“Les Pêcheurs de perles” (I Pescatori di perle) di Georges Bizet, debutterà martedì prossimo al Teatro Verdi, nel nuovo allestimento della fondazione triestina.
I Pescatori (d’ora in poi li chiamerò così, per mia e vostra comodità) è un’opera francese, su questo non ci sono dubbi, ma per tanti motivi la si può definire di gusto musicale italiano.
Bizet, come tanti musicisti della seconda metà dell’800, è attratto dall’esotico oriente, che è un non luogo che è stato fonte d’ispirazione costante per l’Arte europea in generale. Peccato che spesso quest’attrazione fatale non sia stata supportata da una reale conoscenza della cultura orientale.
Ad esempio, già molto più tardi, un tipo tosto e colto come Mascagni non trovò di meglio che chiamare i protagonisti maschili della sua Iris con il nome di due città: Osaka e Kyoto. Un po’ come se un giapponese ambientasse un dramma in Italia con protagonisti due ribaldi di nome Milano e Roma. [lo so, poi in realtà a qualcosa di simile ha pensato Bossi, ma ci ha messo solo un testo un po’ volgare (strasmile)]
Ma torniamo al nostro Bizet, che era un signorino di buona famiglia che probabilmente si scopava la cameriera{o almeno così disse lei, indicandolo come padre del frutto del suo ventre: perché non crederle? [peraltro, c’è pure un famoso detto latino( mater sempre certa est, pater numquam) a parziale difesa del bellimbusto francese] }e studiava musica e composizione con profitto, tanto da vincere una specie di borsa di studio in Italia.
Insomma, ‘sto ragazzetto, a 24 anni, tira fuori “I Pescatori” che debuttano a Parigi nel 1863 con esito non straordinario, tanto che l’opera, in breve tempo, scompare dai cartelloni dei teatri europei e il francesino non la rivide più rappresentata..
Bizet stesso contribuì alla sfiga dei Pescatori, scrivendo poi un’altra operina, Carmen, che ebbe un successo un po’ più marcato.
La trama è molto semplice, e se ad un primo sguardo non si affranca dal solito “Il tenore vuol scopare il soprano, ma il baritono non vuole”, che potrebbe riassumere gran parte delle vicende operistiche, in realtà ha almeno un altro topos da sottolineare, vale a dire l’amicizia virile tra Zurga e Nadir. (con sospetti d’omosessualità, ça va sans dire, vedi l’infante di Spagna e Rodrigo nel Don Carlo(s) di Verdi)
L’azione si svolge sull’isola di Ceylon (appunto, in Europa ‘ste cose vergognose non possono accadere), dove un gruppo di pescatori sfigati elegge come capo, per acclamazione, Zurga (baritono). Siccome andar per mare è sempre un casino, ci vuole anche una sacerdotessa vergine (Léïla, soprano) che preghi affinché il tempo sia favorevole.
Poi c’è una figura religiosa, Nourabad (basso) che coordina il tutto e dà l’imprimatur. ( e che palle, ‘sti religiosi, sono ovunque eh?)
Proprio mentre sbarca a Ceylon la sacerdotessa vergine, arriva il solito tenore rompicoglioni, Nadir, che riconosce in lei la donna per la quale s’era accapigliato, alcuni anni prima, con l’amico Zurga.
Lo scioperato fa finta di niente, e comincia a cantare di come e quanto gli sia mancata l’amicizia con Zurga (sì, come no): i due, commossi, giurano che tra loro non ci saranno mai più screzi, e ricordano insieme la bellezza di Leila.
Insomma, per farla breve, Nadir mette nei casini Leila, facendosi beccare come un cretino da Nourabad mentre amoreggia con lei. Il sacerdote, ovviamente, s’incazza come una biscia e li denuncia entrambi a Zurga. La pena è la morte, non c’è nulla da fare.
A questo punto però, Zurga si ricorda che Leila l’aveva levato dai casini anni prima, e così decide di salvarli distogliendo l’attenzione dalla loro sorte: non trova di meglio che appiccare il fuoco al villaggio di pescatori sfigati, i quali, come potrete ben comprendere, non gradiscono particolarmente la piazzata del capo.
I due amanti, Nadir e Leila, se ne vanno impuniti, mentre Zurga…beh…dipende.
Siccome il finale previsto da Bizet non sembrava sufficientemente spettacolare, per rendere l’opera più appetibile è stato più volte ritoccato da alcuni maneggioni dello spartito.
Pertanto, lo sfigatissimo Zurga deve crepare: arso sul rogo, infiocinato da un pescatore, trafitto da Nourabad oppure, ed è davvero il colmo per uno che è stato preso per il culo da tutti quelli che passavano, suicidandosi. Dipende dalla versione.
Ma si può? Non era meglio lasciare il finale di Bizet, animo sensibile, al quale sembrava abbastanza che se ne stesse lì sulla riva reietto, a contemplare per sempre in solitudine il mare?
Insomma con questa trovatona l’opera rientra in repertorio e, nel 1886 il Teatro alla Scala la ripropone in Italia con gran successo, complice l’editore Sonzogno che si era accaparrato i diritti sulle opere di Bizet, ed i funambolismi vocali del soprano Ernestina Bendazzi Secchi Garulli. (che non so perché, ma mi ricorda la fantozziana Servelloni Mazzanti Vien dal Mare, ma transeat)
Ora è necessario un attimo di serietà, altrimenti i consueti soloni della critica ufficiale perdono tempo a scrivermi mail infuocate.
Da quel momento, nel ruolo di Nadir si sono cimentati tutti i più grandi tenori del secolo scorso: Caruso, Gigli, Tagliavini, Vanzo, Gedda, Kraus, solo per nominarne alcuni.
A Trieste, nel 1947, Giuseppe Di Stefano debuttò il personaggio: a questo grande cantante, recentemente scomparso, è dedicata questa tornata di recite triestine.
L’opera manca al Verdi dal 1978, nientemeno, ed il fardello della pesante eredità dell’ultimo interprete, Alfredo Kraus, ricadrà su Celso Albelo, promettente e giovane tenore spagnolo.
Nella sua apparente semplicità, è parte molto perigliosa da cantare anche per il soprano: i richiami a due sacerdotesse famosissime nella storia del melodramma, la Vestale di Spontini e la Norma di Bellini, sono evidenti almeno come ispirazione culturale.
È ruolo da Belcanto: ci proverà una specialista come
Annick Massis.
Buona fortuna a loro e buona settimana a tutti voi, che avete avuto la pazienza d’arrivare in fondo a questo mio post strampalato.
P.S.
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