Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

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Recensione semiseria delle Nozze di Figaro di Mozart alla Fenice di Venezia: la regia di Damiano Michieletto fa discutere.

Il Vignettaio, giustamente, ha ritenuto di prendere in giro la mia prosa involuta e pure la chiave di lettura di Damiano Michieletto. Non me la sento di biasimarlo…

Non c’è nulla da fare, l’orrida Venezia mi stupisce sempre. Anzi, in qualche caso addirittura m’intimorisce pure. Leggi il resto dell’articolo

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Questione di vocali.

L’amico Daland era alla Fenice a vedere Das Rhenigold, e qui potete leggere la sua recensione.

Siccome riporta anche una frase captata in teatro (mia moglie non è venuta perché oggi non ci sono le coreografie), ecco che la vignetta che mi aveva spedito l’altro amico Francesco rimane d’attualità, anche in assenza della mia recensione.

La prossima vignetta riguarderà le condizioni della mia schiena, temo…

Recensione semiseria della Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti al Teatro Verdi di Trieste.

Qui sopra si legga avveniristica, ovviamente. Colpa mia, che avverto il mio amico Vignettaio sempre all’ultimo momento e gli metto fretta (smile).

La Lucia di Lammermoor di Gaetano Donizetti, andata in scena ieri sera al Teatro Verdi di Trieste, era l’ultimo appuntamento operistico della stagione 2010/2011. Leggi il resto dell’articolo

Recensione semiseria della Francesca da Rimini al Teatro Verdi di Trieste.

Aggiungo anche qui il collegamento al gustosissimo elzeviro che Gianni Gori ha scritto per OperaClick.

(cliccare sull’immagine per vedere meglio la vignetta)

Alla fine in teatro siamo rimasti io, mia moglie ex Ripley e i parenti più stretti degli artisti. Leggi il resto dell’articolo

Recensione abbastanza seria dei Vespri Siciliani di Giuseppe Verdi al Regio di Torino: l’impegno civile di Davide Livermore.

I Vespri Siciliani sono sicuramente una delle opere verdiane più difficili da mettere in scena, non è certo una novità.

Il Teatro Regio di Torino – inspiegabilmente “scoperto” in questi giorni da molti appassionati e addetti ai lavori, quando invece è da anni il miglior teatro italiano per intelligenza di proposte e capacità di realizzarle – ha proposto quest’anno un allestimento dell’opera che ha goduto di grande visibilità per i contemporanei festeggiamenti per l’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia.
I biglietti sono pressoché esauriti da tempo, quindi la decisione di trasmettere in diretta televisiva la recita di ieri sera (la prima si è svolta il 16 marzo) sul digitale terrestre (RAI Storia) è stata particolarmente gradita.
Purtroppo, come si temeva dopo le testimonianze dei presenti alla prima, il soprano Sondra Radvanovsky ha dovuto dare forfait per un malanno ed è stata sostituita dalla collega del cast alternativo, Maria Agresta.
Bisogna dirlo subito, la sostituta è stata molto brava e gliene va dato atto.
Il soprano ha una voce di timbro gradevole, probabilmente sottodimensionata per la parte, acuti sicuri, discreta dizione e bella presenza scenica. Solo il registro grave è apparso inadeguato e la cantante, infatti, tendeva a scompaginare nelle note basse la sua linea di canto: insomma, come si dice in gergo in modo non troppo elegante, sbracava un pochino.
La Agresta ha cantato bene l’aria di sortita “In alto mare battuto dai venti”, la successiva “Arrigo, ah parli a un core” e un po’ meno bene il Bolero del quinto atto, ma nel complesso è stata credibile nella parte e la voce nei concertati passava bene l’orchestra.
Inoltre la prestazione, in un contesto scenografico almeno singolare, è risultata di buon gusto e la sua Elena in linea con le esigenze dello spettacolo.
Gregory Kunde è un artista di levatura straordinaria e ci sono numerose testimonianze discografiche, live e in studio, che lo confermano. Da qualche tempo ha deciso di allargare il repertorio ed esplorare i territori, pericolosi assai, del lirico spinto.
La parte di Arrigo è forse la più difficile (e pure tanto lunga!) tra quelle scritte da Verdi per la voce di tenore.
Kunde ha lottato tutta la sera con gli acuti, spesso presi di forza e dando la sensazione di faticare molto, però ne è uscito da grande cantante anche quando è dovuto rifugiarsi nel falsetto, come nel finale dell’opera (ma, per favore, ricordo che quello è un re naturale, non una notarella qualsiasi!).
Una prestazione di buon livello, alla fine, anche se sicuramente il tenore non sarà ricordato per questa parte.
Franco Vassallo ieri sera non mi ha convinto nei panni di Guido di Monforte. Il personaggio si presterebbe a un’interpretazione che ne metta in luce le mille ambiguità e tormenti, ma il baritono ha scelto la strada, per certi aspetti, più comoda, e cioè quella di cantare tutto forte. In questo modo esce la protervia, la violenza insita nel personaggio, ma si tralasciano troppi particolari importanti.
La voce non è preziosissima né per volume né per colore, inoltre, e quindi la scelta d’interpretare il personaggio sulla scia dell’esempio di altri baritoni di un passato anche recente, ma che potevano contare su doti vocali migliori, non è stata felice. La bellissima aria del terzo atto “In braccio alle dovizie” è parsa incolore, piatta e nel duetto che segue con Arrigo ho sentito solo concitazione e poco altro.
Buona la prestazione di Ildar Abdrazakov nei panni di Giovanni da Procida. Forse il basso è, tra gli artisti impegnati in questa produzione, quello che ha mostrato la linea di canto più pulita.
La voce è piuttosto chiara ma sonora e l’emissione morbida, mai forzata. Ben riuscita la grande aria “O tu Palermo” e sempre pertinente e azzeccato l’accento.
Per quanto riguarda i comprimari, che mi sono parsi di livello modesto, vi rimando alla locandina.
Magnifica la direzione di Gianandrea Noseda, sul podio di un’ottima Orchestra del Regio, sin dalla bellissima Ouverture iniziale. Tutto ha funzionato benissimo, compresi gli impegnativi concertati. Particolare attenzione il direttore ha dedicato all’accompagnamento ai cantanti, sempre sostenuti da un’orchestra che suonava per sostenerli senza compiacimenti e clangori.
Molto bene anche il Coro, assai impegnato anche dal punto di vista scenico.
La regia di Davide Livermore meriterebbe, almeno per rispetto nei suoi confronti, un post a parte. Non ne ho il tempo, però. In Rete si trovano con facilità discussioni in merito, esagerazioni comprese.
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Non temo le decontestualizzazioni, anzi, trovo che siano uno strumento utile per mantenere in vita il teatro lirico.
La mia idea è che Livermore abbia messo troppa carne al fuoco e lo spettacolo in alcuni momenti sia confuso, con qualche scivolata di troppo nella retorica nazionalpopolare. Livermore spara metaforicamente a troppi bersagli (la politica, la televisione, la mafia ecc ecc) e si rischia l’effetto saturazione e, soprattutto, che le scene distolgano dalla musica.
Però è anche uno dei pochi registi che sa leggere una partitura in primis e poi non lascia nulla al caso ma anzi pretende molto da tutta la compagnia artistica. Grazie a questo lavoro minuzioso lo spettacolo si svolge sino alla fine in modo coerente con le dichiarazioni che ha rilasciato prima, durante e dopo la serata.
Dichiarazioni improntate di un impegno civile che merita attenzione e non scherno.
Mi pare che il pubblico, almeno ieri sera, abbia tributato un grandissimo successo a questi Vespri.
Io la mia opinione l’ho detta, buon fine settimana a tutti.
 
 

Recensione semiseria della Salome di Richard Strauss al Teatro Verdi di Trieste.

Vista la situazione disperata in cui si trova questa piattaforma, mi sento di chiedere scusa ai lettori, purtroppo posso solo sperare che si torni alla normalità prima possibile.
Partitura Salome.

Ecco la recensione, nonostante tutto.

Questa Salome, che mancava da vent’anni da Trieste, si è risolta in una bella serata di teatro e sono felice di scriverlo dopo il controverso Samson et Dalila di un mese fa.
Il primo plauso va all’Orchestra del Verdi, davvero encomiabile per la bellissima prestazione sfoderata alla prima.
Ovviamente il direttore Stefan Anton Reck è pure lui sugli scudi, perché è riuscito a cogliere gran parte delle innumerevoli suggestioni della ricchissima partitura, scegliendo una via interpretativa che potrei definire espressionistica, tesa a sottolineare i grandi contrasti tra i leitmotive che individuano i personaggi.
Una lettura scabra e drammatica allo stesso tempo, che forse non è sensuale come dovrebbe, ma che ha il merito di apparire lontana da manierismi e edonismi stucchevoli.
Di questa direzione asciutta e tesa beneficiano in particolare la scena della danza dei sette veli, sottratta per fortuna a ispirazioni voyeuristiche, e la forsennata disputa religiosa tra gli ebrei, che se ne giova in modo particolare.
Episodicamente le sonorità sono parse eccessive ma senza che si sconfini nel clangore orchestrale fine a se stesso.
Molto ben riuscito anche l’agghiacciante finale a coronamento di una prestazione di rilievo, voglio ribadirlo, dell’Orchestra del Verdi.
Salome 1
L’allestimento di Gabriele Lavia, che avevo già visto l’anno scorso a Bologna, è un felice mix di tradizione rivisitata con intelligenza e buon gusto e sperimentazione consapevole, rispettosa della musica del compositore.
Certo, non mancano alcune contraddizioni. Per esempio se si decide di non mostrare, per evitare trucidi effetti grandguignoleschi, la scena del bacio alla testa di Jochanaan (peraltro descritta con dovizia di particolari da Wilde) sarebbe stato più logico non tenere mezz’ora in scena il cadavere decapitato del povero santo. Ma forse la scelta era meditata e la decisione dovuta alla volontà di rendere più efficace il finale, quando dal palcoscenico esce un enorme testone sul quale Salome si abbagascia sordidamente (strasmile).
Decisamente comico invece, e spero che si trovi una soluzione, l’escamotage scelto per far sentire la voce dell’invisibile Jochanaan nella cisterna: l’artista cantava da fuori scena ma, ahimè, si vedeva benissimo dalla platea mentre cercava di nascondersi dietro le quinte!
Anche la mannaia che scende dall’alto è un po’ingenuotta così come la trovata della lente gigante che amplifica l’attenzione del pubblico durante una castissima Danza dei Sette Veli.
Le idee di Lavia sono realizzate molto bene dal suo team.
Salome 2
Le scene di Alessandro Camera sono improntate al minimalismo ma non alla sciatteria e sono essenziali ed efficaci, anche grazie al bellissimo impianto luci di Daniele Naldi. Belli pure i costumi di Andrea Viotti e di routine la coreografia di Luciano Pasini, portata a termine con diligenza da Alessia Passari.
Dal punto di vista vocale il migliore, artefice di una prestazione di rilievo assoluto, è stato Robert Brubaker.
Il tenore è perfettamente padrone del declamato attraverso il quale si esprime il Tetrarca, la voce è squillante e passa bene il muro di suono dell’orchestra. Inoltre l’artista rende benissimo, anche con la recitazione, il carattere nevrotico ed equivoco del personaggio. Davvero molto bravo.
Non mi ha convinto per niente invece l’agitato Thomas Gazheli, che era nei panni di Jochanaan.
Voce anonima, grossa ma non penetrante, forzata e spesso “impiccata” in acuto. Soprattutto è mancata la caratterizzazione del personaggio, che non aveva quella solennità e quel carisma che si addicono a una figura così imponente.
Completamente spaesato anche Michael Heim, che non ha lasciato traccia alcuna col suo insipido Narraboth, tra l’altro cantato con una voce piccola e aguzza, poco gradevole.
Sufficiente Marta Moretto, una Herodias corretta localmente e scevra da eccessi di temperamento, sempre possibili (e temuti) in questa parte.
Su come debba essere l’interprete di Salome ci si potrebbe dilungare molto.
Ricordo a questo proposito che Strauss stesso ne parlò come di “un’adolescente con la voce di Isotta”, frase che suona più come una provocazione che altro, poiché un simile connubio pare irrealizzabile.
Sarebbe necessario, questo sì, trovare un equilibrio tra la perversione morbosa e l’irrazionalità capricciosa insita nel personaggio e Ingela Brimberg ha raggiunto, in questo senso, un buon compromesso almeno dal punto di vista delle intenzioni interpretative e attoriali.
Purtroppo però la voce non ha sempre sorretto il soprano nei suoi propositi, tanto da costringerla ogni tanto a rifugiarsi nel parlato. La voce infatti è di discreto volume, ma l’ottava bassa risuona opaca e poco sonora.
Meglio nel registro centrale, corposo e abbondantemente esibito, mentre i numerosi acuti della parte sono parsi qualche volta non a fuoco, pure nell’ambito di una prestazione complessivamente discreta.
Va detto però che nel lungo e terribile monologo finale l’artista è stata convincente e che il personaggio di Salome si ammanta di tutta la sua grandiosa, perversa e tragica follia pur mantenendo un’ombra di adolescenziale incoscienza.
Insomma, la cantante emoziona e bisogna dargliene atto.
Salome 3
La lista dei coprotagonisti è sterminata, ma credo che tutti meritino almeno la citazione perché hanno contribuito in modo essenziale alla riuscita dello spettacolo, perciò eccoli qui: Elena Traversi (Ein page der Herodias), Federico Lepre, Alessandro De Angelis, Davide Cicchetti, Pablo Karaman, Nicolò Ceriani (Funf Juden), Giuliano Pelizon e Francesco Pacorini (Zwei Nazarener), Alessandro Svab e Giuliano Pelizon (Zwei Soldaten), Federico Benetti (Ein Cappadocier) e, per finire, Dax Velenich (Ein Sklave).
Salomè
Rilevo che non c’erano i consueti sottotitoli, e quindi suppongo che parte del pubblico non abbia potuto apprezzare in pieno questo lavoro straordinario di Richard Strauss: spero che nelle repliche l’inconveniente sia risolto.
Lo spettacolo ha avuto un successo calorosissimo e, a mio parere, meritato. Grandi ovazioni per Brubaker, la Brimberg e il direttore Reck, che ha rischiato di finire nella buca dell’orchestra preso dall’entusiasmo (smile). Festeggiatissimo anche il regista Gabriele Lavia, apprezzato anche a Trieste per la sua attività di prosa.
Alla prossima, se Splinder non collassa definitivamente.
 
 
 

Avanti al centro contro gli opposti estremismi, come diceva Guccini.

Superior stabat ministerQuesti gli artisti protagonisti del simpatico flash mob andato in onda nella trasmissione Zelig:

Falstaff Alessandro Corbelli
Alice Federica Giansanti
Fenton Danilo Formaggia Mirko Guadagnini
Quickly Romina Tomasoni
Ford Carlo Morini
Nannetta Gemma Bertagnolli
Meg Alessandra Palomba Gabriella Sborgi
Pistola Federico Sacchi
Cajus Enea Scala
Bardolfo Patrizio Saudelli

Al pianoforte Damiano Cerutti
Maestro concertatore Alessandro Carnelli

Alla Scala di Milano, dopo la recita di Tosca del 22 febbraio, accolta dal pubblico con esito complessivamente favorevole e un po’ di fischi a mio parere esagerati (ho sentito la registrazione, grazie a un amico presente), c’è stato un fuori programma anche nelle immediate vicinanze del teatro.

Si sono scontrati verbalmente due gruppi di melomani e, per poco, non si sono messi le mani addosso.
Il motivo del contendere non è stato la resa artistica intrinseca dello spettacolo, va detto subito.
C’era molto malumore da parecchio tempo tra due opposte fazioni di spettatori. Alcuni ritengono che le contestazioni siano troppo frequenti nel teatro milanese e che l’immagine dell’ex tempio della lirica ne esca ulteriormente danneggiata.
Qualche addetto ai lavori, sottovoce, sostiene che artisti piuttosto famosi e anche qualcuno piuttosto bravo (strasmile) siano riluttanti a esibirsi alla Scala, avvantaggiando palcoscenici meno impegnativi dal punto di vista emozionale.
Sull’argomento ci sarebbe da dire (ed è stato detto) molto, ma a me preme puntualizzare solo una cosa.
Ho letto sia sulla stampa sia in alcuni siti che questo incontro-scontro tra “tifosi” è da considerarsi come segno di vitalità e autentica passione per la lirica, perché rinnova i fasti (?) delle liti tra i sostenitori della Callas e quelli della Tebaldi, per esempio.
Ecco, io credo che da rimpiangere siano la Callas e la Tebaldi (e pure loro sino a un certo punto, perché mica possiamo passare la vita a rimpiangere il passato), non quelli che si menavano per strada o altre prelibatezze del genere.
Vero?
Quindi assegno un posto di platea ai due schieramenti nell'immaginario teatro dei nuovi mostri.
Qui l’opinione di Daland sulla vicenda.
Poi, passando ad altra e ben più importante questione, quella dei folli tagli alla cultura e al FUS, segnalo l’iniziativa dei Cantori Professionisti d’Italia, che ieri si sono simpaticamente esibiti nella seguitissima trasmissione Zelig di Mediaset.
Cliccare qui per vedere il breve video.
Ricordate inoltre di firmare e di diffondere la petizione di cui ho già parlato un mese fa.
Buon fine settimana a tutti!
 

Recensione semiseria di Samson et Dalila al Teatro Verdi di Trieste: gli Ufo sono tra noi, e non è bello.

La novità è che con questo post comincia una collaborazione con Francesco Vittorino, che è l'autore di questo blog. Chiaro che io ne avrò solo vantaggi, speriamo che sia così anche per lui!
La vignetta è amara, ma il sorriso e il divertimento sono sempre un po' così, vero?
Samson et Dalila

Bah, io direi che si può cominciare a parlare di Samson et Dalila con un po’ di polemica, tanto per ravvivare gli animi e non farci mancare qualche commento astioso (strasmile).
Partitura Samson

Una regia, quella di Michal Znaniecki, stravagante, inutile e credo pure piuttosto costosa perché a un certo punto c’era tanta di quella gente e talmente tanti oggetti in scena che sembrava di stare alla Fiera di San Nicolò, che i triestini conoscono bene. Mancava solo, che ne so, quello che fa l’hamburger più grande del mondo e lo zucchero filato.
Filato come se la sono filata molti spettatori già alla fine del primo atto, ma non certo perché lo spettacolo non era di loro gradimento. Semplicemente perché vengono a teatro solo per stare quella mezz’ora nel foyer, a parlar male l’uno dell’altro appena si gira la schiena.
Il pubblico delle prime è così ovunque e io lo dico chiaro, questi registi e questo pubblico non servono all’opera, anzi fanno solo danno. Che se ne stiano a casa, l’uno a coltivare il proprio narcisismo e l’altro a guardare il Festival di Sanremo. Almeno non vedrò poveri cantanti salire perigliosissime scale antincendio e non sentirò perle di saggezza tipo quest’opera non ha senso, non c’è un momento per riposarsi ed è tutto un rumore di fondo dell’orchestra.
Bene.
Dicevo della regia, che è incorsa nel peggior reato possibile: procurata distonia tra musica e azione scenica.
In sostanza abbiamo visto gli UFO mentre si narra una vicenda biblica, tutta sacralità, raccoglimento e cori quasi gregoriani.
Samson et Dalila foto di scena
Alcuni momenti imperdibili: le ballerine che entrano in scena a guisa di zombie nel videoclip Thrillers di Michael Jackson, il Gran Sacerdote di Dagon vestito da albero di Natale con le lucine intorno al collo, lo stesso Sacerdote che ci mette un quarto d’ora a strangolare il veillard hébreu che nel frattempo si dimena come una biscia, gente che fa disegni dal significato oscuro un po’ dove gli pare, e tutti i Filistei (gli Ufo, appunto) con un mega copricapo che procura una tragedia ecologica in testa (strasmile).
Potrei andare avanti, ma credo che possa bastare.
Scene di Tiziano Sarti, costumi di Isabelle Comte, coreografia di Aline Nari, luci di Bogumil Palewicz, il tutto coordinato dalla povera assistente di regia, Eleonora Gravagnola. Incolpevole quest’ultima, perché chi riprende uno spettacolo di altri sostanzialmente si limita ad adattare l’allestimento al palcoscenico.
Aggiungo solo che il buon regista avrebbe bisogno di uno psicologo (magari bravo, sarebbe meglio) perché la scena è o del tutto spoglia oppure, per riparare a un irrefrenabile attacco di horror vacui, strapiena. Allo stesso tempo però riesce a rendere ancora più statica una vicenda che già di suo non è il massimo dell’ipercinesi.
Meglio la parte strettamente musicale.
Fatti subito gli omaggi e gli inchini del caso all’Orchestra e al Coro del Verdi (teniamoci stretti questi artisti, altroché epurazioni…) passo al direttore, Boris Brott.
Una lettura corretta ma un po’ piatta, quella del maestro canadese. Sono mancati un po’ di passione e sentimento, un po’ di languore, ma almeno, anche nel baccanale, non ho sentito clangori e l’accompagnamento ai cantanti è stato attento e meticoloso, anche se sempre freddino.
Insomma una sufficienza se la merita.
Ian Storey- Samson foto Parenzan
Ian Storey era nei panni ipertricotici e poi ipovedenti e scarsicriniti di Samson e non ha demeritato, anche se la voce è bruttina e la sensazione di sforzo costante. La parte è di scrittura centrale e quindi adatta all’artista che declama con una certa cura di fraseggio e belle intenzioni interpretative.
Un po’ debole la sortita (Arrêtez, ô mes frères) che richiederebbe un accento più imperioso ma buona poi la resa nel duetto, con addirittura qualche bella mezza voce, nella scena della macina e nel finale concluso con un acuto sicuro e penetrante.
Si aggiunga un’imponente figura che indubbiamente s’attaglia al personaggio e una discreta recitazione.
Avevo dubbi sul rendimento di Elena Bocharova, la Dalila di questa produzione, dopo averla sentita nel Requiem di Verdi pochi giorni fa. In realtà il mezzosoprano, pur senza strabiliare, ha cantato in modo discreto.
Certo, il timbro è anonimo e qualche acuto esce schiacciato, ma il volume nel registro centrale è buono e la parte gravita appunto in quella zona.Storey (Samson) Bocharova (Dalila)- foto Prenzan
Nei due momenti in cui l’artista è più esposta (le melodie sono celeberrime o dovrebbero esserlo, meglio dire), l’aria Printemps qui commence e il duetto del secondo atto con Samson che comprende il lungo inciso Mon coeur s’ouvre à ta voix, se la cava egregiamente, grazie a una buona gestione della respirazione che le consente di legare le lunghe frasi melodiche di Saint Saëns.
A completare una discreta prova artistica, da sottolineare una recitazione appropriata, senza atteggiamenti da vaiassa che ogni tanto affliggono questa parte.
Claudio Sgura (poraccio, costretto a cantare in quelle condizioni… se lo vedo gli chiedo come ci si sente), in una parte che non prevede certo grosse finezze psicologiche, ha impersonato bene il Gran sacerdote di Dagon facendo sfoggio di una voce importante come volume e robusta come fibra. Interessanti gli autorevoli accenti nel duetto del secondo atto con Dalila e la beffarda ironia dello scherno a Samson nel terzo atto.
Corretto Alessandro Spina, voce più da baritono che da basso, nella breve ma impegnativa parte di Abimélech.
Vocalmente bravo e incisivo dal punto di vista della recitazione il basso Alessandro Svab nei panni del veillard hébreu.
Routinari gli interventi di Alessandro De Angelis (Premier Philistin), Dario Giorgelè (Deuxième Philistin) e Federico Lepre (Messager).
Samson applausi Il pubblico, già non numerosissimo prima delle defezioni in corso d’opera, ha accolto con applausi che definirei di circostanza tutta la compagnia artistica che, a mio parere, meritava un po’ di calore in più.
Si sono sentite un paio di contestazioni, rumorose ma abbastanza isolate, per la regia.
Infine segnalo che opportunamente la serata è stata dedicata alla memoria del musicista triestino Giampaolo Coral, scomparso nei giorni scorsi.
Il prossimo appuntamento al Verdi di Trieste è con la Salome di Strauss, tra meno di un mese.
Un saluto a tutti!

P.S.
Le foto tratte dal sito del Verdi sono a cura dello Studio Parenzan, le altre sono di ex Ripley!

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