Qualche nota di costume.
Scusi, non ricordo dove devo scendere per andare alla Fenice, alla fermata della Maria del Giglio, vero?
Il bigliettaio del vaporetto mi guarda stupefatto e, dopo un silenzio interminabile, mi risponde così con la marcata e inconfondibile cadenza veneta: Sì, mi scusi se ho esitato ma sa, qui siamo abituati alle domande dei gorilla neri o gialli che di solito non sanno ciò che vogliono.
Ok, cominciamo bene.
Caldo umido nell’orrida Venezia, freddo polare in teatro, non so con che criterio usino l’aria condizionata, boh? Alla fine dello spettacolo esco e mi ritrovo sotto un diluvio di acqua tiepida degno di ben altre latitudini ed ulteriormente impreziosito dal tipico odore mefitico di fogna della città lagunare quando soffia lo scirocco.
Questa foto non ritrae me sotto la pioggia, ma Brünnhilde, lo dico a scanso di equivoci (smile)!

Nella stazione ferroviaria, ostaggio di un’umanità inquietante, alle 22.00 chiude il bar ristorante e le macchinette che distribuiscono generi di conforto sono guaste o sigillate, per la gioia di chi, come me, è devastato da un giorno di forzato digiuno seppur per nobili impegni wagneriani.
Insomma, appena posso ci torno, nell’orrida Venezia (strasmile).
Lo straordinario allestimento di Robert Carsen è il punto di forza di questa Götterdämmerung ma, paradossalmente, tanta maestria inchioda alle sue responsabilità una compagnia di canto che, almeno ieri pomeriggio, definire scarsa è sottile eufemismo. Gli stessi artisti, peraltro, sono risultati ottimi dal punto di vista attoriale, con qualche distinguo che segnalerò più avanti.
Lo spettacolo di Carsen è veramente magnifico, seppure con qualche inevitabile punta di autocompiacimento, e riprende ovviamente il filo conduttore delle precedenti giornate.
Il mondo è purificato sì dal rogo finale del Walhalla, di cui si intravedono appena i bagliori, ma anche da una sottile pioggia che lava via tutte le menzogne su cui è basato l’effimero potere di Wotan e degli dei. Le Figlie del Reno allignano in una natura corrotta al pari degli altri protagonisti, si aggirano lacere, sporche, inquinate come l’immondezzaio in cui si è trasformato il letto del Reno.
Una regia attenta ai particolari, che spiega e non si limita ad illustrare; per esempio il patto scellerato tra Hagen, Gunther e Gutrune: scena di una intensità drammaturgica da togliere il fiato. Ci sono altri momenti grandiosi (il dialogo Alberich- Hagen!) in questa regia, ma mi rendo conto che le parole non bastano a descriverne le meraviglie con compiutezza.
Mi limito ad osservare che il lavoro fatto da Carsen sui cantanti dà un vero significato alla parola “regia”. Addirittura stupefacente nel recepire le direttive del regista è sembrata Jayne Casselman, nei panni di una Brünnhilde svestita di ogni retorica da wagnerismo illustrato.

Quindi, ecco qui a che servono le regie serie, a donare ai melomani una prospettiva nuova, ad aprire altri orizzonti.
Alla riuscita dello spettacolo hanno contribuito le livide luci di Manfred Voss, mentre le tetre ma efficacissime scenografie e i costumi (in alcuni casi banalotti)sono firmati da Patrick Kinmonth.
Jeffrey Tate ha diretto da par suo l’Orchestra del Teatro la Fenice, ogni tanto un po’ sbadata ma complessivamente in buona serata. Il direttore sceglie un’interpretazione rilassata, sensuale, quasi ipnotica della sterminata partitura wagneriana. In singole occasioni ho sentito qualche clangore, ma era evidente anche nel gesto l’intenzione di Tate di enfatizzare la tensione nei momenti più drammatici.
Il Coro, impegnato poco, mi è sembrato difettasse di volume.
I cantanti mi hanno fatto disperare!
Sono state discrete, ma niente di più, le Norne (Ceri Williams, Julie Mellor, Alexandra Wilson) e le Figlie del Reno (Eva Oitivanyi, Stefanie Iranyi, Annette Jahns).
Il soprano Nicola Beller Carbone se l’è cavata nei panni della stranita Gutrune, anche se la voce non mi è parsa quella di un lirico, bensì di un lirico leggero.
Bravissima, di gran lunga la migliore della serata il mezzosoprano Natascha Petrinsky, che oltre a cantare bene ha sfoggiato una voce molto bella e sonora, timbrata. La parte di Waltraute è breve ma difficile, il personaggio un po’ sfuggente, ma il vigore e la vitalità della cantante meritano una segnalazione non svagata.
Il soprano Jayne Casselman, Brünnhilde, ha cominciato in maniera terrificante e ha portato a casa la recita solo perché in alcuni momenti si è limitata ad accennare. Troppo spesso la voce non passava l’orchestra e, consentitemi la battuta, sono stati i momenti migliori della sua prestazione (smile).
Io spero (ma le cronache della prima che si è svolta giovedì scorso non sono confortanti, in tal senso) che fosse preda di un malessere stagionale. Non so, se qualcuno dei miei lettori la sente più a suo agio nelle prossime recite me lo segnali. Ieri ha cantato malissimo.
L’artista è stata invece grandiosa dal punto di vista della recitazione e gliene va dato atto, non deve essere facile, in quelle condizioni vocali, rimanere concentrati.
Che posso dire del Siegfried di turno, Stefan Vinke?
Diciamo che la sua prestazione è stata altalenante, passando dal pessimo al mediocre. Non ha steccato, ok, ma ad un interprete di Siegfried io posso perdonare una stecca, non una prestazione sbilanciata sempre su di un declamato in mezzoforte o fortissimo! Dov’erano la malinconia, la dolcezza, quando racconta le sue imprese giovanili, poco prima d’essere assassinato da Hagen? Tra l’altro la voce non è neanche particolarmente bella, anzi, è solo (abbastanza) sonora. Gli acuti faticosissimi, catarrosi, lo squillo inesistente. In questo caso l’artista, al di là dei problemi vocali che possono essere frutto di una serata negativa, ha dimostrato che come minimo deve approfondire lo studio del personaggio.
Il basso-baritono Gabriel Suovanen, Gunther, ha sbraitato per tutto lo spettacolo con una voce sbiancata e querula, non dico altro, mentre un po’ meglio mi è sembrato, nella sua breve apparizione, Werner Van Mechelen, forse perché, appunto, ha cantato poco.
E veniamo ora al maggior equivoco della serata cioè alla prestazione di Gidon Saks, nella parte di Hagen.
Qui proprio si scontrano due modi d’intendere e percepire il teatro d’opera ed entra in gioco, forse, anche la necessità da parte del pubblico di essere rassicurato sull’esito dello spettacolo e un’impreparazione culturale di fondo. Il basso alla fine ha raccolto un’ovazione, circostanza che va segnalata e sono contento per lui. Io, se fosse mio costume, l’avrei buato, e spiego i motivi.
Saks ha una voce abbastanza ampia e sonora, ma è andato clamorosamente in overacting, riducendo troppo spesso una figura grandiosa nella sua malvagità ad un teppistello su di giri per una sniffata di coca.
Cito direttamente il libretto di sala, interessante e curato, nel quale a proposito della parte di Hagen, si legge:
Ruolo perfettamente emblematico delle esigenze drammatico musicali del teatro di Wagner (…) sulle sue robuste spalle grava non poco la credibilità di ogni allestimento dell’ultima giornata del Ring. Una grande voce è indispensabile, un timbro nero e cavernoso, una granitica emissione di fiato; e , tuttavia la sola voce può affondare il ruolo nella noia, se non nella caricatura macchiettistica del vilain da cartone animato. All’opposto c’è chi, per scelta o necessità, pilota la parte verso la recitazione, verso il teatro di parola: ed è egualmente il naufragio, questa volta nel manierismo insopportabile di una declamazione vocale che occhieggia allo Sprechgesang, senza averne il diritto.
Ecco, dal mio punto di vista (evidentemente opinabile) molto peggio Saks della svociata Brünnhilde.
Il pubblico ha decretato un grandissimo successo allo spettacolo, anche se ho visto qualcuno (io tra questi) indeciso, per l’evidente differenza di livello artistico tra direzione e regia da una parte e compagnia di canto dall’altra. La Casselman si è presa un paio di "buuu" da uno spettatore arrabbiato, col quale ho scambiato qualche parola fuori dal teatro. Era giustamente assai deluso per la pessima prova del soprano.
Per finire, nonostante la compagnia di canto sia molto modesta, consiglio a chi piace Wagner di andare a vedere questo spettacolo, ne vale la pena.
E ora via, verso nuove avventure, a sentire l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, compositore spesso accusato biecamente di wagnerismo, come se fosse peccato metabolizzare e rielaborare le influenze dei grandi geni dell’umanità.
Buona settimana a tutti.
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