Allora, cominciamo col dire subito che il tratto appenninico dell’Autostrada del Sole è a dir poco pericoloso, ho rischiato di lasciarci la pelle più volte, magari schiacciato tra un paio di TIR che, bontà loro, viaggiavano sui 140km/h! Poi, giocoforza, i disgraziati si sono calmati perché è iniziato a piovere e c’era pure la nebbia.
Maledetta l’ora che ho deciso di muovermi in automobile.

Bene, detto questo, anticipo subito in apertura i complimenti a ex Ripley per le belle foto (potete vederle tutte qui) che ha scattato al Regio di Parma, in occasione di questi Vespri Siciliani che sono stati contestati alla prima di domenica scorsa, dopo che la generale aveva convinto tutti e fatto sperare in un esordio meno problematico.
Ieri il tenore Fabio Armiliato, annunciato indisposto già all’inizio, si è esibito regolarmente e ha cantato bene nonostante la labirintite di cui soffre e che è stata certificata dal medico.
Ma andiamo per ordine.
Come ho già scritto in un post precedente, I Vespri sono un’opera assai difficile e di rara esecuzione. A Parma (!) non si dava, mi pare, da più di un secolo.
Il Festival Verdi di quest’anno è stata l’occasione per riproporre questo lavoro con un cast d’assoluto rilievo, affidato alla regia di Pier Luigi Pizzi e alla bacchetta di Massimo Zanetti.
Ho raccolto numerose e giustificate proteste per la decisione di Pizzi di far svolgere parte dello spettacolo in platea: spesso il Coro e i protagonisti dal loggione, ma anche da alcuni palchi, non si vedevano. Anche il grande specchio obliquo sopra il palcoscenico era invisibile da molti punti del teatro. Non va bene, accidenti, gli spettatori pagano biglietti salatissimi (io ho speso 150 euro per me e mia moglie) e hanno il diritto di vedere e non d’intuire.
Poi, è anche vero che non si sono persi molto, perché l’allestimento di Pizzi (che firma regia, scenografia e costumi) è l’ennesimo rimasticamento di vecchie idee già viste: I vespri scaligeri di un paio di decenni fa, poi a Busseto e ancora Il crociato in Egitto alla Fenice di Venezia.
Uno spettacolo gradevole ma statico, con qualche momento assai brutto (il duetto Monforte-Arrigo, a sipario semiaperto dietro al quale si distinguono un paio di divani rubati in qualche discarica).
Belli invece i costumi, semplici ma funzionali. Luci da sala settoria, piuttosto lugubri.
Veniamo ora al lato musicale, cominciando col lodare l’Orchestra del Teatro Regio che ha sfoggiato un suono molto bello, pieno e caldo.
La direzione di Massimo Zanetti è stata nel complesso accettabile, seppure in alcune occasioni un po’ clangorosa nelle strette ed episodicamente priva di nerbo (duetto Monforte-Arrigo). Molto bene nella magnifica sinfonia iniziale, invece, e anche attenta nell’accompagnamento dei cantanti.
Daniela Dessì era nei panni, scomodissimi a dir poco, di Elena.
Ebbene il soprano ha dato un’ulteriore conferma della sua bravura e della sua classe in una parte difficile e che non le è congeniale. La Dessì ha una grande qualità, che ho sottolineato già altre volte qui sul blog e in sede di recensione ufficiale: non butta via alcuna frase perché è docente di quel concetto, tanto caro a Verdi, che è la parola scenica. Ma non basta, perché nonostante si percepisca qualche tensione negli estremi acuti (specie nel Bolero) la voce è sonora e corre benissimo in teatro: svetta nei concertati, tra l’altro.

Aggiungiamo la capacità di alleggerire il suono con pianissimi d’alta scuola (Arrigo, ah, parli a un core), i trilli, le messe di voce e la padronanza assoluta del palcoscenico, la recitazione sempre pertinente e il carisma della grande interprete.
Applausi a scena aperta per lei dopo l’aria del quarto atto.
Fabio Armiliato, immagino, doveva essere in una condizione psicologica sgradevolissima dopo il malanno che lo ha colto durante la prima recita. Bene, io credo che proprio il desiderio di rivincita gli abbia conferito la necessaria concentrazione per riscattarsi pienamente, dopo aver ricevuto critiche davvero ingenerose.
Chiunque vada in teatro sa che le serate storte o le indisposizioni sono capitate a tutti gli artisti, compresi i grandissimi, in tutte le epoche. Anche questo l’ho già scritto altre volte: i cantanti hanno il grande difetto di essere umani.

Arrigo è una parte monstre, per me la più difficile che abbia scritto Verdi per tenore: schiettamente lirica nei primi tre atti, vira in modo deciso sul drammatico negli ultimi due. In questo caso è stata tagliata l’aria del quinto atto (che prevede addirittura un re sovracuto) ma nonostante ciò gli acuti sono tanti e scomodi. Soprattutto è massacrante la tessitura complessiva della parte, che è lunga oltretutto e comprende duetti con Monforte e con Elena, oltre che la celeberrima Giorno di pianto che apre il quarto atto (anche qui applauso a scena aperta del pubblico).
Armiliato convince per il fraseggio sempre curato, per la dolcezza dei duetti con Elena, per il vigoroso accento degli scontri con Monforte. La stanchezza si percepisce nel quinto atto, quando gli acuti tendono ad essere forzati, ma non è certo un peccato mortale, considerata anche l’indisposizione annunciata.
A mio parere, anche per Armiliato vale la considerazione che ho fatto poco sopra per la Dessì: si disimpegna bene ma non nuota nel suo mare, Arrigo non sarà mai un ruolo che padroneggia come, ad esempio, l'Alvaro della Forza del Destino in cui ha ottenuto un clamoroso successo a Vienna il mese scorso.
Poi, nella parte ambigua (come spesso capita, in Verdi, per i baritoni) di Guido di Monforte, c’era Leo Nucci.
Nucci mi è sembrato in serata positiva e, nonostante abbia palesato qualche stanchezza vocale e occasionali slittamenti d’intonazione, l’ho trovato più sorvegliato del solito nell’interpretazione, improntata a una signorile sobrietà e pacatezza. La parte è piuttosto acuta e quindi il Leo nazionale è a suo agio, ma al di là di questo ho apprezzato che abbia cercato (e trovato) accenti sfumati e non abbia cantato tutto forte.
Molto bravo nella famosa In braccio alle dovizie, nella quale è stato, giustamente, premiato dal pubblico.
Giacomo Prestia ha un bel vocione da basso vero, adatto alla parte. Non ha bisogno di gonfiare i suoni e questa circostanza lo aiuta molto a connotare di autorevolezza non sbracata un personaggio imponente come Giovanni da Procida.
Veramente suggestiva e centrata l’interpretazione di un’altra aria famosa di quest’opera, O tu Palermo, accolta con grande entusiasmo dal pubblico parmigiano.
Prestia è risultato però efficace e convincente in toto, quarto e quinto atto compresi.
Resta da dire del Coro, ottimo, e dei comprimari, tutti protagonisti di una prova discreta: il Bethune di Dario Russo, il Vaudemont di Andrea Mastroni, Adriana di Paola e Raoul D’Eramo nei panni della coppia Ninetta e Danieli, il Tebaldo di Roberto Jachini Virgili, Alessandro Battiato e Camillo Facchino quali Roberto e Manfredo.

Il pubblico ha tributato un grandissimo successo a tutta la compagnia di canto, con applausometro “fuori giri” per Giacomo Prestia e ovazioni equamente distribuite a Daniela Dessì, Fabio Armiliato e Leo Nucci.
E pensare che solo un paio di giorni prima c'erano stati applausi solo per Prestia e Nucci, mentre a tutti gli altri erano state indirizzate contestazioni (Pizzi compreso) o gelidi silenzi.
Ma questo è uno dei tanti fascini del teatro, l'imprevidibilità che ogni tanto spiazza, nel bene e nel male, le previsioni degli esperti.
Ho scritto molto e quindi vi risparmio le mie valutazioni su culatello e torta fritta, di cui io e ex Ripley (soddisfatta ed emozionata dallo spettacolo) abbiamo abusato (smile).
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