Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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È qui la festa? Ovvero recensione semiseria di un particolare San Valentino.

Qui, su Rotocalco, un mio intervento insensato sul libro Auto da fé di Elias Canetti.
Buon fine settimana a tutti.

Normalmente San Valentino è una festa da carie fulminea o da diabete, fate voi.

C’è un giovin signore, però, che quest’anno vivrà questa baracconata di regime in modo più lieto del solito.
Nell’immaginario collettivo la musica lirica è considerata, piaccia o meno poco importa, una disciplina artistica riservata a pochi intenditori, perlopiù giurassici e seriosi.
Noi melomani, invece, viviamo la nostra passione con gioia e voglia di divertirci, al pari di chi segue il calcio, tanto per fare un esempio d’intrattenimento popolare.
Ci accapigliamo per dimostrare la presunta superiorità dei nostri beniamini, gioiamo quando un artista canta bene, ci disperiamo se ascoltiamo un’opera mal eseguita, insomma viviamo con entusiasmo la nostra passione.
E proprio con questo spirito barricadero, ruspante, ma che non prescinde da una seria preparazione tecnica e da una profonda conoscenza dell’argomento, Davide Steccanella ha scritto questo libro, Montserrat Caballé. Ultimo soprano assoluto.
Un lavoro che non è né una biografia né tantomeno un’agiografia della straordinaria cantante catalana, ma, molto semplicemente, un atto d’amore nei suoi confronti.
Steccanella ripercorre la carriera di Montserrat Caballé dall’esordio a Basilea nel 1956 con la Bohéme sino alle trionfali apparizioni del 2007 a Vienna, nella Fille du Régiment, accanto a due acclamati divi odierni come Natalie Dessay e Juan Diego Flórez.
Cinquant’anni di carriera artistica documentati da una ricchissima cronologia, dalla discografia ufficiale e pirata, spezzoni d’interviste, molte foto (bellissime) e ricordi personali.
Immagino non sia stato facile raccogliere e catalogare tutto il materiale, soprattutto vista l’ipercinesi (si fa per dire, vista la stazza, strasmile) del soggetto e la sua bulimia interpretativa.
Il libro offre molti spunti di riflessione, ad esempio quando leggiamo che il debutto italiano del soprano fu rimandato, pensate un po’, perché l’opera di Manuel De Falla, La Vida Breve, in programma a Firenze, cadde sotto la scure dei tagli alla cultura e fu cancellata dal cartellone.
Sorprende anche che Montserrat Caballé, ritenuta non certo a torto somma belcantista, consideri Richard Strauss il suo compositore preferito.
Si apprezza pure il coraggio della cantante, che rischiando di persona sull’esempio di Maria Callas fu artefice della riscoperta di molte opere cadute nell’oblio.
Molto interessanti e curate anche le schede monografiche per autore e stile, in cui si approfondiscono le ragioni dell’approccio interpretativo della Superba ai vari compositori. Leggendo ci si rende conto di come l’artista abbia sostanzialmente cantato tutto il possibile, e proprio in questa sezione Davide Steccanella, seppur riottosamente, ammette in tono sfumato che qualche passo falso c’è stato. Non è poco per chi, tra i tanti indiscutibili pregi della Caballé, indica la dizione perfetta! Cioé Davide, la Montsy s’inventava di sana pianta i testi, qualche volta, siamo seri!
La fatica dell’avvocato melomane si chiude con una trovata ad effetto, di quelle che fanno ribaltare il processo a proprio favore, come nella migliore tradizione della popolarissima serie Perry Mason.
Nella suite di un albergo parigino si ritrovano Montserrat Caballé, Joan Sutherland e una vitalissima Maria Callas! La Superba, La Stupenda e La Divina si scambiano confidenze e fanno il bilancio della loro carriera: quale appassionato non vorrebbe essere presente a una simile riunione?
Il libro è molto ben riuscito, la scrittura non è appesantita dall’abuso di tecnicismi e scorre facilmente; unico difetto qualche refuso di troppo, ma anche in questo caso mi sento di poter reclamare per l’Autore la presunzione d’innocenza.
Intanto proclamo Davide e Montserrat coppia di fatto dell’anno, che è pur sempre un buon risultato.
A Davide anche il titolo di nuovo mostro, ambitissimo pure questo.(strasmile)
 
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Recensione semiseria dei Lombardi alla Prima Crociata al Regio di Parma.

Parma, una città dalla quale è sempre difficile andare via, mi ha regalato un bellissimo fine settimana all’insegna di Giuseppe Verdi. (ci sono parecchie foto, se ci cliccate sopra le vedete meglio: chi le volesse usare, citi la fonte, grazie!)

Partitura

I Lombardi alla Prima Crociata è un’opera di difficile e rara rappresentazione, però in questo caso il cast scritturato si è rivelato all’altezza sotto ogni punto di vista.
Note positive subito, dal lato regia e scenografia.
Lamberto Puggelli sembra quasi prendere ispirazione per il suo spettacolo dalle parole di Giselda, che esclama No, Dio nol vuole riferendosi alla guerra in generale e in particolare a un conflitto scatenato per fanatismo religioso. (risegnalo che di guerra si parla anche qui)
Ed allora ecco le proiezioni di immagini di battaglia, sino al celeberrimo Guernica, quasi a suggello della follia dell’uomo rappresentata da un altro uomo folle e visionario.
Le scene di Paolo Bregni sono scabre, ma funzionali ad uno spettacolo che fa della sobrietà e del buon gusto l’unica bandiera da sventolare con orgoglio.
Tradizionali e belli i costumi di Santuzza Calì, magnifiche le luci di Andrea Borelli, con riferimento particolare alla fine dell’opera, quando si intravede sullo sfondo Gerusalemme inondata dalla luce.
Molto centrata la direzione di Roberto Callegari, che è riuscito a stemperare la partitura da eccessive sonorità e clangori, nell’ambito di una visione intimista e cameristica assai problematica da rendere nel primo Verdi (alcune pagine sono francamente piuttosto stucchevoli e ripetitive).

Roberto Callegari

Cavolo, sembro un critico vero, mi sa che non mi leggerà più nessuno (strasmile).
E dire che ho sfidato le arcigne maschere (ragazze bellissime, sulle quali esercito un fascino irresistibile) del Regio ostentando la mia macchina fotografica!
Vabbè, andiamo avanti.
Coro impegnatissimo e sempre all’altezza della situazione: stupendo il famoso O Signore dal tetto natio, preceduto dall’impeccabile assolo del primo violino Michelangelo Mazza, che a Parma ha quasi più ammiratrici di me. (avoja, piace pure a me che dovrei essere etero)

Primo violino

Michele Pertusi si è confermato artista di classe, cantando e interpretando bene il problematico ruolo di Pagano, eremita per autopunizione e condottiero per vocazione.
Si sa che la voce del basso parmigiano non ha un volume straordinario, ma in questa circostanza anche le note gravi sono parse sonore e timbrate e gli acuti sicuri e precisi.

Michele Pertusi

Nella recita pomeridiana di domenica alla quale ho assistito, il ruolo di Giselda è stato interpretato da Silvia Dalla Benetta, soprano in grande ascesa professionale. La titolare del ruolo è Dimitra Theodossiou.
La parte è molto ostica e immagino non sia facile dover mostrare il proprio valore in una sola occasione, senza possibilità d’appello. Dalla Benetta ha cominciato cauta nell’aria di sortita ma poi durante lo spettacolo è andata in crescendo: la voce è piccolina ma ben proiettata e gli acuti facili e penetranti.
Le agilità di forza, vero e proprio incubo per i soprani verdiani, sono risultate talora imprecise ma nel complesso gli applausi a scena aperta e l’ovazione finale del pubblico del Regio (mica pizza e fichi eh?) hanno reso giustizia all’impegno dell’artista. Ottimo l’accento e buona l’interpretazione e la presenza scenica, mentre la dizione mi è parsa perfettibile.

Silvia Dalla Benetta

Per il giovane ma già affermatissimo tenore Francesco Meli, ma anche per me che ho avuto la fortuna di sentirlo, è stata una serata magica, tanto che io, che proprio non sono tipo da facili entusiasmi (oh, se cliccate sul tag recensioni ve ne rederete conto!), non esito a definire di riferimento assoluto la sua prestazione.
Canta con gioia e trasmette altrettanta felicità, basterebbe questo.
Peraltro, seppur in modo semiserio, questo blog tratta di musica lirica, e perciò vale la pena sottolineare la straordinaria musicalità, l’accento pertinente, la voce ammaliante, la dizione perfetta e la pertinenza storica ( dal lato musicale, Oronte sembra un tenore donizettiano) della sua interpretazione.
Io ho criticato Meli anche duramente in passato, e quindi mi sembra giusto, oggi, rendergli pubblico merito dei suoi enormi progressi.

Francesco Meli

Bravo anche Roberto De Biasio (Arvino) in una parte ingrata perché spesso deve cantare sul Coro o sull’ordito orchestrale severo dei concertati.
Discreti tutti gli altri coprotagonisti, anche se da Roberto Tagliavini (Pirro) m’aspettavo una prova più convincente.
Citazione di merito quindi per i soprano Cristina Giannelli (Viclinda) e Daniela Pini (Sofia), per il basso Jansons Valdis (Acciano) e per il tenore Gregory Bonfatti (Priore).
Ottima la prova dell’Orchestra del Regio, che se esiste un suono verdiano, beh, questo gli appartiene per meriti conseguiti sul campo.
Trionfo per tutti, con scene di delirio per Dalla Benetta e Meli.

Applausi

Tortelli in quantità industriale, mangiati sul posto e portati in omaggio agli amici grazie alla cortesia della mia amica e collega di OperaClick Patrizia Monteverdi, dopocena di risate folli, in cui l’altra amica Sveva (una pianista che lavora con i migliori nomi della lirica) mi ha aperto un mondo sconosciuto, quello delle sue scomposte reazioni ormonali ai suoni ingolati e brutti. (per non parlar del cane, ultrastrasmile!)
Mi spiace che il poco tempo a disposizione non mi ha permesso di conoscere di persona la dolcissima Sgnapis (sigh), ma sarà sicuramente per la prossima volta!
Ora, devo assolutamente trovare il tempo per scrivere qualcosa in quest’altro bellissimo posto, dove peraltro se la cavano benissimo anche senza di me.
Buona settimana a tutti.
 
 

I Lombardi alla Prima Crociata al Regio di Parma: piccola presentazione semiseria.

Prima trasferta dell’anno a Parma, per I Lombardi alla Prima Crociata di Giuseppe Verdi, opera che apre la striminzita stagione del Regio.
La prima si è già consumata martedì scorso, ed ha ricevuto un ottimo riscontro di pubblico e critica.
Io sarò alla recita pomeridiana di domenica prossima e prima d’annoiarvi con la mia consueta recensione semiseria nei primi giorni della prossima settimana, volevo scrivere due parole di presentazione su quest’opera giovanile di Verdi.
Come spesso succedeva a quei tempi, uno dei primi problemi che dovettero affrontare Verdi e il suo librettista, Temistocle Solera, fu la censura. Tutte le vicende che vedevano il popolo italiano unito contro lo straniero, ambientate in qualsiasi epoca, erano viste con sospetto. (ricordo che il lavoro esordì nel 1843)
Poi ovviamente c’era la Chiesa, che non ha mai brillato per larghezza di vedute e lungimiranza nei confronti dell’Arte, e fu proprio l’Arcivescovo di Milano a protestare perché gli erano giunte notizie che il lavoro manipolasse a fin di spettacolo la liturgia: una processione sul palcoscenico? Orrore!
Il tutto poi finì in una bolla di sapone, perché Verdi era ammanicato con il capo della polizia che soffriva di uno stato avanzato di melomania. (smile)
Unica eccezione, l’incipit modificato in una preghiera che oggi suona come Salve, Maria invece di Ave Maria, poca cosa. ( e poi mi sbaglio o esiste una preghiera che si chiama Salve Regina? Boh!)
Successo strepitoso alla prima alla Scala di Milano, il 1° febbraio 1843, con l’eccezione dei soliti critici francesi dalla puzza sotto al naso. (strasmile)
L’opera, ricavata da un poema di Tommaso Grossi, ha una trama molto incasinata, complicata ancor di più dalle solite esigenze di brevità e fuoco di Verdi, per cui ne esce un drammone pieno di incongruenze.
Come spesso succede nel primo Verdi il soprano sostiene un ruolo molto pesante, sospeso tra pagine di vero e proprio belcanto d’ascendenza belliniana ad altre che necessitano di temperamento e vigore.
Verdi scrisse la parte per Erminia Frezzolini, che poi creò pure il personaggio di Giovanna d’Arco.
Sarà interessante sentire come se la cava il soprano Silvia Dalla Benetta, una cantante che sta cambiando repertorio, nei panni di Giselda, un personaggio ideale di transizione verso il lirico pieno.
Canta molto anche il basso in questo lavoro, alle prese con un personaggio molto ambiguo, Pagano, santo e assassino, eremita e populista allo stesso tempo: lo interpreta Michele Pertusi, un cantante di grande raffinatezza stilistica e sicuro rendimento, forse un po’ troppo leggero per il ruolo.
E il tenore, direte voi? (forse)
Il tenore si chiama Oronte ed ha una parte molto singolare, tanto che si può affermare con certezza che il neofita non vi riconoscerebbe gli stilemi del classico tenore verdiano: e dire che l’Ernani era alle porte.
Anche in questo caso, è evidente all’ascoltatore smaliziato la sicura ispirazione dal belcanto donizettiano e belliniano del ruolo.
In questa produzione, infatti, Oronte è affidato a Francesco Meli (la più bella voce tenorile del momento, a mio e non solo mio parere)che di solito è impegnato in altri repertori: Mozart, Donizetti, Rossini.
Eppure, anche se tra gli appassionati è già noto l’ottimo risultato della prima, io sono convinto che sia proprio un ruolo che fa per lui.
Vedremo e sentiremo.
Molto impegnato anche il coro, con una pagina musicale tra le più belle, O Signore, dal tetto natio.
Insomma, considerate poi le solite abbuffate di prosciutto e tortelli, e capirete facilmente che non troverò il tempo per annoiarmi, anche perché a Parma ci saranno molti amici di OperaClick.
L’edizione discografica di riferimento dei Lombardi è un live del 1969, protagonisti una splendida Renata Scotto e un insuperabile e giovane Luciano Pavarotti, oltre che Ruggero Raimondi nei panni di Pagano.
Vi allego proprio l’ascolto del grandissimo Luciano accompagnato al pianoforte da James Levine, nella pagina forse più famosa dell’opera, La mia letizia infondere.
Parto.
A presto e buon fine settimana a tutti. (c’è una novità in ballo, ma non ne parlo per scaramanzia…aspettate e…forse…leggerete!)
 
 

Paolo, datemi pace!

Bene, dopo le polemiche paurose (ma tutto sommato stimolanti) di questi giorni, ora è il caso di passare ad altro, almeno per me.
Altro si fa per dire, perché sempre di musica si tratta.
Nella vita sono un inguaribile pessimista e di ciò mi sono grati, come potete immaginare, amici e parenti, che dovrebbero chiamarmi come un famoso giocatore di basket americano che approdò a Trieste mi pare nel 1981: Marvin Barnes, detto Bad News.
Certo io non ho il suo talento, ma in quanto a combinare guai… (strasmile)
Quando vado in teatro invece, nonostante alcuni mi abbiano detto e scritto che sono troppo cattivo nelle recensioni, cerco di vedere sempre il bicchiere mezzo pieno.
Allora, questa piccola composizione che vedete qui sotto e sul cui valore artistico e creativo v’invito cortesemente a sorvolare, rappresenta il mio 2008 dal lato musicale.

Albero di Natale.

Sono 20 (mi pare) libretti di sala di allestimenti operistici. Spesso ho visto anche i secondi cast e ad alcune recite sono tornato per piacere personale, per cui ho calcolato che ho passato una sessantina di serate a teatro, quest’anno.
Il miglior augurio che posso fare a me stesso è di passarne almeno altrettante l’anno prossimo e di continuare qui la mia divulgazione semiseria dell’opera lirica.
Spero di avere l’opportunità di scrivere ancora su Rotocalco e Stanze all’aria, due posticini tranquilli e a misura d’uomo.
Voglio lasciare un saluto particolare a Bea, perché insieme abbiamo fatto una cosa bella, e un altro a Marina, perché mi ha ispirato un’altra cosa bella. (loro sanno di che parlo, non siate curiosi!)
A tutti voi invece, che mi seguite con una costanza che non finisce di sorprendermi, auguro serenità, salute e di non incontrarmi mai di persona, ché si perde tutta la poesia, poi. (strasmile)
Soprattutto mi auguro di non sentirmi mai dire la frase che dà il titolo al post, tratta da quella Francesca da Rimini che purtroppo a Trieste è stata sospesa per i noti tagli del Governo al FUS. (e non dico altro, ok)
All’anno prossimo, se dio vuole, come dice sempre una mia carissima amica.
Ciao a tutti.

Multum in parvo.

Ho aggiunto su Flickr un paio di foto della Tosca alla Fenice.
Rivedendo gli scatti riusciti male, mi sono convinto d’aver perso una bella occasione, accidenti.
Ho mandato tutto il materiale grezzo a Giorgia, che sicuramente con la sua abilità nell’arte della fotografia farà qualche miracolo. (strasmile)
Intanto su Rotocalco si parla di Vizi Capitali.
Invito tutti i miei lettori a leggere non solo il mio contributo, ma anche quelli degli altri.
Domani a Trieste c’è la presentazione dell’ultima opera del cartellone di quest’anno: La Rondine di Puccini, mentre mercoledì sarà presentata la stagione operistica 2008-2009.
Riferirò anche in questa sede, intanto buona settimana a tutti.

Trieste, ma non solo.

Ho scritto questo pezzo un paio di giorni fa, un po’infastidito dagli eventi e dalla continua noncuranza di chi, a vari livelli, ci governa.
Ve lo propongo come spunto di riflessione.
In attesa del Rotocalco, che dovrebbe uscire domani, e di cui linkerò qui il mio contributo.
Mercoledì 21 maggio la Sala Tripcovich, a Trieste, è stata intitolata a Raffaello de Banfield, scomparso qualche mese fa. Fu proprio il musicista triestino ad individuare questo sito, che era in rovina trattandosi di una stazione per autocorriere dismessa, ed a contribuire poi finanziariamente ai lavori che trasformarono il rospo in principe, vale a dire da un luogo degradato e socialmente inutile a un non luogo dove l’immaginazione e l’Arte sono state di casa per cinque anni: tanto durò la ristrutturazione del Teatro Verdi, dal 1992 al 1997. Ovviamente anche dopo questa data, la struttura ha continuato ad ospitare iniziative musicali e culturali in senso più ampio.
La decisione di mantenere la destinazione culturale del sito è stata presa ieri in consiglio comunale, ma sembra sia una specie di definizione sub judice, nel senso che la sala rimane a disposizione a tempo indeterminato per le attività del Verdi ma sino al 2010, quando prenderà il via un progetto di recupero di una zona adiacente. Insomma pare un compromesso, una specie di non decisione presa per accontentare momentaneamente qualcuno strizzando l’occhio a qualche interlocutore nascosto nell’ombra.
Ora, a prescindere dall’interesse particolare che riveste per i triestini questo argomento, forse è il caso di esprimere qualche opinione di respiro più ampio.
Io, in linea generale, se dovessi scegliere tra abbattere un polo culturale che funziona o sostituirlo con qualcosa che risponde solo a logiche mercantili non avrei mai alcun dubbio.
Voglio dire, possibile che non si capisca a nessuna latitudine che la cultura, e non mi riferisco solo alla musica lirica, dovrebbe avere una corsia preferenziale nei programmi di chi ci governa a qualsiasi livello, dall’amministratore di condomini al Presidente del Consiglio?
Eppure dovrebbe essere evidente a chiunque che una buona amministrazione pubblica non può prescindere dalla cultura in senso lato: un cinema, un teatro, una sala da concerto, un circolo bocciofilo, sono tutti elementi d’aggregazione indispensabili in uno scenario collettivo che lamenta nella perdita delle radici culturali il motivo principale di decadenza. Semmai, laddove questi spazi esistono, andrebbero potenziati e resi più fruibili e duttili, non certo sostituiti con un parcheggio o con un centro commerciale e, lo ripeto, non mi riferisco a Trieste in particolare.
Se si vuole garantire, o perlomeno programmare con qualche possibilità di successo, la sopravvivenza di una comunità, è necessario sostenerne la coesione a tutti i livelli, integrando i piani economici a medio e lungo termine alla memoria storica del territorio, che è costituita da canzoni popolari, da poesie, da leggende metropolitane e, perché no, di Arte in generale.
In questo modo, come afferma felicemente Claudio Magris, si evita ogni asfittica endogamia che i circoli chiusi, frequentati da persone che hanno in comune solo un interesse, anche meritorio, non possono prevedere perché per loro natura elitari ed esclusivi.
Favorire la comunicazione intellettuale tra persone d’estrazione sociale diversa, fare tesoro delle peculiarità soggettive e considerarle una risorsa, e non un ostacolo, significa arricchire potenzialmente ognuno di noi.
Tra il momentaneo silenzio di uno spazio culturale polifunzionale e il clangore di un parcheggio, io scelgo il silenzio. Quando quello stesso spazio si riempie di musica o di parole, posso esercitare il diritto alla sospensione della realtà che è insito in ogni forma d’Arte, che nutre la mia immaginazione e la mia creatività, ed affrontare il domani con un sorriso di speranza sulle labbra.
 

Un catalogo egli è che ho fatt’io.

Fermo restando che nulla e nessuno mi potrà impedire d’ascoltare, questa sera, la diretta su RADIO3 della Norma da Bologna, volevo segnalarvi un paio d’iniziative interessanti.
La prima mi riguarda direttamente: su Rotocalco questa settimana si parla di “Sanità e salute”, e qui potete leggere il mio contributo.
Poi,
vorrei evidenziare l’ottima iniziativa del Maggio Musicale Fiorentino, che ha messo in Rete questo blog, presso il quale si può interagire facendo domande e considerazioni.
Domani invece, sarò presente a Firenze alla prima della Carmen di Bizet, nel nuovo allestimento del regista spagnolo Carlos Saura.
Qui la locandina dello spettacolo, che sarà diretto da Zubin Mehta.
Quando torno, ovviamente scriverò una recensione semiseria di questa Carmen.
Intanto, mi fa molto piacere riportare che l’amico Alessandro Cammarano, collega di Operaclick, ha sentito Marina Comparato come Rosina alla Fenice, e l’ha trovata in grandissima forma.
Ringrazio inoltre Bob, Giorgia e Maliardina, amici preziosissimi, per avere dato risalto all’intervista a Daniela Dessì.
Buona giornata a tutti.

Profanata è la lirica da ciò che porti ai piè.

Il mio modestissimo contributo a Rotocalco, scritto tra una recensione di lirica ed un racconto breve che, al momento, sembra non avere suscitato entusiasmi nell’editore, oggi tratta d’un argomento piuttosto attuale.
Sono molto contento di partecipare, quando posso, all’iniziativa di Fabrizio e Lune, anche se spesso arrivo molto vicino alla deadline con i miei pezzi, immagino creando qualche disagio.
Però oggi ho anche un’altra domanda alla quale devo trovare una risposta, e chiedo l’aiuto dei miei lettori.
Sabato sono stato alla prima del dittico Die seben Todsünden/ Trouble in Tahiti a Trieste, e ne parlerò nei prossimi giorni.
Tra l’elegante pubblico c’era una giovane coppia, diciamo sui trent’anni, e l’abbigliamento del ragazzo mi ha molto colpito. Provo a descriverlo.
Il tipo portava un vestito piuttosto singolare, in tessuto di pitone (o altra bestia squamata e strisciante) giallo e nero con riflessi argentei ma, e chiedo lumi su questa circostanza, indossava scarpe che descriverò brevemente così: di colore scuro, erano una via di mezzo, un ibrido, tra una pinna corta, una galoscia ed una malformazione genetica severa. L’alluce era separato dalle altre dita. Il materiale di queste scarpe, ma credo sia limitativo chiamarle così, era gommoso, mentre nulla so del sapore.
Qualcuno tra di voi, che magari è più trendy di me, sa dirmi dove si possono comprare? I mean, è davvero una moda o semplicemente si trattava di uno scherzo?
Sapete, m’interessa perché mi è stato chiesto di partecipare come comparsa ad una produzione del Ballo in Maschera di Verdi in Germania, di cui volevo qui postare una foto, ma vedo che ci ha già pensato Daland.
Il fisico cadente c’è, la maschera di Topolino la posso trovare, e volevo dare il mio personale tocco di classe calzando qualcosa di originale sì, ma che sia anche alla moda.
Buona settimana a tutti (strasmile)
 

Esercizio abusivo della critica letteraria: Uomini che odiano le donne, di Stieg Larsson.

Dopo un paio di settimane di forzata assenza, riprende la mia collaborazione con il Rotocalco di Fabrizio Rusconi: questa settimana si parla, in quella sede, di noi e gli USA e il Canada.
Io invece, con il mio post, faccio un viaggetto in Svezia.
Come si sceglie un libro? Già ho risposto tempo fa alla domanda, in modo un po’ retorico, sostenendo che qualche volta sono i libri a scegliere noi. In realtà, in occasione d’incontri molto fortunati continuo a pensare sia così, ma solo per le letture che rientrano nel novero dei “libri per la vita”, quel ristretto numero di volumi che ci accompagnano e che ci lavorano dentro, ci fanno crescere.
Nella stragrande maggioranza degli altri casi il romanzo accontenta il nostro desiderio di sospensione della realtà, spesso salvifico, ed è già gran cosa. E credo che lo stesso concetto si possa ampliare per tutte le opere d’arte, anche di livello non eccelso.
Nel caso dei libri la scelta è condizionata dal consiglio dell’amico, dalla recensione in rete o sulla rivista specializzata, insomma ci sono mille consigli ovunque.
Negli ultimi quattro anni mi sono fidato, tra le altre cose, dei suggerimenti della sempre ottima rivista “Il Giudizio Universale”: forse ho avuto fortuna, non so, ma non ho mai provato delusioni significative e, soprattutto, non ho mai percepito la sensazione d’incappare nel classico redazionale, la marchetta mascherata che imperversa in tutti i campi e di cui conosciamo gli effetti nefasti.( specie sui momentanei beneficiati di tanta finta maestria, mi verrebbe da dire: penso a guitti rivenduti per attori, poveri ragazzotti incolti catapultati in televisione e similia )
Tra i generi letterari, quello che più mi dà delusioni è il giallo, che è arte molto difficile, e di ciò parlo oggi.
Amo molto codesto tipo di scrittura e l’ho molto frequentata da sempre, da Poe all’ultima scoperta, la bravissima Fred Vargas.
Sulla rivista di cui sopra una sezione è interamente dedicata alla critica letteraria, e il mese scorso a “Uomini che odiano le donne” (Marsilio) di Stieg Larsson, scrittore svedese prematuramente scomparso, è stato elargito un parere più che lusinghiero, tale da convincermi ad acquistarlo.
Perché sono rimasto deluso? Per tante circostanze, che cercherò di motivare.
Prima di tutto l’insopportabile dovizia di particolari, di descrizioni dettagliate, d’oggetti o situazioni tra le quali si muovono i protagonisti, responsabile di una lettura faticosa, ciangottante, stentata. All’inizio ho pensato che questa minuziosità fosse indispensabile per la comprensione della vicenda, ma non è così, anzi, e scoprirlo dopo 676 estenuanti pagine non è stato particolarmente eccitante. Voglio dire, se non è fondamentale non m’interessa sapere che un’automobile noleggiata è una Corolla del 2001, rossa, con gli interni neri, il park control, l’ABS, che consuma il 6.5% sul misto: mica sono da un concessionario e devo comprarne una no? Lo stesso discorso vale per la capacità dell’hard disk di un powerbook, poco importa che da 40 Giga o 60, mi pare. Ed è così troppo spesso: per la fotocamera, per l’abbigliamento, per le scritte sulle t-shirt.
Che palle.
C’è poi il meteo: temperatura, umidità, pressione appena uno dei personaggi esce da casa. Abitazioni che sono molte e sparse su di un’isola, di cui ovviamente c’è la piantina dettagliatissima: case padronali, enormi, lussuosamente arredate, dependance piccoline, in legno (e ne sappiamo la specie e qualità).
Tutti questi vani abitativi sono popolati dai membri di una famiglia, della quale c’è pure l’albero genealogico, neanche fossero i Wagner.
Tale certosina pazienza nel connotare luoghi e personaggi, porta ad un risultato deprimente.
Gli uomini sono tutti dei duri terribili: bevono caffé in quantità industriale, sono straordinariamente intelligenti, ricchi, abili, disinibiti e scopano benissimo, ovunque.
Le donne sono tutte, sotto l’apparente scorza di fragilità, delle dure terribili: bevono caffé in quantità industriale, sono straordinariamente intelligenti, ricche, abili, disinibite e scopano benissimo, ovunque.
Il colpevole è difficilissimo da individuare, è vero: io ci sono riuscito appena è entrato in scena, dopo poche pagine. La persona al centro della pseudo indagine…beh…non voglio svelarne la sorte scontata, magari qualcuno sta leggendo il libro.
Non manca il doppio finale: era difficile anche per Rossini e Mozart, dai, figuriamoci per il povero Larsson.
Come se non bastasse, la trama ed i personaggi sono un coacervo di luoghi comuni: c’è il buono, il cattivo, il calcolatore, il perverso, il gay, il nazista idiota, l’ebreo perseguitato. Non manca il finanziere che esporta capitali alle Cayman attraverso il solito e risibile mezzo delle società “scatole cinesi”.
L’investigatore giornalista è bello, perdente ma alla fine vincente, disincantato ed un po’ sfigato. Ha un’amica, sposata, che però ogni tanto gliela dà, così, senza fare troppe storie, per amicizia insomma.
La protagonista femminile, sua aiutante, diciamo così, è una ragazza border line, asociale, ma genialoide ed ovviamente forse s’innamora ma non ne siamo certi.
Questo romanzo è il primo di una trilogia, e nonostante il parere positivo di parecchi lettori, puntualmente riportati su IBS, io mi fermo tranquillamente al primo episodio.
Vi faccio un esempio, tratto dal libro, in modo che possiate capire meglio.
 
“Mikael andò a Hedestad e trascorse il pomeriggio a passeggio per la città, visitando la biblioteca e facendo sosta in una pasticceria per un caffè. La sera andò al cinema a vedere “Il signore degli anelli”, che si era perso nonostante fosse uscito già da un anno. Gli sembrò che gli orchi a differenza degli essere umani fossero creature poco complicate. Concluse la serata al McDonald’s di Hedestad e ritornò all’isola di Hedeby solo con l’ultimo autobus, verso mezzanotte. Preparò del caffé, si sedette al tavolo della cucina e aprì un fascicolo. Andò avanti a leggere fino alle quattro del mattino.”
 
Sarebbe bastato ampiamente scrivere:
 
“Mikael andò in paese e tornò a casa verso mezzanotte. S’addormentò alle quattro del mattino.”
 
 
Buona settimana a tutti.
 

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Les Pêcheurs de Perles a Trieste.

 “Les Pêcheurs de perles” (I Pescatori di perle) di Georges Bizet, debutterà martedì prossimo al Teatro Verdi, nel nuovo allestimento della fondazione triestina.
I Pescatori (d’ora in poi li chiamerò così, per mia e vostra comodità) è un’opera francese, su questo non ci sono dubbi, ma per tanti motivi la si può definire di gusto musicale italiano.
Bizet, come tanti musicisti della seconda metà dell’800, è attratto dall’esotico oriente, che è un non luogo che è stato fonte d’ispirazione costante per l’Arte europea in generale. Peccato che spesso quest’attrazione fatale non sia stata supportata da una reale conoscenza della cultura orientale.
Ad esempio, già molto più tardi, un tipo tosto e colto come Mascagni non trovò di meglio che chiamare i protagonisti maschili della sua Iris con il nome di due città: Osaka e Kyoto. Un po’ come se un giapponese ambientasse un dramma in Italia con protagonisti due ribaldi di nome Milano e Roma. [lo so, poi in realtà a qualcosa di simile ha pensato Bossi, ma ci ha messo solo un testo un po’ volgare (strasmile)]
Ma torniamo al nostro Bizet, che era un signorino di buona famiglia che probabilmente si scopava la cameriera{o almeno così disse lei, indicandolo come padre del frutto del suo ventre: perché non crederle? [peraltro, c’è pure un famoso detto latino( mater sempre certa est, pater numquam) a parziale difesa del bellimbusto francese] }e studiava musica e composizione con profitto, tanto da vincere una specie di borsa di studio in Italia.
Insomma, ‘sto ragazzetto, a 24 anni, tira fuori “I Pescatori” che debuttano a Parigi nel 1863 con esito non straordinario, tanto che l’opera, in breve tempo, scompare dai cartelloni dei teatri europei e il francesino non la rivide più rappresentata..
Bizet stesso contribuì alla sfiga dei Pescatori, scrivendo poi un’altra operina, Carmen, che ebbe un successo un po’ più marcato.
La trama è molto semplice, e se ad un primo sguardo non si affranca dal solito “Il tenore vuol scopare il soprano, ma il baritono non vuole”, che potrebbe riassumere gran parte delle vicende operistiche, in realtà ha almeno un altro topos da sottolineare, vale a dire l’amicizia virile tra Zurga e Nadir. (con sospetti d’omosessualità, ça va sans dire, vedi l’infante di Spagna e Rodrigo nel Don Carlo(s) di Verdi)
L’azione si svolge sull’isola di Ceylon (appunto, in Europa ‘ste cose vergognose non possono accadere), dove un gruppo di pescatori sfigati elegge come capo, per acclamazione, Zurga (baritono). Siccome andar per mare è sempre un casino, ci vuole anche una sacerdotessa vergine (Léïla, soprano) che preghi affinché il tempo sia favorevole.
Poi c’è una figura religiosa, Nourabad (basso) che coordina il tutto e dà l’imprimatur. ( e che palle, ‘sti religiosi, sono ovunque eh?)
Proprio mentre sbarca a Ceylon la sacerdotessa vergine, arriva il solito tenore rompicoglioni, Nadir, che riconosce in lei la donna per la quale s’era accapigliato, alcuni anni prima, con l’amico Zurga.
Lo scioperato fa finta di niente, e comincia a cantare di come e quanto gli sia mancata l’amicizia con Zurga (sì, come no): i due, commossi, giurano che tra loro non ci saranno mai più screzi, e ricordano insieme la bellezza di Leila.
Insomma, per farla breve, Nadir mette nei casini Leila, facendosi beccare come un cretino da Nourabad mentre amoreggia con lei. Il sacerdote, ovviamente, s’incazza come una biscia e li denuncia entrambi a Zurga. La pena è la morte, non c’è nulla da fare.
A questo punto però, Zurga si ricorda che Leila l’aveva levato dai casini anni prima, e così decide di salvarli distogliendo l’attenzione dalla loro sorte: non trova di meglio che appiccare il fuoco al villaggio di pescatori sfigati, i quali, come potrete ben comprendere, non gradiscono particolarmente la piazzata del capo.
I due amanti, Nadir e Leila, se ne vanno impuniti, mentre Zurga…beh…dipende.
Siccome il finale previsto da Bizet non sembrava sufficientemente spettacolare, per rendere l’opera più appetibile è stato più volte ritoccato da alcuni maneggioni dello spartito.
Pertanto, lo sfigatissimo Zurga deve crepare: arso sul rogo, infiocinato da un pescatore, trafitto da Nourabad oppure, ed è davvero il colmo per uno che è stato preso per il culo da tutti quelli che passavano, suicidandosi. Dipende dalla versione.
Ma si può? Non era meglio lasciare il finale di Bizet, animo sensibile, al quale sembrava abbastanza che se ne stesse lì sulla riva reietto, a contemplare per sempre in solitudine il mare?
Insomma con questa trovatona l’opera rientra in repertorio e, nel 1886 il Teatro alla Scala la ripropone in Italia con gran successo, complice l’editore Sonzogno che si era accaparrato i diritti sulle opere di Bizet, ed i funambolismi vocali del soprano Ernestina Bendazzi Secchi Garulli. (che non so perché, ma mi ricorda la fantozziana Servelloni Mazzanti Vien dal Mare, ma transeat)
Ora è necessario un attimo di serietà, altrimenti i consueti soloni della critica ufficiale perdono tempo a scrivermi mail infuocate.
Da quel momento, nel ruolo di Nadir si sono cimentati tutti i più grandi tenori del secolo scorso: Caruso, Gigli, Tagliavini, Vanzo, Gedda, Kraus, solo per nominarne alcuni.
A Trieste, nel 1947, Giuseppe Di Stefano debuttò il personaggio: a questo grande cantante, recentemente scomparso, è dedicata questa tornata di recite triestine.
L’opera manca al Verdi dal 1978, nientemeno, ed il fardello della pesante eredità dell’ultimo interprete, Alfredo Kraus, ricadrà su Celso Albelo, promettente e giovane tenore spagnolo.
Nella sua apparente semplicità, è parte molto perigliosa da cantare anche per il soprano: i richiami a due sacerdotesse famosissime nella storia del melodramma, la Vestale di Spontini e la Norma di Bellini, sono evidenti almeno come ispirazione culturale.
È ruolo da Belcanto: ci proverà una specialista come Annick Massis.
Buona fortuna a loro e buona settimana a tutti voi, che avete avuto la pazienza d’arrivare in fondo a questo mio post strampalato.
P.S.
 
 
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