L’ho sempre detto, l’opera va vista in teatro, perché codesto è il luogo deputato all’ascolto e poi al giudizio.
Però ieri, straordinariamente, la televisione ha aggiunto una dimensione al consueto ascolto radiofonico e quindi la mia opinione, perché di questo si tratta e ci tengo a sottolinearlo, può essere più sfumata e ricca di sensazioni.
Allora, com’è stato questo Tristan und Isolde?
La prima risposta, di getto, è che è stata una serata meravigliosa.
Una direzione orchestrale di bellezza stordente, per cominciare.
Daniel Barenboim ha diretto l’orchestra della Scala, apparsa in gran spolvero come da anni non la sentivo, con un magistero tecnico tale da consentire leciti paragoni con i nomi che hanno fatto la storia delle esecuzioni di quest’opera a Milano: Victor de Sabata in primis, Carlos Kleiber poi.
Il suo maggior merito è stato, oltre alla sobrietà e l’efficacia del gesto, l’evidente intenzione di servire la musica umilmente e di favorire i cantanti sul palcoscenico nel rispetto della partitura wagneriana. È riuscito a tirar fuori dall’orchestra tutte le sfumature utili a far “vivere” al pubblico l’alternanza metaforica di luce e buio, d’amore e morte, che sono l’essenza stessa del Tristano.
Poi la regia di Patrick Chéreau, magnifica nell’ambito di un’opera difficilissima da dirigere perché statica, senza scene di massa o spettacolari. I cantanti si muovevano tutti con la coscienza di rendere un servigio a Wagner, più che al proprio lavoro.
Ancora, le scene di Richard Peduzzi, funzionali e bellissime, essenziali senza cadere nella trappola di un vieto minimalismo troppo spesso caricatura di se stesso.
I costumi di Moidele Nickel e le luci di Bertrand Couderc hanno contribuito in modo decisivo a comprendere, a mio parere, il disegno registico complessivo: la realizzazione di un atemporalità per un lavoro che è senza tempo, come tutte le grandi opere d’Arte.
Gli interpreti sono stati quasi tutti all’altezza di una tale serata.
Il soprano
Waltraud Meier ha sviluppato, come anticipato nel post precedente, un Isolde nervosa, tesa, disperata. I suoi acuti non sono folgori, ma il fraseggio, l’accento!!! La capacità attoriale! La sensualità disperata, la nobiltà!
Waltraud è Isolde, e basta, non è necessario dire altro.
Il tenore
Ian Storey ha voce scura, un po’anonima, ma il suo Tristan commuove per intensità drammatica.
La parte è tra le più temibili in assoluto, specie nel terzo atto, una specie d’agonia cantata per quattro ore. In un paio d’occasioni è mancato, anche lui, negli acuti, molto forzati.
Ebbene? Un artista non si giudica per una singola nota non riuscita, sia chiaro una volta per tutte!
Ciò che conta è che esca il personaggio che deve interpretare, tutto il resto sono chiacchiere.
E proprio da questo punto di vista è mancata Michelle De Young, la Brangäne di ieri sera: ed allora sì che anche le mende vocali sono da sottolineare con la penna rossa. La voce ballava, e c’era pure qualche difetto d’intonazione.
Ho trovato, con il mio metro di giudizio, assolutamente ineccepibile il Re Marke di Matti Salminen: addolorato, nobile, dotato di una presenza scenica mirabile.
Gloria del canto wagneriano, il basso finlandese ha fornito un’altra prova all’altezza della sua fama, conquistata a suon di successi nei teatri di tutto il mondo.
Discreti, ma ad un livello diverso dai protagonisti, tutti gli altri: il baritono Gerd Grochowsky ( Kurwenal) ed il tenore Will Hartmann ( Melot).
Ho pianto molto: nella scena finale, ed era scontato. Ma anche in altri punti, e non dirò quali, solo perché è una cosa che deve restare mia.
Da ultimo,
voglio segnalarvi un’altra recensione, che è stata redatta da appassionati con i quali, a suo tempo, ho avuto scontri durissimi a livello personale e di valutazione artistica.
Questi uomini e donne (una) hanno una visione molto diversa dalla mia dell’Arte del Canto, ma sono competenti e scrivono bene; leggerli è comunque un arricchimento.
Comunque, la vita mi sembra troppo complicata per alimentare rancori con chi condivide la stessa passione.
Potenza della Musica di Wagner.
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