Di tanti pulpiti.

Dal 2006, episodiche esternazioni sulla musica lirica e amenità varie. Sempre tra il serio e il faceto, naturalmente. #verybullo

Divulgazione semiseria dell’opera lirica: Nabucco di Giuseppe Verdi, da venerdì 22 marzo al Teatro Verdi di Trieste.

Nabucco di Giuseppe Verdi è ormai quasi come una tassa, mi si perdoni l’irriverenza, e oltretutto in generale non è proprio una delle mie opere preferite.
Di là di queste considerazioni del tutto personali – e probabilmente fuori luogo – il lavoro di Verdi torna venerdì prossimo al Teatro Verdi di Trieste: è d’uopo perciò la consueta operazione di divulgazione semiseria per coloro che non conoscono quest’opera.
Quando, a proposito di Giuseppe Verdi, si parla di anni di galera, il neofita potrebbe pensare che ci si riferisca a un periodo in cui il nostro compositore più noto fosse in ambasce economiche (o peggio, chissà!): in realtà Verdi dopo il successo straordinario di Nabucco (che debuttò nel 1842) diventò un personaggio molto richiesto da tutti i teatri e il lavoro non gli mancò di certo.
Quell’espressione che evoca fatica e sofferenza, allora, va intesa in un altro modo: stress da superlavoro e probabilmente, ma è un’interpretazione mia, parziale insoddisfazione personale perché Verdi aveva il dono dell’autocritica e la propensione al perfezionismo, che gli facevano percepire – al di là della risposta del pubblico – che in certe occasioni il prodotto finito non era all’altezza dei propri standard.
Del resto, che Verdi fosse molto richiesto è testimoniato dai fatti e dalle date: tra il 1844 e il 1846 sfornò ben cinque opere ( Ernani, I due Foscari, Giovanna d’Arco, Alzira, Attila) e poi, sino al 1850, altre sette (ultima lo Stiffelio). Un tour de force notevole. Cinque opere in così poco tempo sono tante anche per un genio della composizione, significano preoccupazioni di ogni genere.
Il rispetto dei tempi di consegna, per esempio, fu un fattore molto importante e influenzato da più variabili: i capricci dei cantanti, che erano primedonne anche a quei tempi, e pretendevano arie che dessero loro visibilità e trionfi personali. Oppure le incomprensioni con i librettisti, che spesso tendevano a scriversi addosso, ignorando una delle regole irrinunciabili che si era dato Verdi: la brevità che doveva favorire uno sviluppo drammaturgico incalzante.
Tutto questo, e molto altro, andava gestito mentre Verdi viaggiava attraverso l’Italia da una città all’altra, da un teatro nel quale debuttava un’opera a un altro dove s’imponeva una ripresa di un lavoro precedente, magari con un allestimento nuovo.
Inevitabile, allora, scoprirsi o essere scoperti dalla critica se non ripetitivi, almeno autoreferenziali.
Ma torniamo all’epoca pre-Nabucco.
Il Maestro stava passando un momentaccio dal punto di vista psicologico. L’esito del suo ultimo lavoro, Un giorno di Regno, fu a dir poco contrastato, tanto che l’opera fu ritirata dalle scene, e il nostro si ritrovò a soli 27 anni con le batterie scariche.
Cosa gli stava succedendo e da quali circostanze nacque il Nabucco?
Le testimonianze provengono da fonti molto autorevoli, ad esempio da Giulio Ricordi, che segnala come Verdi, in una lettera all’amico Opprandino Arrivabene [un nome meraviglioso, secondo me, tipo Don Diego de la Vega (strasmile)] parlando della genesi di Nabucco scriva così, riferendosi all’impresario scaligero Merelli:

Egli stesso (Merelli) molti mesi dopo mi sforzò a leggere il libretto del “Nabucco”  

Lo scrittore piemontese Michele Lessona, invece, in un suo saggio dedicato alle figure artistiche emergenti dell’epoca, addirittura parla di un Verdi “appartato da tutti” che legge “da mane a sera pessimi libri, e per lo più romanzacci che anche allora si stampavano in gran copia a Milano”. Dopo varie circostanze, il Merelli “fa scivolare in tasca a Verdi il manoscritto di “Nabucco” e il Maestro rimane folgorato dalla frase Va’, pensiero, sull’ali dorate. Dopo pochi mesi, l’opera era pronta.
Lavoro molto particolare, il Nabucco. Verdi stesso sostiene che “con quest’opera si può dire veramente che abbia principio la mia carriera artistica.” E pensare che Merelli, dopo tanto certosino lavoro ai fianchi del compositore, decise di allestire lo spettacolo anche perché poteva riciclare i costumi e gli scenari di un balletto intitolato “Nabuccodonosor” di Antonio Cortesi. Insomma la spending review è sempre esistita.

Temistocle Solera

Il librettista di Verdi in questa circostanza fu un personaggio davvero singolare, Temistocle Solera, che già aveva collaborato col Maestro di Busseto per l’Oberto.
Questo Solera, da ragazzino, era scappato da un convitto viennese per lavorare in un circo itinerante; in Ungheria poi era stato arrestato dalla polizia austriaca ma non prima di aver goduto, a quanto pare alla verde età di 13 anni, “dei maturi favori della padrona del circo stesso”.
Julian Budden, uno dei più autorevoli studiosi di Verdi, ci informa ancora che negli anni successivi Solera, dopo aver rotto il sodalizio artistico con Verdi, fu impresario teatrale a Madrid, presunto amante della Regina Isabella di Spagna, editore di una rivista ecclesiastica a Milano, corriere segreto tra Napoleone III e il Kedivé d’Egitto , acquaiolo a Livorno e antiquario a Firenze.
Un uomo dai molteplici talenti (strasmile).
Resta il fatto che proprio Solera è uno degli artefici principali del successo di Nabucco.
Il librettista si rifece sia al balletto nominato qualche riga più sopra sia al dramma da cui lo spettacolo fu tratto ( “Nabuccodonosor”, di Anicète Bourgeois e F. Cornue), traendo però da entrambi i lavori le peculiarità più funzionali alle particolari dinamiche drammaturgiche verdiane: straordinaria, nello specifico, la centralità narrativa data al coro.
I ruoli principali di Nabucco sono tutti di grande difficoltà e come sempre a quei tempi la tessitura vocale venne cucita su misura alla vocalità dei migliori interpreti sulla piazza: il baritono Giorgio Ronconi, Nabucco, e il basso profondo Prosper Dérivis, Zaccaria.
Curiosamente proprio la parte più spaventosa dal punto di vista artistico, invece, cioè quella della terribile Abigaille (grandiosa la sua entrata sprezzante: “Prode guerrier!… d’amore Conosci tu sol l’armi?”  che già ci fa capire che è un tipino tosto) non fu sartorialmente pensata per un soprano in particolare, e Giuseppina Strepponi (la futura Signora Verdi) s’assunse l’onere del debutto.
Un’altra curiosità su quest’opera, tra le tante che si potrebbero citare: Solera la divide non in atti, ma in quattro quadri, ognuna con un titolo. Inoltre, volle aggiungere a ogni quadro una frase tratta da Geremia.
Anche in questo lavoro, Verdi conferma la sua grande propensione allo studio dell’arte rossiniana, in particolare si riconoscono echi del Guillamme Tell e ispirazioni strutturali dal Moïse et Pharaon.
Chiudo con un’ultima considerazione.
Dal punto di vista psicologico (e anche strettamente vocale, con quella scrittura nervosa, tutta sbalzi) i ruoli sopranili di Abigaille e Lady Macbeth hanno parecchi tratti in comune: la sete di potere, l’assenza di scrupoli morali.
Domanda da pochi cent: chi è stata la più grande cantante interprete di Abigaille e Lady Macbeth?
Prendetevi dieci minuti e ascoltate una delle più grandi performance vocali di cui esista traccia sonora.

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