano di caratterizzazione attoriale del personaggio, ché quella potrebbe essere una scelta imposta dal regista, ma proprio di professionalità nel canto.
Come sempre ho detto negli ascolti radiofonici o televisivi è difficile valutare il direttore d’orchestra, però mi pare che Fabio Luisi (auguri Maestro per il suo incarico al Carlo Felice di Genova) sia stato, dal punto di vista artistico, il migliore della serata.
Il pubblico ha apprezzato moltissimo lo spettacolo e ha tributato un trionfo enorme al divo Jonas, che ormai è già più un fenomeno di costume che un cantante lirico.
Meglio per lui, che vi devo dire.
Un caro saluto a tutti, buona settimana. 

Recensione semiseria di Madama Butterfly al Teatro Verdi di Trieste.

Questa Madama Butterfly al Verdi di Trieste è arrivata, come credo ormai tutti sappiate, in un momentaccio per la musica lirica in Italia.

Partitura Madama Butterfly
Alla prima un rappresentante sindacale ha letto un comunicato mentre alle sue spalle, sul palcoscenico, erano schierati Coro e Orchestra. Poi la decisione di scioperare oggi per la pomeridiana domenicale. Iniziative simili a Firenze, Bologna, Torino e Milano, ma credo che saranno coinvolte altre fondazioni nei prossimi giorni.
Senza entrare direttamente nella questione, ci tengo a dire che appoggio in pieno la protesta e che i lavoratori dei teatri hanno la mia solidarietà.
Ma veniamo alle cose semiserie.
Mentre me ne stavo nascosto dietro a una colonna del foyer triestino (non sono propriamente uno che vuole apparire…), mi sono sentito chiedere: Lei è Paolo Bullo?– da una bella ragazza. Ora, siccome sono brutto, vecchio, sporco e cattivo, ho pensato a qualche denuncia o a qualcuno che mi voleva picchiare.
Timoroso ho risposto e ho scoperto, pensate un po’, che la gentile ragazza è una mia appassionata lettrice e che voleva farmi i complimenti per il blog, che sostiene di leggere prima delle opere ad esempio, per poterle digerire meglio.
Non c’è nulla da fare, ormai sono una specie di medicina, l’Amaro Giuliani della lirica (strasmile, già so che qualcuno scriverà che più che altro sono un confettone Falqui).
Insomma, ciao e grazie, spero che tu legga anche questo post.
L’allestimento di Giulio Ciabatti ha il pregio di essere tradizionale sì ma tutt’altro che polveroso, nonostante abbia già 4-5 anni almeno. Il regista ha lavorato bene sui cantanti e i risultati si vedono nella recitazione partecipe ed appropriata di tutta la compagnia.
Le scene sono piuttosto scarne ma non certo sciatte, anzi appaiono eleganti nella loro semplicità, un gran plauso all’ottimo Pier Paolo Bisleri che le ha ideate. Belli anche i costumi di Chiara Barrichello, sgargianti ma non volgari e ottimo l’impianto luci di Iuraj Saleri.
Lo spettacolo funziona e ci sono almeno un paio di momenti assai suggestivi, come per esempio l’inizio dell’opera, in cui Cio-Cio-San compare all’improvviso, tra il corteo dei parenti, e la prima scena del secondo atto, nella quale la presenza di Butterfly in un ambiente quasi privo di oggetti (solo qualche ricordo di Pinkerton ormai lontano) ne sottolinea l’isolamento anche mentale.Foto06
Veniamo ai protagonisti, a cominciare da Svetla Vassileva che è stata abbastanza altalenante nel primo atto dal punto di vista vocale, specialmente negli acuti un po’ gridati. Molto meglio nei due atti successivi, che l’hanno vista ricevere applausi a scena aperta dopo la famosa Un bel dì vedremo.
Ottima la scelta d’interpretare una Butterfly mai leziosa e manierata, privilegiando già dall’inizio l'accento drammatico, confacente alla figura di una donna giovanissima ma matura e conscia quasi della tragedia che l’aspetta. Il soprano ha fatto uscire anche il lato orgoglioso di Cio-Cio-San, che rifiuta sdegnosamente ma mantenendo una grande dignità gli aiuti finanziari (interessati, ovviamente) del ricco Yamadori.
E poi, niente scenate da vaiassa che ormai non sono più accettabili al pari di eccessivi bamboleggiamenti.
Roberto De Biasio ha una voce bella e calda ma tende a forzare qualche acuto, che risulta schiacciato. Molto ben riuscito l’attacco (tutt’altro che facile) del duettone del primo atto. Ottima la dizione e appropriata anche la recitazione, indubbiamente il suo Pinkerton è seducente e un po’gaglioffo com’è giusto che sia. Bravo anche nel finale, in cui ha cantato un bel Addio fiorito asil. Mi è sembrato che il regista abbia voluto recuperare, nella figura di Pinkerton, qualche atteggiamento tipico dello yankee imperialista (peraltro già presente nel libretto e ancor di più nel dramma originale di Belasco).
Paolo Rumetz ha centrato l’interpretazione di Sharpless, personaggio ambiguo: distaccato e un po’ cinico all’inizio e partecipe della tragedia umana di Butterfly alla fine. Anche il baritono triestino ha mostrato qualche piccola difficoltà negli acuti, ma la sua prestazione è da considerare più che discreta.
Cinzia De Mola è stata una Suzuky di buon livello, per canto e recitazione. Bello il “duetto dei fiori” con il soprano e presenza scenica adeguata.
Il perfido e viscido Goro è stato interpretato da Gianluca Bocchino, che mi è sembrato centrare la parte dal punto di vista attoriale ma un po’evanescente dal lato vocale.
I comprimari hanno svolto bene il loro compito: altero e impetuoso Alessandro Svab (Zio Bonzo), dignitoso e non macchiettistico Giuliano Pelizon (Yamadori e Commissario Imperiale), solido Giovanni Palumbo (Ufficiale del Registro). Pur impegnata in una piccola parte, mi sento di spendere una parola in più per il mezzosoprano Silvia Verzier, che ha caratterizzato una Kate molto incisiva anche nella recitazione.
Bene, come è ormai prassi, il Coro, preparato per l’occasione da Alberto Macrì.
Prestazione molto buona dell’Orchestra del Verdi di Trieste, guidata dal direttore Lorenzo Fratini che ha optato per una concertazione attentissima alle esigenze dei cantanti ma allo stesso tempo mirata a rendere senza inutile enfasi i colori accesi della partitura. Di questa sobrietà interpretativa hanno beneficiato i momenti di canto di conversazione, cifra caratteristica assieme alle grandi aperture melodiche della musica di Puccini.
Grande successo di pubblico, teatro pressoché esaurito, trionfo per Svetla Vassileva e Roberto De Biasio e ottimo successo per tutta la compagnia di canto.
Purtroppo, se la linea del governo è quella del decreto ministeriale, queste belle serate a teatro resteranno solo un bel ricordo. Un fil di fumo, appunto.
Buona settimana a tutti.
 

Madama Butterfly di Giacomo Puccini al Teatro Verdi di Trieste: un paio di considerazioni semiserie.

Settimana impegnativa, dal lato musicale, per il qui presente Amfortas.

Venerdì prossimo, al Teatro Verdi di Trieste, c’è la prima della Madama Butterfly di Giacomo Puccini e poi, sempre che non abbia qualche inconveniente, domenica dovrei essere al Regio di Parma per una recita del Werther di Jules Massenet.
Per me le due opere hanno una cosa in comune e cioè sono due mattoni tremendi, forse più il Werther della Butterfly, quindi facile che a Parma m’addormenti tristemente in palco (strasmile). Non a caso, nel post sulle opere da salvare del 900, non ho inserito il lavoro di Puccini.
Madama Butterfly è una delle tante opere che all’esordio, il 17 febbraio 1904 alla Scala di Milano, ebbe un esito infelice.

 
L’accoglienza che il pubblico della Scala ha fatto della nuova opera Madama Butterfly ha chiaramente provato ch’esso non ha trovato degno di qualsiasi approvazione il nostro lavoro. Noi quindi ritiriamo lo spartito, di pieno accordo coll’editore e protestiamo perché sia sospesa ogni ulteriore rappresentazione.
 
Questo scriveva Puccini alla Direzione del teatro scaligero e inoltre, in un anonimo redazionale su di un giornale milanese così era descritta la reazione del pubblico:

 

…grugniti, boati, muggiti, risa, barriti, sghignazzate…
 
Neanche fosse la descrizione dell’ambiente nella scena della “gola del lupo” del Freischütz, o una recensione della prestazione di un baritono sul Corriere della Grisi (strasmile).
Ma cerchiamo di essere seri.
Puccini sceglie, come sempre faceva, un soggetto teatrale forte e lo sottopone alla cura della sua musica, che ne potenzia la drammaticità evidenziandone i tratti più emozionanti.
In questo caso il libretto, firmato da Lugi Illica e Giuseppe Giacosa, è tratto dal dramma Madame Butterfly di David Belasco, che il compositore vide a Londra mi pare nel 1900.

L’ambientazione è quella che andava di gran moda a quei tempi e cioè l’Oriente, nella fattispecie il Giappone.
Insomma, ai tempi di Rossini erano di moda le turcherie mentre già nella seconda metà dell’ottocento era molto trendy l’Estremo Oriente, pensate per esempio a Les pêcheurs de perles di Georges Bizet.
Oddio, c’è un po’ di cura di più che nell’Iris di Mascagni, che chiamò i protagonisti col nome di un fiore e di due città (Iris, appunto, Kyoto e Osaka, librettista anche qui Illica).

Puccini, addirittura, si rivolse a una famosa attrice giapponese, Sada Yacco, per consigli sulla recitazione e sull’ambientazione e rendere più credibile la sua Cio-Cio-San (che vuol dire, non so se lo sapete, Madama Farfalla in giapponese).
La quale Madama Farfalla, come molte altre eroine di Puccini, si fa sentire la prima volta da fuori campo ( come Tosca e il suo Mario Mario Mario, Mimì o Turandot che addirittura tace per un atto e mezzo).
Ma sulle donne di Puccini ho già detto la mia, semiseria, ovviamente.
In quest’opera si ritrovano tutte le caratteristiche della scrittura musicale pucciniana, dal canto di conversazione alle improvvise aperture melodiche, che sono state spesso assai mal digerite dalla critica con la puzza sotto al naso.
A me l’opera risulta indigesta in primis perché la trovo pesante, lunga, ma non mi passa neanche per la testa di contestarne la grandezza. E poi non posso fare  a meno di pensare che Pinkerton, il tenore, non è altro che uno squallidissimo turista sessuale che sfrutta il benefit di poter “sposare” una quindicenne perché le logiche mercantili dei rapporti commerciali tra Giappone e Stati Uniti lo consentivano.
E quindi, se da un lato Cio Cio San puntualizza al console Sharpless che lei “è la Madama Pinkerton” dall’altro il marinaio brinda al giorno in cui potrà sposarsi con vere nozze a una vera sposa americana.
Per concludere questo breve post d’introduzione, vale la pena ricordare che Puccini mise mano più volte alla partitura e che già il 28 maggio 1904 l’opera ebbe un trionfo a Brescia.
Ancora oggi Madama Butterfly è tra le opere più rappresentate in tutto il mondo.
Troppo lunga e mal sagomata. Andrete al macello– vaticinò nientemeno che Arturo Toscanini- ed ebbe ragione, ma solo per il debutto, nel quale il soprano fu Rosina Storchio (io non avrei mai affidato un debutto a una con un cognome da menagramo, ma transeat, strasmile).
Sarebbe interessante analizzare lo straordinario lavoro che fecero Fedele D’Amico prima e Alfredo Mandelli poi sulle versioni di quest’opera, ma non è questa la sede.
Mi piace ricordare però, un po’ come ho fatto per il sondaggio sulle opere del 900, che iniziò su di un periodico non specialistico (Il Tempo), che anche in questo caso tutta la querelle si svolse sul settimanale “L’Espresso”.
Altri tempi.
Buona settimana a tutti.
 

Recensione abbastanza seria del Tabarro di Giacomo Puccini alla Sala Tripcovich-De Banfield di Trieste.

La prima considerazione che mi viene da fare,

dopo aver assistito alla serata organizzata dall’Accademia Lirica di Santa Croce alla Sala Tripcovich-De Banfield, non è tanto sugli esiti artistici quanto piuttosto sulla funzione salvifica del teatro in generale.

È una notazione personale, me ne rendo conto, ma credo che abbia valenza universale.
Sto parlando di quella straordinaria capacità che ha il teatro di “sospendere la realtà”, quasi che l’Arte ci regalasse una breve vacanza dagli affanni della vita quotidiana.
Il primo merito dell’Accademia, quindi, è proprio “il fare teatro” inteso come alternativa di vita per chi recita e soprattutto per chi si siede comodamente in poltrona a guardare.
Alessandro Svab, deus ex machina dell’Accademia, ha programmato un bel tour de force per i suoi allievi: tra venerdì della settimana scorsa e questa sera, sono andati in scena la Petite messe sollennelle di Rossini e Il tabarro di Puccini, integrati da una seconda parte di serata dedicata alla musica di Broadway.
Io ero presente sabato e ho visto l’atto unico di Puccini.Tabarro

Inutile, in questa sede, ricordare come Il Tabarro faccia parte di un trittico (Tabarro, Gianni Schicchi e Suor Angelica) che il compositore avrebbe voluto che si rappresentasse per intero, in quanto c’è una (dis)continuità drammaturgica, un’ispirata alternanza di stati d’animo e stili contrapposti.
I mezzi dell’Accademia sono piuttosto contenuti e la collaborazione del Teatro Verdi di Trieste mi è parsa più che altro di facciata.
Il titolo è impegnativo, perché prevede tre prime parti toste e molti contributi da comprimariato, per i giovani dell’Accademia è stato un banco di prova importante.
Inoltre, ed è assai meritorio, la per la Petite Messe erano previste due mattinate riservate alle scuole.
La regia (e immagino anche le belle luci), giocoforza minimalista ma di buon gusto, era di Tommaso Franchin, i costumi, semplici ma appropriati, di Erica Cijan.
Scena fissa, quindi (per una volta nessun volo pindarico del regista, strasmile)e cioè la coperta di una barca da carico, ancorata sulla Senna: in questo spazio angusto, livido, si determineranno gli infelici destini dei protagonisti.
Heinrich Unterhofer sul podio ha coordinato il lavoro dei pianisti Desire Broggi e Jan Grbec.
Dal punto di vista musicale la necessità di “suonare” l’opera al pianoforte ha tolto un po’ di pathos alla musica di Puccini che ha bisogno, specialmente nelle grandi aperture melodiche, di un’orchestra vera e propria, ma i due pianisti sono stati ammirevoli.
Tra i cantanti è stata molto positiva la prova del soprano Monica Cucca, una Giorgetta appassionata e partecipe, intelligente anche nella recitazione e capace di rendere palpitante l’ennesima donna sfortunata creata da Puccini.
Michele era interpretato dal baritono Velthur Tognoni, anch’egli misurato nella recitazione in una parte in cui è piuttosto facile avere cadute di gusto interpretativo. All’inizio ho notato qualche slittamento d’intonazione.
Matteo Sartini, nei panni assai scomodi di Luigi, si è ben disimpegnato in una parte tenorile spaccagola come poche, centrando con professionalità (e fatica!) il personaggio.
Un po’ ruvida la voce di Elena De Simone che ha interpretato Frugola, bene Goran Ruzzier quale Talpa (è il nome del personaggio eh?, smile) e leggermente flebile Massimilano Costantino come Tinca. Discreto Alessandro De Angelis (venditore di canzonette).
A posto, nelle rispettive piccole parti, Atsuko Koyama e Daniel de Vicente.
Dopo Il tabarro la serata è proseguita con un recital di famose arie e duetti tratti da noti musical di Broadway ( da Porgy and Bess a West Side Story e altri ancora), per la coreografia divertente di Carolina Bagnati.
Simpaticissima la presenza dei giovanissimi ragazzini del Coro di Voci Bianche Fran Venturini diretto da Susanna Zeriali.
I solisti, tutti molto disinvolti e bravi erano, come da locandina, Sara Bardino, Marzia Catania, Mojca Devetak, Evdoxia Fotiou, Eleonora Marziali, Julie Parsons, Noemi Virzì e Pierpaolo Cappuccilli, figlio del grande baritono triestino.
Pubblico non certo numerosissimo, perché la comunicazione (forse anche per gli scarsi mezzi finanziari disponibili) non è stata certo ottimale, ma festante e contento.
Spero che l’Accademia trovi qualche sponsor, perché il lavoro di Alessandro Svab è meritevole e degno d’attenzione.
Se dovessi essere incappato in qualche errore nel nominare gli artisti presenti alla serata, chiedo scusa in anticipo e invito a segnalarmelo qui nei commenti.
Buona settimana a tutti.
 
 

Recensione semiseria di Manon Lescaut alla Fenice di Venezia: ovvero “La liceale nella classe dei ripetenti”.

L’orrida Venezia è sempre bella, solo la città lagunare può offrire scorci malinconici come questo qui sotto.

La malinconica Venezia
Sono bei momenti, perché i sensi si risvegliano in simili occasioni, ti pare quasi di percepire l’effluvio di centinaia di anni di pensiero, di Arte, di raccoglimento.
La magia di Venezia.  
Capisci in un attimo che il cerchio sta per chiudersi e che non può che arrivare Brunetta come sindaco (strasmile).
Ma veniamo all’esito della recita pomeridiana di domenica.
 

Viola Manon Lescaut

L’offesa più grave che può fare un regista a un compositore non è ideare un allestimento strampalato o incongruente col libretto, ma contraddire l’essenza della musica scritta, mortificare la creatività del musicista.
Sulla genesi della Manon Lescaut di Puccini si sono scritti fiumi di parole e io non starò certo qui a far tracimare gli argini di questi corsi di liquido ingegno (scusate, non so che m’abbia preso oggi).
Non credo sia un caso peraltro che tutti gli studiosi seri, chi più chi meno, considerino la terza opera del lucchese come affine al Wagner del Tristan e alla musica di Richard in generale.
I leitmotiv, il tentativo di superare la gabbia dorata del pezzo chiuso, la fluidità sinfonica dell’ispirazione musicale ne sono testimonianza. Insomma, continuità nell’azione drammaturgica.
E quindi, per default, mi verrebbe da scrivere, una concezione registica che preveda cambi scena di dieci minuti e un intervallo di tre quarti d’ora (e mi dicono che è un risultato ottenuto grazie alla bravura delle maestranze della Fenice, perché alla prima la sosta era di oltre 50 minuti) è già sbagliata dal punto di vista intellettuale.
Se poi il regista, Graham Vick, Manon1moddi cui ho spesso apprezzato il lavoro, dà i numeri, allora siamo alla baracconata di regime, all’ostentazione del nulla, alla masturbazione intellettuale. Insomma, la citazione della cagata pazzesca di fantozziana memoria è inevitabile, soprattutto per chi come me ha una cultura limitata e una mentalità gretta, meschina, codina e reazionaria.
Non mi pare che il teatro lirico oggi abbia bisogno di queste alzate d’ingegno che, tra l’altro, sono pure costosissime. Non sono questi i momenti per scialare i soldini delle fondazioni liriche (che poi sono i nostri eh?).
C’è di buono che le scenografie e i costumi, firmate rispettivamente da Andrew Hays e Kimm Kovac, fanno scompisciare dalle risate, specialmente nel primo e nel terzo atto.
L’inizio assomigliava a un film soft porno, non per nudità esibite, ma per ambientazione.
Gli studenti scemi (in calzoni corti i maschietti e gonnellina, calzettoni e ciuccetti le femminucce) scrivono “amore” sulla lavagna; poi entra lo studente ripetente (il cavaliere Des Grieux) e subito dopo la bellona (Manon Lescaut). Il fratello ruffiano (Lescaut) e il vecchio porco (Geronte) ci sono già anche nel libretto originale.
“La liceale nella classe dei ripetenti”, appunto. C’è pure una citazione di Cicciolina, con l’orsacchiotto di pelouche rosa (insomma, si fa per dire, sarà stato alto tre metri) e l’omaggio alla cultura psichedelica fine anni 60 (volano cigni di dimensioni spropositate, che per fortuna non sono diarroici o incontinenti, è già una cosa).
Vabbè.
Nel secondo atto la nostra Manon vive nel lusso e, ideona che forse vorrebbe evidenziare la modernità dell’opera, si fa i tatuaggi e il suo tatuatore sniffa cocaina. Minchia, averci pensato io.
Nella scena del minuetto il maestro di ballo è trasformato in fotografo di moda: banale e scontato, per non parlare delle contraddizioni con il testo.
Manon4mod
Nel terzo atto le prostitute stanno appese ingabbiate come lampadari e man mano che sono nominate (sono undici, Manon compresa: Rosetta, Madelon, Ninetta, Caton, Regina, Claretta, Violetta, Nerina, Elisa, Ninon e Giorgetta) vengono calate sul ponte e alcuni loschi figuri con il giubbotto dell’Anas le disimpegnano dai lucchetti. Una non ci riesce, povera, e resta ingabbiata, speriamo che l’abbiano liberata in serata.
Il quarto atto, che si svolge nel deserto, è quasi normale. Bella forza, siamo nel deserto, che doveva inventarsi il regista?
Inoltre, senza che ci sia alcuna motivazione, ogni tanto qualcuno del Coro doveva lanciare stelle filanti sul palcoscenico. Forse perché siamo a Carnevale?
Cosa si scrive quando le luci sono infamia e senza lode? Che sono suggestive. Ecco. Le luci di Giuseppe Di Iorio erano suggestive.
La coreografia di Ron Howell? Boh, io non l’ho notata, ma magari c’era e ho rimosso.
In tutto questo c’era un direttore, Renato Palumbo, alla guida di un’ottima Orchestra della Fenice.
Direzione così così. Magniloquente e retorica, fredda e metallica, gelida nello splendido Intermezzo. Clangorosa, anche, in qualche occasione.
L’attrazione della serata era il soprano Martina Serafin, che ascoltavo dal vivo per la prima volta e della quale mi era stato detto un gran bene.
Beh, non le manca il volume, questo è certo, è una voce importante. Però ha cantato tutto forte o mezzoforte perciò non ho sentito né una ragazzina innamorata né una tentatrice capricciosa né tantomeno una donna disperata, ma solo una ragazzona ansiosa. Una lettura troppo superficiale, parzialmente riscattata da una buona esecuzione dell’aria dei gioielli.
Gli acuti inoltre non mi sono sembrati facilissimi e un paio erano pure calanti. La voce non ha particolari attrattive timbriche e spesso suona aspra e segaligna.
Insomma, non mi è parsa un portento ma, almeno ieri, solo un’onesta cantante con una buona propensione ai ruoli drammatici, più per tonnellaggio vocale che altro.
Dal punto di vista scenico non saprei che dire, anche perché conciata da ragazzina con i calzettoni, lei che è una signora bella grande, non credo si sentisse a proprio agio.
Voglio dire, una Manon Lescaut che non seduce né con la voce né con la recitazione, il fraseggio, non può considerarsi riuscita.
Walter Fraccaro era Des Grieux e si sa che da questo tenore non ci si possono aspettare troppe nuances interpretative, visto che punta sempre ad un approccio muscolare e monolitico al personaggio, sia che impersoni Radames sia che affronti un Cavaradossi.
Ieri però mi è sembrato in cattiva giornata, perché la voce, di per sé abbastanza voluminosa, usciva come ovattata e gli acuti parevano forzatissimi. Molta fatica si è percepita già nella prima aria, Tra voi belle, brune e bionde, in cui la gestione pessima dei fiati ha compromesso la buona riuscita della sortita. La parte ruota tutta sulla cosiddetta “zona di passaggio” ed è molto impegnativa, bisogna sottolinearlo, per cui anche un si bemolle pesa parecchio, un po’ come nell’Otello verdiano che sembra che il tenore canti qui al Verdi di Trieste tra un paio di mesi (non voglio fare la Cassandra, ma insomma…speriamo bene).
È mancato l’approccio amoroso, il turbamento dei sensi e della mente che porta alla perdizione e alla fine alla rovina.
Il baritono Dimitris Tiliakos, in una parte sfuggente e di difficile lettura psicologica, si è limitato al compitino appalesando una voce esile, secca e poverissima di armonici. Gli riconosco una buona presenza scenica e una generica correttezza vocale.
Alessandro Guerzoni era Geronte di Ravoir e non mi è dispiaciuto almeno perché era abbastanza sonoro e non ha accentuato il lato volgare di un personaggio già fastidioso di suo.
Il tenore Saverio Fiore, impegnato sia come Edmondo sia come Lampionaio non ha demeritato.
Bene il Coro, preparato da Claudio Marino Moretti e dignitosi tutti i comprimari: Gionata Marton (Oste), Anna Malavasi (Musico), Stefano Consolini (Maestro di ballo), Carlo Agostini (Sergente), Salvatore Giacalone (Comandante) e i quattro Musici (Nicoletta Andeliero, Emanuela Conti, Gabriella Pellos, Francesca Poropat).
Il pubblico ha accolto bene tutta la compagnia di canto, regalando ovazioni a Martina Serafin e Walter Fraccaro.
Compagnia di canto Manon Lescaut.  
Non ci sono state contestazioni al regista, com’è successo alla prima di venerdì scorso, ma comunque Graham Vick o non c’era o se c’era dormiva, come avrebbe fatto bene a fare anche quando gli proposero di allestire questa Manon Lescaut.
Cena leggera e un bel sonno ristoratore e sereno, così magari il riposo non è disturbato da incubi popolati da cigni rosa giganti e orsacchiotti grandi come Tirannosauri (stramile).
Buona settimana a tutti e un saluto a Adalberto e Ilaria.

Giacomo Puccini: tutti gli uomini del deficiente, o anche i nuovi vecchi mostri.

Sollecitato più volte da gabrilu ad esprimere qualcosa di semiserio sulla visione pucciniana del maschio, dopo che ho scritto già delle donne, eccomi qui, pronto a dedicarvi le mie stupidaggini.
Mi limito ai personaggi principali, ovviamente, altrimenti non la finiamo più.
Allora Edgar, nell’opera omonima, è un rintronato che s’innamora di una che è evidentemente zoccola, però ha la scusante di stare con la più pallosa delle donne: la promessa sposa sdolcinata in servizio permanente effettivo, che già all’inizio dell’opera gli rompe le palle mentre dorme parlandogli di alberi e fiori.
Ora, la prospettiva di una vita dedicata al giardinaggio assieme a una tipa così dolce che ti si caria un dente ogni volta che apre bocca, può essere devastante per chiunque, quindi io lo giustifico in qualche modo.
Des Grieux, uno studente che ha un nome che sembra uno starnuto onomatopeico (Degriè! Salute!), non ha proprio attenuanti.
Studente, senza un soldo ok, ma gli studenti sono così di solito altrimenti sono dalle Orsoline, dalle Dimesse o al CEPU.
Si può immaginare che nell’ambiente potesse folleggiare senza troppi problemi no? Ci sono brune e bionde ovunque, intorno.
Eppure no, arriva ‘sta Manon slavata e ne resta folgorato perché gli dice che è destinata al convento dal papà cattivo.
Ma, dico, il papà avrà avuto i suoi motivi no? Forse pensava che era meglio rinchiuderla per sempre, ché non faccia danni in giro! E lasciala andare visto che tra l’altro neanche il fratello sembra proprio uno stinco di santo e ha il vizio del gioco.
La famiglia ha una tara genetica, stanne lontano, deficiente. Nulla, pure il mozzo gli tocca fare, per accompagnarla oltreoceano e alla fine baciarla fredda. (margie, sei la mia più grande fonte d’ispirazione)
Bella soddisfazione.
Geronte è il solito vecchio idiota che ormai spara un colpo all’anno e pretende di tenersi una ragazzina mezza ninfomane, quindi non ci perdo neanche tempo.
Rodolfo è un Des Grieux che almeno mostra rari bagliori di lucidità mentale: fa finta di non trovare la chiave che Mimì ha perso apposta, e poi le racconta la solita storia: che scrive, che è poeta, che è un idealista bla bla bla… insomma riesce a portarsela a letto per sua fortuna, è il fascino dello scrittore, dicono.
Poi però sbrocca e s’innamora sul serio e non ne fa più una giusta: litiga con l’amico Marcello che se la spassa con Musetta, sa che Mimì non sta benissimo ed invece di approfittarne si affeziona ancora di più.
Insomma merita di soffrire, altro che storie!
Inoltre non si rassegna e la chiama urlando quando lei è evidentemente morta, dopo che aveva già dato segni di squilibrio confondendo l’alba col tramonto. Magari era pure necrofilo, che ne so.
Ma si può?
Mario Cavaradossi è un bullo (strasmile), un voglio ma non posso che vuole fare la rivoluzione dipingendo biondone altolocate nelle chiese.
Arriva Angelotti e invece di denunciarlo subito s’inventa di essere patriota; sta con una diva capricciosa e rompiballe come poche e invece di lasciarla a Scarpia, altro idiota che potrebbe scopare tutto quello che si muove e si perde dietro una subrettina da quattro soldi, si fa torturare dai suoi sgherri, uno dei quali si chiama Spoletta.
Come se non bastasse si presenta davanti al plotone esecuzione e rifiuta la benda, convinto che gli sparino per finta, quindi avrà pure visto le pallottole che gli arrivano addosso: sarà morto di paura più che altro, forse pure perdendo il controllo dello sfintere anale. In testa dovevi mettertela la spoletta, caro Mario, e poi tirarla.
Pinkerton è il primo esempio di turista sessuale e quindi è indifendibile. Se ne va dagli USA in Giappone per fare il porco con le minorenni e quindi è lui che dovrebbe morire, non la povera Cio Cio San.
Pure il console Sharpless, un potentato satiro ubriacone, che si mette a disquisire di ornitologia (ma per favore…) meritava di lasciarci la pelle.
Invece l’unica pena per Pinkerton, per quanto terribile, è che si sposa e sarà infelice per sempre, perché per me Kate è una di quelle donne che fanno finire male i matrimoni, restando fedeli tutta la vita.
Dick Johnson viveva tranquillo con l’eredità del padre, che gli aveva lasciato una gang di tagliagole pronta a tutto per lui, quindi aveva davanti a sé una vita serena e agiata. Poteva passare di villaggio in villaggio e scoparsi le varie Nina Migueltorena del luogo, ogni porto una miniera e una donna, ogni donna una cava, direi se fossi volgare.
Invece che fa, lo scellerato? (che tra l’altro doveva essere ancora confuso in merito alla sua identità sessuale, perché entra in scena dicendo Chi c’è, per farmi i ricci?)
Ruba un bel po’ d’oro e poi si pente, perché una finta semplice una volta si era rifiutata di andare con lui a raccogliere le more e gli aveva chiesto la mano intendendo il braccio. (e qui, come dire, è meglio che taccia, perché è il tipico caso di pulsione sessuale inibita alla meta)
Poi, come già ho detto nel post precedente, ma come ti passa per la testa di andare a vivere con una che bara alle carte e gira armata?
Sembra che la famosa battuta di Mae West (hai in tasca una pistola o sei solo contento di vedermi?) l’abbia pronunciata Minnie, per prima.
Nella Rondine gli uomini sono davvero deficienti, uno peggio dell’altro.
A partire da Ruggero, ovviamente, che non trova di meglio, pure lui, d’innamorarsi di una mantenuta in crisi esistenziale.
Ma anche Rambaldo che la mantiene non è furbissimo, con quello che spende potrebbe cambiarne una al giorno e invece s’incaponisce con Magda, che almeno ha l’onestà di esordire dicendo che in casa sua l’anormale è la regola, e ci sono buone possibilità che visto il nome, appunto, l’anormale sia Rambaldo.
Non parliamo poi di Prunier un artista che porta un nome che potrebbe andare bene per un lassativo, e in effetti come poeta fa proprio cagare. (infatti Magda lo piglia per il culo e lo presenta così: Il poeta Prunier, gloria della Nazione,degna le nostre orecchie di una nuova canzone, neanche fosse Apicella)
Inoltre questo Prunier millanta amori aristocratici e perde la testa per una cameriera con mal riposte ambizioni artistiche, Lisette, la porta all’esordio sul palcoscenico e li riempiono di fischi e gatti morti, ché le gatte morte in quest’opera sono tutte occupate.
Nel Tabarro ci sono Michele, marito di Giorgetta, e Luigi il suo amante.
Il primo sfrutta sul lavoro il secondo che ovviamente gli scopa la moglie con furore rivoluzionario, teorizza cioè la scopata al posto della molotov per abbattere il sistema.
Il sistema, nella persona di Michele, gli taglia la gola nella migliore tradizione dei dittatori ed espone il cadavere avvolto in un cappotto, in modo che Giorgetta lo veda bello caldo come piaceva a lei.
Tutto nella norma, solo che Michele si dimentica di buttare nel fiume pure Giorgetta, che l’avrebbe meritato ampiamente.
Poi c’è Calaf della Turandot.
Madonna che idiota!
Avrebbe la brava e onesta Liù che sbava per lui e cambia pure il pannolone al papà incontinente del Principe Ignoto, ma niente, si mette in testa di farsi una frigida acclarata che fa sedute spiritiche, tanto che tutti la chiamano Prinicipessa di gelo e lei invoca di essere posseduta dallo spirito dell’antenata Lou-Ling.
Cioè, renditi conto di come si prospetta la prima notte di nozze no? E se questa comincia a girare la testa di 360 gradi e vomitare roba verde che fai? Chiami l’esorcista o un terapista di coppia?
Si può essere più scemi?
Dopo che ha risposto a domande assurde tipo Su straniero, il gelo che dà foco cos’è? (una figura retorica avrei risposto io, domanda non facile, così buttavo là una litote, tanto per far vedere che non sono proprio sprovveduto in materia) vince il frigorifero ed è tutto contento.
Meno male che c’è Gianni Schicchi, accidenti, che si prende gioco di tutti e alza un po’ il livello intellettuale dell’universo maschile pucciniano, gli concedo volentieri l’attenuante!
Buona settimana a tutti (strasmile)
 
 

Giacomo Puccini, le sue donne e Anna Tatangelo.

Nel 2008 si è celebrato un po’ovunque e in vario modo il 150° anniversario della nascita di Giacomo Puccini, uno dei più grandi spacciatori d’amore, come lo definì qualcuno che ora non ricordo.
Mi sembra giusto quindi, visto che non mi sono mai soffermato troppo su questa ricorrenza, cominciare il nuovo anno da blogger con un piccolo omaggio al compositore lucchese poiché mi sento in debito nei suoi confronti.
L’occasione me la fornisce un bell’articolo di Nicola Salmoiraghi sul mensile L’Opera .(piccolo inciso polemico: io cito le fonti dalle quali traggo ispirazione, sempre, e chi vuol capire capisca)
Ora, questo blog è letto da tante persone, addetti ai lavori, cantanti e così via ( le mie caselle di posta e di messaggi privati sono intasate di mail d’insulti come quella di Babbo Natale ai primi di dicembre, cioè le sue non d’insulti, spero, è che mi sono incasinato con la consecutio e non riesco a uscire vivo da questa parentesi), ma io vorrei rivolgermi ai lettori che amo di più, coloro verso i quali esercito la mia costante e meritoria (?) opera di divulgazione semiseria, nella malcelata speranza di redimere qualcuno dall’ascolto delle porcate che canta, che ne so, Anna Tatangelo. (non me ne voglia nessuno, per favore, sto scherzando. Però vi prego cliccate sul nome della tipa e ditemi se in fondo al suo sito web di primo acchito non leggete anche voi Visita il nuovo fanculo di Anna Tatangelo)
Allora, con questo spirito e il sorriso sulle labbra, analizziamo psicologicamente ed armati di sulfureo spirito toscano queste famose eroine di Puccini, e vediamo come si comportano nella vita. Scrivo nella vita non a caso, perché sono sempre tra noi, l’altro giorno giuro che ho visto Mimì in farmacia mentre chiedeva uno sciroppo per la tosse.
La prima di queste ragazze, in ordine di apparizione (o composizione, se preferite) si chiama Anna ed è la protagonista di Le Villi.
Non c’è molto dire su di lei, se non che rompe le palle al fidanzato anche da morta. Le Villi sono strane creature che sarebbero state benissimo in uno dei romanzi dei nostri scrittori più misconosciuti e sottovalutati: Tommaso Landolfi. (il romanzo, bellissimo, è La pietra lunare)
Poi ci sono altre due tipe assurde nel lavoro successivo del Maestro, quell’Edgar che si contende assieme a poche altre il prestigioso titolo di Peggior opera mai scritta, e che recentemente è stato riproposto a Torre del Lago.
Puccini (e i suoi librettisti, lo sottintendo sempre)qui proprio non voleva lavorare di fantasia neanche per i nomi, infatti come chiama le due ragazze? Fidelia e Tigrana.
Secondo voi, quale delle due è la buona?
Tu, maschio italico (ma anche no, diciamo maschio in generale) che mi leggi, saresti tranquillo con una che ha un nome simile a una brutta Opel?
Peraltro, vogliamo parlare di Fidelia? Solo il nome mi fa l’effetto del lorazepam, con conseguente picchiata della libido.
Andiamo avanti e passiamo a Manon (Lescaut), che più che il nome di una donna sembra un invito a diventare ciechi.
Cioè questa s’invaghisce dello studente Des Grieux, lo circuisce e se lo scopa, poi siccome lo scellerato è pieno di soldi come può esserlo di tolleranza verso i gay l’onorevole La Russa, si trova un vecchio ricco, brutto, calvo, bavoso e rompicoglioni e lo lascia.(a parte il ricco è il mio ritratto, lo so e lo dico per prevenire la battuta di margie)
Poi, non contenta e annoiata, si riprende il giovane deficiente e va a morire di sete in un deserto americano.
Sarà mica normale?
Poi c’è Mimì, altra bona, ma rosta come si direbbe qui a Trieste.
Fa finta di perdere le chiavi di casa, sa di stare male e fa diventare matto quello sfigato di Rodolfo, che viveva benissimo con i suoi compagnoni in una soffitta di Parigi, andando di fiore in fiore, e non erano di plastica, mi sa.
Inoltre lo fa litigare col suo migliore amico, e poi muore.
Ecchecazzo.
Per non parlare di Musetta, altra disgraziata, che fa ammattire tutti gli uomini che ha intorno, però si fa mantenere anche lei da un vecchio trombone fino a quando le gira bene.
Certo, ha il cuore d’oro…come no!
Tosca, un monumento alla capacità di combinare solo casini in qualsiasi circostanza.
Egocentrica come nessuna, non vittima di Scarpia: è una Diva, tutti la vogliono tutti la cercano, è gelosa, minaccia di fare gli occhi neri alla Attavanti, fa i capricci col suo bel Mario Cavaradossi, provoca Scarpia, lo uccide e lo deride, vuole insegnare al pittore sfigato come morire per finta mentre quello schiatta davvero e poi, non contenta, non è che se ne va fuori dalle palle e basta, no, si butta pure giù da Castel Sant’Angelo tanto per mantenere un profilo basso, che se arriva in testa a qualcuno fa pure altri danni.
Cio Cio San, Madama Butterfly, è roba da manicomio.
Litiga con la famiglia, si fa mettere incinta da un ragazzone americano idiota, rompe le scatole a Suzuky, va in giro per i moli a cantare e vedere navi che non ci sono e poi si uccide, così l’americano, che è già condannato per chissà quanti anni al matrimonio, deve convivere con la moglie e col rimorso.
Un genio del male, una psicopatica.
Una delle peggiori è Minnie della Fanciulla del West, che vuol far credere di essere intonsa dopo che ha passato tutta la vita in un’osteria frequentata da minatori ubriachi.
Certo, perché se uno pensa ad un esempio di vita morigerata e scevra dai piaceri del sesso non può fare a meno di pensare ad un’ostessa che bara a carte e gira con la pistola, vero?
Quel finto mascalzone di Dick Johnson dove aveva la testa? Non era meglio che continuasse a frequentare Nina Migueltorena, che almeno quella non se la tirava tanto?
Dice: “Ma vissero felici e contenti, sono gli unici!”
Ho capito, ma chi ti sei portato in casa, Dick?
Arriviamo a Magda della Rondine, la Traviata dei poveri, perché questa folleggia per Parigi, si fa mantenere da un banchiere che si chiama Rambaldo e quindi bellissimo non doveva essere, ha una brevissima crisi di coscienza, giusto il tempo di rovinare la vita per sempre a un contadinotto che vuole tanto tanto bene alla mamma e poi torna a casa a smignottare, limpida e bianca al par di neve alpina.
Sembra la storia di una di quelle signore un po’ agée che se ne vanno in clinica a rifarsi la verginità e la riperdono già nella toilette dell’aereo, tornando a casa.
Bel sogno, Doretta, meco…me complimento!
Giorgetta del Tabarro con la scusa che fa un lavoro che ‘n le garba (si dice così?) e ha un marito dropout e segaiolo si trova un amante, ovviamente sfigato.
Risultato? Il marito s’incattivisce e uccide il povero disgraziato.
Complimenti anche a te che sostieni che conosci una musica sola, quella che fa ballare.
Coi lupi, ti farei ballare io, quelli della Roma che sono i peggio.
Angelica (anche qui, Puccini, che fantasia eh?) è una suora che la dava via come non fosse sua fino a che resta incinta e finalmente la rinchiudono in convento, dove pasticcia con la marijuana e comincia ad avere visioni.
La Zia Principessa, una virago fuori di testa e inacidita, ogni tanto va a trovarla per dirle che il frutto del peccato della ex vergine sta bene e questa che fa? Si uccide e spera che il signore la perdoni.
Doveva essere roba forte quella che preparava in convento.
Infine Turandot, ‘sta sfigata taglia teste che si diverte a fare gli indovinelli come Gerry Scotti ed è pure così poco piena di sé da ritenersi un premio adeguato.
Pretende, la megalomane, che nessun dorma a Pechino perché uno che non si è neanche presentato ha vinto il premio.
Nel frattempo, così, tanto per cambiare, fa uccidere la povera Liù che faceva da badante all’anziano papà dell’Innominato e si sudava la pagnotta come poche.
Una vicenda così assurda che persino Puccini non ha saputo mettere la parola fine.
(strasmile)
Bene, questo mio excursus semiserio tra le donne protagoniste delle opere di Puccini si chiude qui.
Spero di avervi strappato una risata, anche di sguincio.
Cominciare l’anno nuovo ridendo porta bene, mi piace pensare che il Maestro, gran burlone come un po’ tutti i toscani, avrebbe non voglio dire approvato, ma almeno letto con benevolenza questo mio post.
Ancora auguri a tutti, di cuore (che poi sarà l’unica frase che leggerà la stragrande maggioranza dei passanti, lo so benissimo!)
 

Giacomo Puccini per tutti noi.

Oggi, ovunque nel mondo ed evidentemente non in Italia, si ricorda la nascita di Giacomo Puccini.
Nacque a Lucca, il 22 dicembre 1858.
 
 
Non aspettatevi da me una dotta disquisizione sull’Arte del Maestro, non sono il tipo e non sono all’altezza.
E poi, sono proprio in occasioni come queste che credo si debba fare divulgazione, magari non troppo semiseria, raccontando esperienze personali e non sciorinando dati tecnici o tecnicistici.
Allora, partendo dal presupposto che Puccini è uno dei Compositori più capaci di giungere al cuore degli appassionati, voglio rivelare qui sul blog qual è il momento che più mi emoziona della sua musica.
È l’ultima parte della terza scena del terzo atto di Tosca.
La riporto integralmente, comprese le indicazioni del libretto, perché non c’è modo migliore per farla apprezzare a chi vuole lasciarsi trasportare in questo mondo magico.
 
 
Tosca – Cavaradossi
 
(Tosca che in questo frattempo è rimasta agitatissima,
vede Cavaradossi che piange: si slancia presso a lui,
e non potendo parlare per la grande emozione
gli solleva con le due mani la testa, presentandogli in pari tempo il salvacondotto:
Cavaradossi, alla vista di Tosca, balza in piedi sorpreso,
legge il foglio che gli presenta Tosca)
 
 
 
CAVARADOSSI
(legge)
Franchigia a Floria Tosca…
… e al cavaliere che l’accompagna.
 
TOSCA
(leggendo insieme a lui con voce affannosa e convulsa)
… e al cavaliere che l’accompagna.
(a Cavaradossi con un grido d’esultanza)
Sei libero!
 
CAVARADOSSI
(guarda il foglio; ne vede la firma)
(guardando Tosca con intenzione)
Scarpia!…
Scarpia che cede? La prima
sua grazia è questa…
 
TOSCA
E l’ultima!
 
(riprende il salvacondotto e lo ripone in una borsa)
 
CAVARADOSSI
Che dici?
 
TOSCA
(scattando)
Il tuo sangue o il mio amore
volea… Fur vani scongiuri e pianti.
Invan, pazza d’orror,
alla Madonna mi volsi e ai Santi…
L’empio mostro dicea: già nei
cieli il patibol le braccia leva!
Rullavano i tamburi…
Rideva, l’empio mostro… rideva…
già la sua preda pronto a ghermir!
"Sei mia!" – Sì. – Alla sua brama
mi promisi. Lì presso
luccicava una lama…
Ei scrisse il foglio liberator,
venne all’orrendo amplesso…
Io quella lama gli piantai nel cor.
 
CAVARADOSSI
Tu!?… di tua man l’uccidesti? – tu pia,
tu benigna, – e per me!
 
TOSCA
N’ebbi le man
tutte lorde di sangue!
 
CAVARADOSSI
(prendendo amorosamente fra le sue le mani di Tosca)
O dolci mani mansuete e pure,
o mani elette a bell’opre e pietose,
a carezzar fanciulli, a coglier rose,
a pregar, giunte, per le sventure,
dunque in voi, fatte dall’amor secure,
giustizia le sue sacre armi depose?
Voi deste morte, o man vittoriose,
o dolci mani mansuete e pure!…
 
TOSCA
(svincolando le mani)
Senti… l’ora è vicina; io già raccolsi
(mostrando la borsa)
oro e gioielli… una vettura è pronta.
Ma prima… ridi amor… prima sarai
fucilato – per finta – ad armi scariche…
Simulato supplizio. Al colpo… cadi.
I soldati sen vanno… – e noi siam salvi!
Poscia a Civitavecchia… una tartana…
e via pel mar!
 
CAVARADOSSI
Liberi!
 
TOSCA
Chi si duole
in terra più? Senti effluvi di rose?!…
Non ti par che le cose
aspettan tutte innamorate il sole?…
 
CAVARADOSSI
(colla più tenera commozione)
Amaro sol per te m’era morire,
da te la vita prende ogni splendore,
all’esser mio la gioia ed il desire
nascon di te, come di fiamma ardore.
Io folgorare i cieli e scolorire
vedrò nell’occhio tuo rivelatore,
e la beltà delle cose più mire
avrà sol da te voce e colore.
 
TOSCA
Amor che seppe a te vita serbare,
ci sarà guida in terra, e in mar
nocchier…
e vago farà il mondo riguardare.
Finché congiunti alle celesti sfere
dileguerem, siccome alte sul mare
a sol cadente,
(fissando come in una visione)
nuvole leggere!…
(rimangono commossi, silenziosi:
poi Tosca, chiamata dalla realtà delle cose, si guarda attorno inquieta)
E non giungono…
(si volge a Cavaradossi con premurosa tenerezza)
Bada!… al colpo egli è mestiere
che tu subito cada…
 
CAVARADOSSI
(triste)
Non temere
che cadrò sul momento – e al naturale.
 
TOSCA
(insistendo)
Ma stammi attento – di non farti male!
Con scenica scienza
io saprei la movenza…
 
CAVARADOSSI
(la interrompe, attirandola a sé)
Parlami ancora come dianzi parlavi,
è così dolce il suon della tua voce!
 
TOSCA
(si abbandona quasi estasiata, quindi poco a poco accalorandosi)
Uniti ed esulanti
diffonderem pel mondo i nostri amori,
armonie di colori…
 
CAVARADOSSI
(esaltandosi)
Armonie di canti diffonderem!
 
TOSCA e CAVARADOSSI
(con grande entusiasmo)
Trionfal, di nova speme
l’anima freme in celestial
crescente ardor.
Ed in armonico vol
già l’anima va
all’estasi d’amor.
 
TOSCA
Gli occhi ti chiuderò con mille baci
e mille ti dirò nomi d’amor.
 
Qui Franco Corelli e Leontyne Price, in un’infuocata recita al Metropolitan di New York, il 7 aprile 1962, da “Amaro solo per te”
Buon ascolto.
 
 
 
 

Recensione semiseria della Tosca a Trieste.

Ecco, ieri sera a Trieste si è avuto l’esempio lampante di come non deve essere una regia operistica, pur senza che si veda nulla di particolarmente scandaloso.
Il concetto è questo: il teatro lirico vive, fino a prova contraria, di canto e musica, e di conseguenza il regista si deve mettere al servizio dei compositore e dei cantanti.
Ora, se Giovanni Agostinucci ha un’idea distorta della storia e dei personaggi di Tosca, non dovrebbe firmare regie liriche, a prescindere dal fatto che siano costose o meno: le sue eccentricità distolgono l’attenzione dalla musica.
È questo il principio da cui si dovrebbe partire per risanare le fondazioni liriche, eliminare e allontanare gli incompetenti dai teatri e chi, con i nostri soldi, li ingaggia: sarebbe già una bella vittoria.
Nel caso di Puccini poi, il più cinematografico dei compositori, conta solo questo:

Tosca.

sulla partitura e sul libretto c’è scritto tutto, non solo le note, ma anche i sentimenti che animano i protagonisti.
Ieri sera Juan Pons, baritono spagnolo di grande prestigio e lungo corso ha cantato bene il suo Scarpia, seppur con qualche inevitabile cedimento vocale( non è più un ragazzino) ma in scena era inguardabile: una parrucca che lo faceva assomigliare a Tarzan dopo che si è cotonato i capelli era la cosa più sobria.(smile)
Il sublime Te Deum che chiude il primo atto era popolato da un sacco di personaggi inutili, sulla cui presenza mi sto ancora interrogando.
Chi erano? Cosa rappresentavano?
Poi, Daniela Dessì, che si è confermata, l’ho già scritto in occasione delle recite alla Fenice ma lo ribadisco, la più credibile Tosca del panorama operistico attuale e comunque di assoluto riferimento, è nell’opera di Puccini una “Diva”, una cantante famosa: non può essere vestita dimessamente, ma deve apparire elegante, sofisticata, desiderabile anche per la sua condizione privilegiata di artista.
Il soprano genovese (incredibilmente all’esordio a Trieste) ha stregato il pubblico con una prestazione davvero brillante: acuti sicuri (cito solo il famoso DO della lama per tutti), fraseggio curatissimo, interpretazione coinvolgente ma sobria e controllata.
Mai una frase buttata via, fornendo risalto proprio a quel canto di conversazione che è così importante nelle opere di Puccini.
Una prova da incorniciare.
Bravissimo anche il tenore Fabio Armiliato nei panni di Cavaradossi; e a proposito di panni, con quel costume poteva essere chiunque: Don Chisciotte, D’Artagnan, Alvaro, Siegfried, un fantino del Palio di Siena e pure il mio amico Luca.(strasmile)
Che senso ha?
Armiliato, nell’ambito di una prestazione maiuscola, ha cantato un “E Lucevan le stelle” eccezionale, cercando e trovando mille sfumature e colori, mentre sarebbe più comodo per lui e forse anche più appagante per il pubblico sparare acuti a nastro.
Nel bellissimo duetto d’amore del primo atto, un valore aggiunto alla eccellente prova dei due artisti lo ha dato la complicità che c’è nella vita privata: Armiliato e Dessì celebravano ieri sera la centesima rappresentazione pucciniana in coppia.
Bravi anche Alessandro Svab, il fuggiasco Angelotti, e Nicolò Ceriani, simpatico Sagrestano.
Non avrei volto essere per alcun motivo al mondo nei panni di Gianluca Bocchino, che ha cantato bene la piccola parte di Spoletta ma è stato costretto a una recitazione grottesca: ghigni, risatazze, smorfie per significare un eccesso di sadismo, di crudeltà.
Corretti Giuliano Pelizon (Sciarrone) e Damiano Locatelli ( Carceriere) e a posto come sempre il Coro preparato da Lorenzo Fratini e il coro di voci bianche istruito da Maria Susovsky.
Il Pastorello era il giovanissimo Osmer Daniel Spangher, molto bravo.
Il direttore Donato Renzetti mi ha lasciato perplesso: evidenti le scollature con il palcoscenico, sonorità spesso al limite del clangore e una visione dell’opera frammentaria, che si è materializzata in una direzione disomogenea; spesso l’orchestra (incolpevole, a mio modo di vedere) gli è scappata via.
Pubblico in visibilio (un’eccezione, visto che si trattava dei fighetti zombie della prima), con ripetute richieste di bis, purtroppo non accolte, dopo il “Vissi d’arte” di Dessì e il “E Lucevan le stelle” di Armiliato.
Fuori dal teatro i rappresentanti dei sindacati hanno distribuito un volantino, molto ben fatto, in cui s’invita a sottoscrivere questo appello unitario preparato dai lavoratori del Regio di Torino: io l’ho già firmato dopo la segnalazione di Bob e invito tutti i miei lettori a fare come me.
Una considerazione finale sull’accoglienza che ha ricevuto dalla stampa locale questa Tosca, in un momento difficile per il mio teatro.
“Il Piccolo”, tristissimo quotidiano locale, al suo peggio: dieci righe stentate e fumose di recensione, probabilmente riferite alla generale, messe giù con la sufficienza di chi deve fare un compitino.
Complimenti vivissimi, così si aiuta la causa della cultura in Italia.
 
 
 
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